lunedì 25 maggio 2009

Il capitalismo assoluto e i suoi oppositori

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=9174

Intervista di Alessandro Bedini a Marino Badiale e Massimo Bontempelli - da ecodibergamo.it

Nei vostri libri muovete diverse accuse ai partiti della cosiddetta sinistra affermando che questa ha di fatto accettato il modello del capitalismo assoluto abdicando così alla propria funzione storica. Potete spiegarvi meglio?“Capitalismo assoluto” è un’espressione che abbiamo introdotto per indicare la fase recente del capitalismo, nella quale il modello aziendalistico diviene l’unico modello accettabile di organizzazione della realtà sociale, ogni aspetto della vita sociale viene pensato in termini aziendali (investimenti, profitti), e il paese stesso non è più una nazione ma un’azienda, l’ “azienda-Italia”. Utilizzando i concetti della tradizione marxista, possiamo dire che in questa fase storica il “modo di produzione” capitalistico tende a coincidere con la “formazione sociale” (con la concreta società in cui viviamo), e il capitalismo diviene “assoluto” perché non si limita più a indirizzare la dinamica sociale ma permea ogni aspetto della realtà.Questi sviluppi, che caratterizzano gli ultimi 25-30 anni, hanno portato a un profondo regresso rispetto alle conquiste che i ceti subalterni avevano conquistato nei trent’anni del secondo dopoguerra, generando una radicale perdita di diritti e redditi. E’ facile constatare che, in tutto il mondo occidentale, la sinistra non ha fatto nulla per combattere questi fenomeni ma anzi li ha fiancheggiati e favoriti. Più che lanciare accuse, nei nostri libri tentiamo di capire i motivi di questa rinuncia della sinistra al ruolo da essa sostenuto in una lunga fase storica, ruolo che era appunto quello di lottare per la giustizia sociale e l’emancipazione delle classi subalterne. Ci sono diversi ordini di spiegazioni. Sul piano storico ha inciso ovviamente la sconfitta di tutti i tentativi novecenteschi di superamento del capitalismo. Sul piano teorico, il punto decisivo secondo noi sta in una ideologia del progresso che pone la storia come fonte ultima di legittimazione dell’azione politica. Ma il culto della storia come fonte di legittimazione equivale al culto della forza, perché nella storia vince chi è più forte. E se è vero che la base della visione del mondo della sinistra è stata, in ultima analisi, il culto della forza, è chiaro che di fronte alla forza del capitalismo la sinistra doveva finire per convertirsi ad esso.Altra tesi da voi sposata è che destra e sinistra sarebbero in sostanza la stessa cosa in quanto entrambe si rifanno al “totalitarismo neoliberista”. Precisiamo che con “totalitarismo neoliberista” intendiamo la stessa cosa di “capitalismo assoluto”. Quanto al contrasto fra destra e sinistra, non neghiamo che fra di esse ci siano delle differenze, ma affermiamo piuttosto che tali differenze non riguardano nulla di essenziale per quanto riguarda il governo della società e dell’economia.Sinistra e destra, come parti politiche che si alternano ai governi dei paesi occidentali, non hanno altro ruolo che quello di far accettare alla maggioranza della popolazione il regresso, la perdita continua di diritti, il peggioramento della vita che l’attuale organizzazione economica richiede.Dunque che cosa dovrebbe fare oggi un elettore che per molte ragioni si sente ancora di sinistra?Essere di sinistra ha significato essenzialmente due cose: lottare per la giustizia sociale e l’emancipazione delle classi subalterne, e lottare per il progresso e lo sviluppo economico. Per due secoli è stata possibile la sinistra perché le due cose (emancipazione e sviluppo) in sostanza correvano parallele. Oggi non è più così, oggi lo sviluppo capitalistico (l’unico sviluppo esistente) significa distruzione dell’ambiente, perdita di diritti, peggioramento della vita. Una persona che si senta ancora legata agli ideali di giustizia sociale ed emancipazione che furono della sinistra deve rompere con tutte le forze politiche di sinistra (ormai diventate attivi strumenti di de-emancipazione), e porsi nell’ottica della critica allo sviluppo, cioè di quella che oggi viene chiamata “decrescita”.Accettando la sfida da voi lanciata di riuscire a leggere il presente come storia in che modo interpretate la crisi che stiamo vivendo? Siamo forse al collasso del capitalismo assoluto?La crisi economica attuale è una crisi seria. Ci permettiamo di formulare una previsione: le voci ottimistiche che si sentono in questi giorni, sul fatto che il peggio è ormai passato, saranno secondo noi smentite entro l’anno. La crisi è seria perché discende dalle caratteristiche di fondo dell’attuale fase capitalistica: l’abbassamento del livello di vita delle classi subalterne ha creato in tutto il mondo occidentale un deficit di domanda solvibile, al quale si è tentato di rimediare con il credito facile, che a sua volta ha generato la bolla speculativa poi esplosa con le conseguenze note. Non siamo certo in grado di affermare che questa sia la fine del capitalismo, ma è molto probabile che la crisi segni l’inizio della fine per quella forma particolare di organizzazione che il capitalismo si è dato negli ultimi trent’anni (“globalizzazione”, “neoliberismo”). Cosa verrà dopo di questo non possiamo saperlo. Data la totale mancanza di forze politiche in grado di indirizzare la crisi verso forme di organizzazione sociale capaci di maggiore giustizia, è assai probabile che ciò che emergerà dalla crisi sarà un capitalismo più feroce e inumano di quello attuale, un capitalismo “alla cinese”, per intenderci. In ogni caso ci sembra che la crisi economica stia accentuando alcuni processi di crisi della civiltà occidentale che erano già in corso. Questa crisi di civiltà è il tema del libro al quale stiamo attualmente lavorando, libro che dovrebbe uscire nel prossimo autunno.

