venerdì 16 gennaio 2009

Economia USA e crisi

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Economia USA e crisi

di Joseph Halevi

La dinamica della crisi economica statunitense va affrontata da un punto di vista storico. Contrariamente a quanto di norma si ritiene, tale crisi non è un problema interno degli Stati Uniti propagatosi poi all’esterno, ma è il frutto dei rapporti che si sono sviluppati nel tempo fra gli Usa e il resto del mondo. Il crescente indebitamento estero, che ha alimentato la domanda interna degli Usa a partire dal 1971, è stato l’elemento trainate anche della domanda delle economie industrializzate, in particolare Europa e Giappone e, successivamente, della Cina. La situazione attuale, dunque, non può essere compresa se non si considera l’interesse di tali paesi a dirigere il loro flusso di esportazioni verso gli Stati Uniti.

Questi i concetti economici che stanno alla base della nostra analisi:

- l’accumulazione capitalistica è vincolata dalla domanda e solo occasionalmente dall’offerta di materie prime o di lavoro;

- i prezzi, come insegna la teoria di Paolo Sylos Labini, si formano sulla base dei margini di profitto che le imprese riescono a caricare sui costi grazie al loro potere oligopolistico. Non vi è nessun legame sistematico tra margini di profitto e investimenti produttivi.

Da quanto sopra enunciato discende che non vi sono leggi generali che spiegano l’andamento dell’economia e quindi l’unico approccio possibile è quello storico.

Premettiamo che la crisi attuale non è americana, bensì mondiale. Gli Stati Uniti ne sono il fulcro, semplicemente perché gli altri blocchi e paesi, dall’Unione Europea alla Cina e al Giappone, hanno scientemente incentrato il loro processo di accumulazione capitalistica sul grande paese d’oltre oceano. I tentativi delle classi dirigenti politiche europee di scaricare sugli USA la responsabilità principale della crisi, dopo almeno due decenni di elogi del sistema finanziario americano e della flessibilità del mercato del lavoro (che in pratica ha significato la caduta dei salari), è pura demagogia populista simile a quella che negli anni della Grande Depressione portava gli allora governi d’Italia e di Germania a denunciare le ‘plutocrazie’ anglosassoni.

Il ruolo centrale degli USA nell’economia mondiale è divisibile, dal 1940 in poi, in due fasi1. La prima fase va dal 1940 al 1971 e termina con l’annuncio da parte del Presidente Richard Nixon della fine del cambio fisso tra dollaro e oro e, di conseguenza, del cambio fisso tra il dollaro e le monete dei paesi capitalistici ‘avanzati’. In questa fase l’azione USA a livello mondiale ha un effetto trainante sulle economie capitalistiche avanzate, Europa occidentale e Giappone, e sui paesi di nuova industrializzazione come la Corea del Sud e Taiwan. Lo scontro militare ed economico avviene nei confronti dell’ex-periferia coloniale, in quanto dal Piano Marshall alla ricostruzione dell’economia nipponica, gli USA operano con uno schema in cui il ruolo delle ex colonie e dell’America latina rimane quello, assai incongruente, di fornire simultaneamente materie prime a basso prezzo e funzionare da mercato per i prodotti industriali occidentali. La politica americana viene condotta attraverso la spesa pubblica militare sia in relazione a guerre vere (Corea a Vietnam) sia in relazione alle alleanze politiche (Nato, Giappone, Corea, Taiwan). La massiccia spesa USA genera un enorme effetto moltiplicativo sia sul mercato interno sia nei paesi occidentali. Negli Stati Uniti il periodo fino al 1960 si caratterizza per una crescita del consumo inferiore al prodotto nazionale lordo a causa della grande espansione del complesso oligopolistico militar-industriale. I salari reali tuttavia aumentano grosso modo allo stesso ritmo della produttività, per cui il potere d’acquisto della popolazione si accresce senza creare problemi di indebitamento. Tale trend positivo arriva all’apice nel pieno della guerra del Vietnam grazie alla quale l’industria raggiunge un tasso di utilizzazione della capacità produttiva di oltre il 90%, un limite che non verrà mai più toccato dopo la svolta del 1971. In questo periodo la quota dei salari sul prodotto interno lordo aumenta malgrado il conflitto nel sudest asiatico. Negli anni Sessanta, sebbene lo scambio di merci fosse ampiamente attivo, la bilancia dei pagamenti Usa si deteriora a causa del saldo passivo delle partite invisibili (servizi e trasferimenti). Col regime di cambi fissi allora vigente, squilibri anche piccoli non corretti hanno effetti cumulativi che riducono i margini della politica economica e creano un problema di credibilità per il dollaro, apertamente denunciato da de Gaulle nel 1965. Ne scaturisce la decisione di Nixon di abbandonare Bretton Woods quando alla crisi politica indotta dalla guerra nel Vietnam si aggiunge il passivo della bilancia dei pagamenti.