Così è se vi pare

Si dice che un Paese che perde la memoria del suo passato sia condannato a ripetere i suoi errori. L'Italia non ha questo problema. Non ha nulla da ricordare.

qui trovate l'intero articolo:
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venerdì 22 maggio 2009

C’è del bene comune in Danimarca

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=9161

lo vedi? Il termine valori.. non deve fare poi tanta paura.
Ed è vero quindi che non ci sono più i valori... di una volta.

COPENAGHEN - La dimensione politica degli ultimi anni si è spesso servita di una pericolosa alchimia mediatica per impadronirsi dell’immaginario collettivo. Il dato più preoccupante è che essa ha dato vita a un mutamento non temporaneo ma, verosimilmente, di lungo periodo della dimensione culturale, per certi versi quasi antropologica, nel nostro Paese.
La necessità di un’inversione di tendenza mi è parsa particolarmente evidente alcuni giorni fa, mentre ero immerso in una lettura accademica all’Università di Copenhagen. Stavo leggendo un articolo sulla cultura come strumento di competitività nelle strategie danesi legate alla globalizzazione. In particolare mi ha colpito come, in quest’ottica, venga attribuita una grande importanza ai valori culturali e morali tipici di una popolazione, cultura naturalmente intesa in senso tradizionale, come insieme di ideali storicamente stratificati. I nuovi principi della dimensione sociale danese, secondo l’autore, sarebbero diventati anche la forza propulsiva dell’economia.
A questo scopo è stato persino adottato un metodo quantitativo di misurazione dei valori tipici di quella cultura. Il Consiglio Nazionale dell’Innovazione, infatti, da alcuni anni sta monitorando e identificando le “best practices”, sulla base delle virtù in cui la Danimarca eccelle rispetto ad altri Paesi (la cd. “World Class Danishness”). Secondo un rapporto di tale istituzione, del 2005, la world-class corrisponderebbe a una certa visione umanistica della cultura danese: «I Danesi non credono nei sistemi, ma credono nelle persone, nel fatto che il singolo individuo possa fare la differenza».
Una simile concezione positiva dell’essere umano, basata sul riconoscimento della fiducia reciproca e sul rispetto tra individui uguali fra loro, favorisce un meccanismo di cooperazione interpersonale e di gerarchie pressoché inesistenti, tanto che questo sistema, a quanto pare, si sta trasformando in un vero e proprio vantaggio competitivo anche a livello economico. Il concetto di “cohesive power” - la condivisione di valori comuni molto forti, da non confondersi con il termine “nazionalismo” - è diventato uno dei cavalli di battaglia del governo liberal-conservatore al potere a Copenhagen. Alcuni sondaggi internazionali degli ultimi anni, infatti, hanno riscontrato che i danesi sono tra le popolazioni al mondo con il maggior senso di fiducia reciproca. Questo sentimento comune facilita un clima di maggiore distensione, grazie al quale le persone si sentono tranquille, al sicuro e, di conseguenza, possono cooperare liberamente per il bene comune. Il senso di fiducia, dunque, contribuirebbe a un certo dinamismo della società, così come al benessere stesso dei cittadini. Il motivo di tanto senno sarebbe da ricercare in una sorta di “individualismo comunitario” tipico di quella società in quanto, se è vero che quella danese è una cultura individualista - ma non nel senso dell’individualismo “laissez-faire” - è altrettanto certo che essa si fonda anzitutto su valori di eguaglianza, responsabilità e rispetto.
copenhagenE quali sarebbero le strategie per una simile conversione? In primo luogo un approccio orientato all’“user-driven innovation” secondo cui la tecnologia non sarebbe il motore privilegiato per creare innovazione, bensì le reali esigenze dell’utente del bene o servizio, della persona che dovrà usufruirne e che diventa così parte attiva nel processo di sviluppo. Tale metodo si manifesterebbe anzitutto nelle relazioni di cooperazione tra le aziende e il consumatore finale, sfruttando una logica di networking. D’altra parte una tendenza particolarmente diffusa in molti Paesi del Nord Europa, in questi ultimi anni, è quella di servirsi di profonde analisi etnografiche in vari settori: dall’economia al business, dall’architettura al marketing, dalla politica al sociale.
L’altro asse strategico riguarda, invece, la particolare attenzione alla qualità della vita, ai cosiddetti settori “etici” e quindi cruciali per tutta la società danese, in quanto offrono un solido vantaggio competitivo nell’era della globalizzazione. Per queste ragioni i Paesi scandinavi – e la Danimarca in particolar modo in questo contesto – appaiono come una delle poche realtà al mondo in grado di generare un vero cambiamento dal basso, a partire dalle risorse intrinseche di quella cultura, che agiscono a livello individuale prima ancora che collettivo. Un bell’esempio di democrazia “reale” e condivisa.
Certo sarebbe ingenuo pensare che in Italia si possa improvvisamente instaurare lo stesso senso di fiducia e di cooperazione, soprattutto dopo gli ultimi anni di aspro confronto e conflitti di parte. D’altronde il continuo attaccamento al potere dimostrato da una classe politica, intenta ad auto-perpetuarsi in un costante sforzo di foga autoreferenziale, non rappresenta proprio la mancanza di una certa visione del bene comune, del cohesive power appunto?