La svolta del 1971 apre la seconda fase che forse sta terminando con questa crisi e che si contraddistingue per la non cooperazione economica degli USA con l’Europa e il Giappone, mentre questi restano legati a Washington attraverso le esportazioni. I mutamenti avvenuti nel 1971 si concretizzano in una scelta di fondo che unifica politica economica, sistema finanziario e posizione militare degli USA solo con l’elezione di Ronald Reagan nel 1980. La scelta della presidenza Reagan è quella di trasformare il fronte interno nel perno della forza internazionale degli Usa. Viene dunque gettata alle ortiche l’alleanza big business-big unions che aveva contraddistinto il periodo 1940-71 e che era sopravvissuta in maniera anemica nel decennio Nixon-Ford-Carter. Come recentemente ammesso da Paul Volcker, presidente della Banca Federale durante il primo mandato di Reagan, la disinflazione di quel periodo non è il risultato della politica monetaria restrittiva, bensì il prodotto dell’attacco frontale ai sindacati durante la grande crisi occupazionale del 1981-1982. Il ruolo della politica monetaria è quello di riproporre la centralità forte del dollaro sul piano internazionale e di aprire spazi alle grandi imprese oligopolistiche per ristrutturarsi e delocalizzarsi su una base geografica mondiale. Quasi contemporaneamente il rilancio della spesa pubblica militare di Reagan ristabilisce il ruolo centrale del complesso militar-industriale il cui orientamento era entrato in crisi con la fine della guerra del Vietnam, con i trattati Start che limitavano lo sviluppo missilistico, ed infine con la sconfitta iraniana nel 1979. Quest’ultima, di gran lunga più grave della vicenda vietnamita, colpisce il complesso militar-industriale in quanto lo Scià era uno dei maggiori destinatari delle esportazioni di armamenti ai massimi livelli di innovazione tecnologica. Danneggia anche il complesso della multinazionali USA del petrolio. Inoltre la perdita dell’Iran colpisce in maniera considerevole il circuito finanziario dei petrodollari e il loro collocamento nelle banche USA. Con la politica Volcker-Reagan gli interessi dei settori militar-industriali, energetici e finanziari vengono accorpati in una strategia coerente che va a scapito dei salari e della produzione industriale civile nazionale.

Cosa accade a questo punto? La politica reaganiana, caratterizzata da alti tassi di interesse, elevato deficit pubblico e alto valore del dollaro, porta a un rilancio della domanda interna, a una delocalizzazione massiccia e a un notevole aumento delle importazioni. La delocalizzazione e l’outsourcing trasformano gli USA in un’economia globale d’importazione ove il deficit estero continua a espandersi anche quando il dollaro riprende a calare dopo gli accordi del Plaza del 1985. In questo contesto si cementa la tossicodipendenza dal mercato statunitense dell’Europa, del Giappone, dell’est e sudest asiatico. Per l’Europa non Deutschland le esportazioni nette verso gli USA costituiscono la via di scampo che salva la bilancia commerciale, altrimenti in deficit nei confronti della Germania. Quest’ultima infatti realizza in Europa enormi avanzi commerciali. In Giappone, Corea ed Europa, in momenti diversi, viene compressa la domanda interna e la domanda globale dipende essenzialmente dall’American Dream. La funzione e l’obiettivo di questi paesi diventano prevalentemente quelli di riciclare il deficit statunitense in direzione degli USA stessi. Ma negli anni Ottanta irrompe il capitalismo cinese tramite accordi diretti con Washington (infatti alla Cina, già ammessa nel 1980 al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, viene subito conferito lo stato di nazione favorita). Negli anni Novanta l’uovo si rompe ed invece di un pulcino esce un aquilotto famelico che si prende assai rapidamente il grosso delle importazioni nette USA. La strategia di Europa e Giappone non funziona più, ma tali paesi si sono nel frattempo privati di alternative economiche e istituzionali, per cui non possono che continuare nella stessa direzione: puntare sulla domanda estera netta USA.