La Danimarca è un Paese giovane, è un dato di fatto che si osserva ovunque, anche semplicemente passeggiando nelle strade. I giovani contribuiscono in maniera determinante all’evoluzione di tutta la società. Alcune settimane fa, sempre a Copenaghen, ho assistito alla premiazione di un concorso di architettura, a cui avevano partecipato varie aziende locali. Era impressionante constatare come la maggior parte di quelle aziende fosse costituito da giovani al di sotto dei trent’anni. È il tipo di cambiamento che servirebbe anche in Italia: creatività, entusiasmo, sensibilità nuove.Persone con caratteristiche simili se ne incontrano anche da noi, individui che con le loro idee innovative potrebbero fornire un contributo molto elevato. Tali risorse, tuttavia, rischiano di dissiparsi nella routine quotidiana e nel degrado di modelli economico-culturali di stampo qualunquista e individualista. Le nuove generazioni hanno avuto la fortuna di viaggiare, di conoscere altre culture e di confrontarsi con il mondo globalizzato in tutte le sue componenti. Gente in grado di assumersi delle responsabilità se solo, finalmente, ne avesse l’opportunità.
Anche nella nostra società dunque, nonostante la trasformazione della dimensione culturale degli ultimi anni, esistono potenzialità enormi. Non illudiamoci, però, che basti consentire l’accesso ai giovani nei vari settori della società e nella politica. Serve, al contempo, una profonda riflessione sui valori, che non sono proprietà esclusiva del campo religioso e nemmeno di quello politico-filosofico. È finito ormai il tempo delle ideologie e delle lotte di classe - il primato della politica - quel che serve è davvero un nuovo umanesimo che dia vigore ai valori comuni della nostra cultura, che sono normalmente incorporati nell’individuo prima ancora che nella collettività. Tali valori non sono solo cristiani, né laici, né borghesi o proletari, ecco perché è necessario tornare a ragionare in termini di solidarietà umana e sociale insieme, non dimenticando che ogni collettività è composta prima di tutto dai singoli individui. Quello che occorre è una fase di analisi e progettualità a livello antropologico, che si avvalga del contributo di varie sfere della società (educazione, media, università, spettacolo, religione ecc.), nuovi modelli culturali che partano dalla quotidianità dei bisogni piuttosto che dalle forme politiche che sinteticamente vogliono rappresentarli, che ne dovrebbero essere piuttosto una conseguenza.
Se ci si vuole porre come qualcosa di veramente alternativo all’esistente, d’altra parte, dovremmo assumerci la responsabilità di dare il buon esempio e di convincere le persone che il bene comune si persegue con nuovi valori, con un rinnovato modo di interagire nella società, con la filosofia della condivisione e del confronto, del rispetto reciproco come premessa indispensabile.
Il bene comune non può essere coltivato nello stesso terreno dei pregiudizi, dell’ignoranza, della presunzione e della paura. Le forze che si propongono come modello alternativo, al momento ancora minoritarie nel Paese, la smettano di mostrare come unico obiettivo quello di demolire l’attuale sistema. Prima ancora di organizzarsi e mobilitarsi a livello politico servono nuovi strumenti culturali, filosofici e velleità umanistiche per fronteggiare questo decadimento generale verso cui è scivolata la nostra cultura. È questa la vera rivoluzione. Un nuovo umanesimo, in cui prevalga la necessità di diffondere una coscienza e una dimensione personale sempre più intime, è dunque il presupposto essenziale per una rinnovata evoluzione sociale, nella consapevolezza che una comunità ha bisogno di individui “adulti”, in grado di pensare e di elaborare una loro visione del bene privato e collettivo, non di persone intente unicamente a perseguire le proprie vanità. La coscienza del nostro intimo deve diventare base d’analisi imprescindibile. Voltaire aveva ragione nel dire che “ciascuno dovrebbe imparare a coltivare il proprio orticello…”.
Dovremmo allora puntare alla profondità recuperando, ad esempio, il valore della poetica nella vita quotidiana. La poesia ha il vantaggio di parlare all’anima, alle emozioni, evitando tutta una serie di speculazioni legate all’intelletto e alla logica, dominanti nella nostra civiltà. Per fortuna c’è chi, come Benigni, ancora insiste nel sottolineare che siamo stati il Paese di Dante Alighieri e del Rinascimento. È alla bellezza che dovremmo consacrarci nuovamente, alla semplicità del quotidiano, all’essenziale, alla riscoperta genuina e consapevole del mondo naturale, della terra. Potrebbero essere questi i valori - proiettati al futuro, non solo al passato - la nuova direzione per il cambiamento, il vantaggio competitivo per ridare dignità a questa nostra cultura e a tutta la società italiana. I semi sono già presenti, basta non continuare a calpestarli.
Fonti: Søren Christensen (University of Copenhagen, Department of Ethnology): World Class Danishness. Culture as Competitiveness in Danish Globalization Strategies. Ethnologia Europaea vol. 38:2.

giovedì 21 maggio 2009

Irlanda: Rapporto shock su abusi fatti da religiosi cattolici

ci risiamo...

http://ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.html_963576715.html


LONDRA - "Centinaia" di preti e suore cattolici irlandesi sono stati coinvolti in abusi sessuali e fisici ai danni di minori in istituzioni pubbliche in Irlanda: lo afferma il rapporto della Child Abuse Commission, che ha condotto la più grande indagine di sempre sugli ordini religiosi irlandesi. Lo scrive la stampa britannica. Il rapporto (3.500 pagine) ha raccolto le testimonianze di circa 2.500 vittime di questi abusi tra gli anni '40 e '80; oltre 100 istituzioni gestite da ordini religiosi - riformatori, scuole "per ragazzi difficili" e case che ospitavano disabili - sono state indagate. Nel 2003, un rapporto ad interim pubblicò le testimonianze di 700 uomini e donne che raccontarono di essere stati picchiati in ogni parte del corpo con ogni tipo di oggetto. Altri raccontarono di essere stati violentati, alcuni da varie persone contemporaneamente. Alcuni degli abusi risalgono a 60 anni fa e molti dei presunti colpevoli sono morti, sottolinea il Daily Mail. La commissione fu creata nel 2000 dal premier Bertie Ahern dopo che un documentario tv fece emergere la lunga storia delle violenze ai danni di minori nelle istituzioni gestite da ordini religiosi.

lunedì 18 maggio 2009

Teoria marxiana - sintesi

da wikipedia

Il materialismo storico
Come tanti altri filosofi dell'ottocento, Karl Marx s'interessò di storiografia, delineando una personale concezione della storia che per la sua originalità prende il nome specifico di "materialismo storico". Esso è la scienza della storia che, ponendo fine ad ogni tipo di filosofia finalista, ne ricerca le oggettive caratteristiche materiali. Vediamolo nel dettaglio.