Gli USA devono quindi crescere per assorbire le esportazioni mondiali. Ed in effetti lo fanno, ma come? Prendiamo come riferimento le serie storiche pubblicate annualmente nell’Economic Report of the President (edizione 2008, disponibile in rete). Tra l’anno di partenza della serie, il 1959, ed il 1980, l’aumento del prodotto interno lordo USA è leggermente inferiore alla crescita del reddito personale diponibile (cioè il reddito della famiglie al netto delle tasse). Quest’ultimo aumenta più rapidamente della spesa per consumi. Quindi nell’insieme il bilancio corrente delle famiglie migliora. Dopo il 1980 il reddito disponibile aumenta meno del prodotto interno lordo, ma la spesa per consumi cresce significativamente di più del prodotto lordo. Ne consegue che la tendenza del reddito disponibile è opposta a quella della spesa delle famiglie. E’ in questo divario che si inserisce il crescente indebitamento americano. Sarebbe tuttavia fuorviante concludere che l’espansione della spesa per consumi sia dovuta ad una frenesia irrazionale. Essa scaturisce dalle condizioni materiali di vita negli Usa, in particolare dall’aumento vertiginoso delle spese mediche, cui si deve sommare la crescita delle spese per l’istruzione. Nei confronti delle prime il rapporto del presidente fornisce solo i dati nominali, mentre non riporta gli esborsi per le seconde. Usando le spese mediche e considerando che la dinamica dei rapporti tra prodotto lordo nominale e spesa nominale per consumi da parte delle famiglie non si discosta molto dalla serie reale, osserviamo che il peso delle spese per la sanità sul totale dei consumi, passa dal 5% nel 1959, all’8% del 1980, al 17% del 2006. La dimensione del problema che conduce il lavoro dipendente non dirigenziale nel vortice dell’indebitamento, si percepisce osservando l’andamento del rapporto tra il reddito salariale lordo ed il reddito lordo delle famiglie nel loro complesso. Tale rapporto raggiunge il massimo nel 1970 toccando il 73%, poi scende gradualmente fino a toccare il 67% nel 2006.

Dopo il 1970 gli Usa accentuano la loro trasformazione in un’economia trainata dai consumi, per cui la composizione del prodotto lordo è vieppiù determinata dai settori dei beni di consumo. Tuttavia il reddito lordo delle famiglie – e quindi anche quello disponibile – cresce meno del Pil. Se la spesa per consumi si fosse limitata alla dinamica del reddito disponibile e di quello salariale in particolare, la crescita del Pil sarebbe stata inferiore e la tendenza alla stagnazione sarebbe presto emersa. L’economia della bolla speculativa si annida nel divario crescente tra il reddito delle famiglie e le percepite necessità di spesa da un lato e la reale tendenza alla stagnazione dall’altro. La formazione della bolla è stata resa a sua volta possibile dalle politiche monetarie e fiscali. Non si tratta però unicamente di un’idea geniale di Alan Greenspan, per il quale l’alleggerimento fiscale per le classi abbienti e il credito facile dal rischio assicurato attraverso le cartolarizzazioni diventano lo strumento principale per rafforzare sia i rapporti di classe che la dinamica economica. La costruzione di una bolla creditizia si impone durante tutti gli anni Ottanta e Novanta di fronte al riprodursi di una fragilità finanziaria sconosciuta nei precedenti decenni. Assistiamo infatti al fallimento della banca Continental Illinois agli inizi degli anni Ottanta, al crollo di Wall Street nel 1987, al recupero dal fallimento di oltre cento banche texane nel 1988, al salvataggio delle Savings and Loans nel 1989, delle società finanziarie USA impelagatesi in Messico nel 1995, fino alla megaoperazione di rifinanziamento della Long Term Capital nel 1998. Ognuna di queste azioni richiede una grande elargizione di liquidità, in cui le istituzioni interessate non sono in pratica tenute a rimborsare i denari. Tale ‘politica’ instaura volutamente un clima di rischio morale spingendo le società finanziarie ad allargare la cerchia dei clienti, coadiuvate da misure legislative che cancellano le barriere che impedivano alle banche commerciali di giocare in borsa.