Il processo storico
Il filosofo tedesco inizia con il considerare la produzione dei mezzi di sussistenza attività fondamentale dell'uomo, nonché prima azione storica specificamente umana. Sulla base di questa attività ne individua altre tre: la creazione e la soddisfazione di nuovi bisogni, la riproduzione (quindi la famiglia) ed infine la cooperazione fra più individui. Sorge solo ora la coscienza: al contrario di tanti altri, Marx non delinea la coscienza come presupposto dell'uomo, seppur riconoscendogli un ruolo fondamentale nella vita, ma come prodotto sociale che si sviluppa in relazione all'evoluzione dei mezzi di produzione e a tutto quello che esse comportano, in una parola alle forze produttive. La coscienza si manifesta quindi in diverse forme a seconda del processo storico. Ma solo con la successiva divisione tra lavoro manuale e mentale la coscienza può automatizzarsi dal mondo, dando luogo alle forme culturali conosciute. La totalità dell'essere sociale va dunque indagata dalla sfera produttiva.
Questa separazione fra coscienza e condizioni materiali dà luogo all'"ideologia", l'ideologia svolge un ruolo essenziale, siccome corrisponde all'esigenza delle classi dominanti in un dato periodo storico di presentarsi come classe universale, portatrice quindi di valori universali espressi appunto nell'ideologia. Essa è ogni forma di rappresentazione teorica inconsapevole della propria condizione storico-materiale; le idee sono quindi separate dalle proprie radici storiche e universalizzate. Il materialismo storico si presenta come fortemente anti-ideologico; tutta la dottrina socialista marxista è definita dal suo autore non ideologica, poiché vuole mantenere le proprie radici realistiche e storiche.

La dialettica storica
In chiave marxista la storia procede quindi a partire dalla sfera economica-sociale. Essa è mossa da un processo dialettico, da una contraddizione che genera un conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione. Questi ultimi sono l'insieme dei rapporti in cui gli uomini entrano durante l'attività della produzione (rapporti sociali, di proprietà, giuridici, …); l'insieme di questi rapporti costituisce la struttura, base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura, ovvero tutte le altre espressioni umane, culturali, istituzionali.
Il conflitto tra questi elementi porta al superamento dei vari momenti storici e l'approdo a nuove civiltà, caratterizzate da altri metodi di produzione e da un'altra opposizione dialettica. Questa si manifesta nella lotta di classe tra classe sfruttante e classe sfruttata, altro elemento imprescindibile d'ogni epoca, che porta alle svolte epocali, come la rivoluzione francese, o la caduta dell'impero romano. La storia procede quindi dialetticamente.

L'analisi del capitalismo
Dopo aver analizzato la sfera storiografica del pensiero marxista, iniziamo ora a trattare argomenti più inerenti alla materia socialista. Con il testo Il Capitale, Marx concentra la propria ricerca sull'economia politica, interessandosi al capitalismo ed ai suoi meccanismi e convincendosi di come esso sia per definizione un sistema di sfruttamento. Vediamo come.

La Merce ed il Lavoro
Posta sotto analisi la merce si rivela dotata di un duplice valore: d'uso e di scambio. La merce ha infatti contemporaneamente un'esistenza naturale, in quanto mezzo di soddisfazione di un bisogno, e un'esistenza sociale, perché è scambiata sul mercato. Il valore d'uso è determinato dalle caratteristiche qualitative della merce, e si realizza nel consumo; al contrario il valore di scambio prescinde dalle caratteristiche qualitative e si rapporta ad altri valori di scambio in modo proporzionale. Per fare un esempio un vestito si può scambiare con un paio di stivali. Lo scambio presuppone dunque un'astrazione dalle caratteristiche fisiche della merce e dalla sua utilità. Il denaro (l'oro) è la merce universale in cui tutte le merci si rispecchiano.
Il valore di scambio è fondamentale nell'analisi del capitalismo, poiché dipende dal lavoro sociale in esso oggettivato, che risulta anch'esso sdoppiato come la merce: il lavoro si presenta infatti come azione concreta, ma dal punto di vista del valore di scambio quel che conta è il lavoro astratto, ovvero il tempo di lavoro astrattamente e mediamente necessario a produrre la merce. In tal modo il lavoro astratto è spogliato d'ogni caratteristica qualitativa e s'identifica unicamente come tempo di lavoro. Il valore della merce è dato dalla quantità di lavoro medio sociale necessaria per produrla.
Visto da questa prospettiva lo stesso processo di produzione si sdoppia, in quanto è insieme processo di lavorazione per produrre merci, e processo di valorizzazione attraverso cui il capitale si accresce. È questa duplicità una caratteristica insita della società capitalista, quindi non è universale. La borghesia unifica come una cosa sola questi due processi dichiarandone la loro universalità, mentre "il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale fra persone mediato da cose". Ciò significa che il capitale presuppone e crea una situazione in cui il nesso sociale fra gli individui si realizza attraverso il mercato e in cui i mezzi di produzione sono di proprietà di una singola classe, mentre la classe antagonista è in possesso solamente della propria forza lavoro.
Nel capitalismo il rapporto tra lavorazione e valorizzazione è di subordinazione della prima alla seconda e la funzione del lavoro concreto è di valorizzare il capitale, cioè "lavoro cristallizzato": "Non è l'operaio che utilizza i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che utilizzano l'operaio". Nel capitalismo domina l'alienazione, il feticismo delle merci che appaiono alla coscienza come cose di per sé valorizzate. Ma alla coscienza sono nascosti i processi e i rapporti sociali della valorizzazione (cioè, lo sfruttamento della forza-lavoro). Avviene perciò una personificazione della cosa e una reificazione della persona.


La valorizzazione del capitale
Se nei sistemi tradizionali il processo di scambio avviene secondo la formula M- D- M, ossia la merce prodotta è venduta per ottenerne altra tramite il denaro, nel moderno sistema la successione diventa D- M- D', cioè si opera al fine di ottenere più denaro di quanto si possedesse in partenza (Dalienazione.

Il destino del capitalismo
L'epoca capitalistica è caratterizzata dal fatto che il bisogno illimitato di plusvalore sorge dal carattere stesso della produzione, così, anche se la ricerca di profitto è stata presente in ogni fase storica, quella contemporanea costituisce una realtà economica e sociale qualitativamente diversa. Essa ha potuto avere inizio grazie ad una serie di condizioni che hanno determinato un'accumulazione originaria di capitale. Marx contesta la tesi borghese che fa risalire quest'accumulazione al semplice risparmio, sostenendo appunto che da solo il denaro non costituisce un capitale.
Sono le condizioni economiche, sociali, politiche, culturali che hanno condotto alla dissoluzione del sistema feudale: la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione e quindi la loro necessità di vendere la forza-lavoro, l'eguaglianza giuridica che permette la libera disponibilità di tale forza. Tutti questi presupposti si sono realizzati nel moderno stato liberale borghese, frutto prima della Rivoluzione Inglese poi della Rivoluzione Francese, e da allora il capitale ha iniziato a valorizzarsi penetrando sempre più all'interno della società. La proprietà privata dei mezzi di produzione si traduce in quest'ottica in un'incessante appropriazione privata della ricchezza sociale.


Le contraddizioni del capitalismo
A parere di Marx il sistema capitalista è minato da alcune fondamentali contraddizioni che ne determineranno la caduta; la più importante è la legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Aumentare la produttività significa fare investimenti tecnologici sempre più massicci, il che porta ad una crescita del valore del capitale costante, ma poiché solo il capitale variabile produce profitto, il saggio tenderà a diminuire. Vi sono comunque alcuni fattori antagonisti alla legge che la tramutano in semplice tendenza, come l'intensificazione dello sfruttamento, la diminuzione dei salari, il tutto reso possibile principalmente grazie all'esistenza di una massa di proletari disoccupati in concorrenza con gli occupati, il che permette salari portati al livello minimo di sopravvivenza.
Rimane il fatto che questa legge tendenziale è da Marx considerata come una necessità logica connessa allo stesso carattere di accumulazione del capitale. Ugualmente connesse a questo sono le crisi cicliche dovute alla saturazione del mercato, che portano ad una concentrazione di capitali in sempre meno imprese; queste, apparentemente superate, si ripropongono continuamente e sempre più violentemente. Marx riconosce al capitalismo la straordinaria funzione storica che ha avuto nell'espandere enormemente le forze produttive e universalizzare i rapporti economici e sociali; tuttavia identifica in esso un contrasto tra la funzione sociale del capitale e il potere privato del capitalista sulle condizioni sociali della produzione. Da questa prospettiva il capitalismo è un punto di transizione verso la società comunista.