Tuttavia, anche l’espansione del rischio morale riguarda un processo che ha radici nella realtà dell’economia. Non si tratta pertanto unicamente di errori o eccessi. Ad ogni manifestazione della fragilità finanziaria si aprono delle crisi e dei fallimenti di organismi il cui recupero richiede l’apertura di altri terreni di azione. Le crisi bruciano delle fonti di lucro, mentre le massicce iniezioni di liquidità offrono la possibilità di far fruttare i soldi coinvolgendo altri strati sociali nel processo di indebitamento, contando sulla dispersione del rischio attraverso i cosiddetti ‘veicoli di investimento complessi’. Senza l’allargamento della sfera di potenziale contagio la stagnazione riemergerebbe attraverso la dinamica del prodotto lordo verso quella, più contenuta, del reddito personale. In effetti la bolla appare sostenibile fintanto che la componente principale si situa nel settore finanziario per cui l’instabilità si presenta come un crisi di liquidità. Ma già con la crisi delle società ‘tecnologiche’ dotcom del 2000, simile alle crisi di sovrainvestimento nelle ferrovie private alla fine del diciannovesimo secolo, il problema comincia a diventare reale. L’economia viene però rilanciata combinando l’emissione illimitata di liquidità in seguito all’attacco al World Trade Center di New York il 9/11/2001 con il vasto rilancio del deficit di bilancio connesso alla spesa militare per le guerre in Afghanistan ed in Iraq. La quantità di liquidità disponibile permette di allargare le maglie dell’indebitamento ad ulteriori strati di popolazione, proprio quelli più insolventi, che non potranno (nel 2007) pagare i debiti facendo così crollare il castello di carte.

Si tratta di un meccanismo unico, in cui scompare la dicotomia tra interno ed estero. Le imprese USA delocalizzano ed usufruiscono del potere oligopolistico per ottenere i margini di profitto desiderati attraverso la catena di valorizzazione. Produrre in Messico o in Cina permette di mantenere prezzi abbordabili per una popolazione (quella USA) i cui salari reali sono in calo e per la quale capitoli di spesa come la sanità e l’istruzione sono un vero incubo. I paesi con la domanda interna stagnante e la Cina contribuiscono attivamente alla rivitalizzazione di tale meccanismo. Acquistano titoli USA che permettono a Washington di allargare il deficit estero senza pressione sui propri tassi di interesse, rendendo pertanto possibile l’erogazione di ulteriori prestiti interni in un contesto ove la base di reddito diventa, assurdamente, un aspetto secondario nella concessione di crediti. E’ un meccanismo globalmente fallimentare il cui fulcro era negli USA, ma che Washington da sola non avrebbe potuto mantenere così a lungo.

* Joseph Halevi insegna Economia all’Università di Sidney ed è collaboratore de “Il Manifesto”.

[1] Nel 1940 entra in vigore il programma lend and lease con il quale gli USA finanziano lo sforzo bellico britannico. La disoccupazione americana comincia a calare rapidamente ponendo fine alla Grande Depressione.

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