La società comunista
Coerentemente con la sua visione non meccanicistica della realtà e la sua volontà di non formulare un'ideologia che preveda il futuro, il filosofo tedesco non teorizza esplicitamente le caratteristiche della futura società comunista, ma dà soltanto indicazioni sulla fase di transizione verso essa e la delinea come ipotesi. Egli sostiene che "il comunismo non è uno stato di cose che deve essere instaurato, ma un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente". Marx tuttavia evoca un principio deterministico nel ritenere che il capitalismo, comunque, è destinato a crollare e il comunismo a imporsi e a trionfare.
Innanzitutto Marx definisce l'importanza della rivoluzione del proletariato: se il capitalismo cadesse solo perché contraddittorio la storia si risolverebbe in un processo meccanicista. Invece il proletariato deve prendere coscienza della sua forza e, attraverso una rivoluzione violenta, deve abbattere il sistema corrente. Con la caduta della borghesia, andranno ad estinguersi tutte le sue espressioni, quindi lo Stato, la cultura e la morale borghesi, e le religioni. Ma prima della nuova società ci sarà un periodo di passaggio durante il quale la classe rivoluzionaria si sostituirà semplicemente a quella capitalista, edificando la dittatura del proletariato, ancora caratterizzata dal dualismo di classe.
Durante questo periodo andranno smantellati tutti i residui del precedente sistema, e infine, con la collettivizzazione dei mezzi di produzione e l'abolizione della proprietà privata, si avrà il comunismo autentico, e spariranno allora feticismo e alienazione, gli individui non saranno più asserviti ad un lavoro diviso e potranno realizzare uno "sviluppo omnilaterale", accrescendo insieme le forze produttive sociali. Allora ci sarà il ritorno dell'uomo alla sua realtà sociale.


Critiche
Presentandosi come "socialismo scientifico", in forma di scienza che abbia scoperto le leggi del divenire storico, ma anche come ideologia che prospetta tale divenire orientato verso un fine, il marxismo ha ricevuto su questo punto le critiche di diversi studiosi e filosofi, tra cui Hans Kelsen, Max Weber, Karl Popper, i quali gli contestarono di avere mescolato e contaminato in tal modo, senza avvedersene, scienza e ideologia.
A differenza del socialismo utopistico, infatti, il quale contrappone l'ideale alla realtà, il marxismo pretende di essere una "descrizione" oggettiva e moralmente indifferente del modo in cui procederebbe lo sviluppo della storia. Al tempo stesso, però, questo sviluppo storico sarebbe chiamato a produrre un fine, a realizzare un valore, ossia la società «dei liberi e degli uguali». Ed è così che il marxismo pretende di dedurre da un'analisi scientifica, basata su un'evoluzione necessaria delle cose, una condizione finale che esso stesso prospetta come un salto dal "regno della necessità" in quello "della libertà".
Secondo Kelsen, la storia viene ricondotta ad un valore finale non certo perché la scienza sia effettivamente in grado di darci degli ideali, ma solo perché questi sono stati subdolamente proiettati nella realtà: «il socialismo scientifico di Marx è una scienza sociale, il cui scopo non è solo di concepire e descrivere la realtà sociale quale effettivamente è, senza valutarla, bensì al contrario di giudicarla secondo un valore che è presupposto a questa scienza ma proiettato ingannevolmente nella realtà sociale, allo scopo di conformarla al valore presupposto»[1].
La critica non è dissimile da quella esercitata da Max Weber, a sua volta riportata da Karl Löwith, il quale osserva che «nel marxismo, in quanto socialismo scientifico, Weber non avversa il fatto che esso in genere si regga su ideali scientificamente indimostrabili, ma che dia alla soggettività dei suoi presupposti fondamentali l'apparenza di una validità oggettiva e universale, confondendo l'una con l'altra e restando, nelle sue intenzioni scientifiche, prevenuto dai propri giudizi di valore e dai propri pregiudizi»[2]. Critiche alla presunta scientificità del marxismo sono venute anche da Karl Popper, secondo cui Marx ed Engels, sovrapponendo ingannevolmente un corso finalistico alle maglie del corso causale degli eventi, e atteggiandosi così a falsi profeti, hanno ignorato la distinzione tra fatti e valori, tra cause e fini etici.

Gruppo Bilderberg

http://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Bilderberg

Il Gruppo Bilderberg (o conferenza Bilderberg) è una conferenza internazionale annuale, non ufficiale, ad invito di circa 130 esponenti, spesso con ruoli di rilievo nel mondo economico, finanziario o politico.

L'obiettivo iniziale del gruppo sarebbe stato, nel contesto della guerra fredda, di rafforzare la cooperazione tra gli Stati Uniti ed i loro partner Europei. Inoltre, a causa del carattere molto riservato delle conferenze, il gruppo è stato a lungo considerato, da alcuni, una società segreta [1]. Gli rimproverano possibilità di decisioni antidemocratiche che potrebbero essere prese da un gruppo così potente e in particolare, dalla caduta dell'Impero Sovietico, l'orchestrazione della mondializzazione economica.

Dato che le discussioni durante questa conferenza non sono mai registrate o riportate all'esterno, questi incontri sono sia oggetto di forte critica sia la fonte di molte teorie del complotto.
Indice
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Storia del gruppo Bilderberg

Il gruppo Bilderberg nasce nel 1952, ma prende questo nome solo nel 1954, quando il 29 maggio una quantità di politici e uomini d'affari si riunì a Oosterbeek, in Olanda all'Hotel Bilderberg: da cui il nome di questa organizzazione. Da allora le riunioni sono state ripetute una o due volte all'anno. Un elenco parziale dei suoi membri è: Filippo del Belgio, Sofia di Grecia, Bernard Kouchner, David Rockefeller, Bernardo d'Olanda, Etienne Davignon (ex commissario europeo), Carlo d'Inghilterra, Juan Carlos di Spagna, Beatrice d'Olanda, Henry Kissinger.

Molti partecipanti al gruppo Bilderberg sono capi di Stato, ministri del tesoro e altri politici dell'Unione Europea (anche l'ex presidente del Consiglio italiano Romano Prodi avrebbe partecipato a qualche meeting), ma prevalentemente i membri sono esponenti di spicco dell'alta finanza europea e anglo-americana. Oggigiorno si distinguono i partecipanti in diverse categorie, ma principalmente in due: coloro che sono membri permanenti dell'organizzazione e coloro che possono essere invitati in via eccezionale come spettatori o relatori. Tra i relatori ricorrenti ci sono alcuni giornalisti dell'Economist.[2] [3] [4] Alcuni meeting hanno avuto anche una parziale apertura alla stampa. [senza fonte]

Negli anni Cinquanta l'organizzazione conta un centinaio di membri, con l'obiettivo dichiarato di unire l'Occidente per contrastare l'espansione sovietica. A questo scopo riunisce alcuni dei personaggi più illustri e influenti nei vari campi della politica economica e della finanza internazionale.

Promotori del gruppo Bilderberg

Tra i promotori del gruppo, ci sono:

* Bernhard van Lippe-Biesterfeld, presidente del Bilderberg fino a quando nel 1976 diede le dimissioni per lo scandalo di una tangente da 1,1 milioni di dollari dalla Lockheed Corporation per la vendita di aerei caccia all'aviazione olandese. Appartenente ad una nota famiglia ducale tedesca, è stato principe consorte dei Paesi Bassi, presidente del Worldwide Fund for Nature (WWF) dalla fondazione nel 1961 fino al 1971, ex affiliato al Partito Nazista (NSDAP) (tessera No. 2583009 del 1 maggio 1933) fino al suo matrimonio con la regina d'Olanda. Secondo le rivelazioni della rivista Newsweek del 5 aprile 1976, le attività di spionaggio di von Lippe a favore delle unità speciali delle SS (o Schutzstaffel) nella industria chimica IG Farbenindustrie (la stessa che fabbricò lo Zyklon-B, usato nelle camere a gas) sono documentate dalle testimonianze del Processo di Norimberga. Alla fine della guerra, in Olanda, si dice abbia partecipato alla resistenza e alla liberazione di Amsterdam. Nel dopoguerra assunse importanti posizioni nell'industria petrolifera, in particolare con la Royal Dutch Petroleum (Shell Oil) e nella Société Générale de Belgique.

* Joseph Retinger, economista polacco di famiglia ebraica, cattolico, conosciuto come 'Sua Eminenza Grigia'. Fu tra i fondatori e segretario generale fino al 1952 dell'United European Movement presieduto da Winston Churchill e finanziato dall'ACUE (American Committee for United Europe). La visione di Retinger era costruire un'Europa Unita per arrivare ad un Mondo unito in pace, guidato da Organizzazioni Sovranazionali che avrebbero garantito più stabilità ai singoli governi nazionali. Nonostante le frammentarie informazioni riguardanti le origini del Gruppo Bilderberg, sembrerebbe sia stato Retinger il principale promotore delle conferenze. Su suo suggerimento, von Lippe prese contatti con l'amministrazione Truman e, con maggiore successo, con quella Eisenhower, nelle persone del gen. Walter Bedell Smith (allora direttore della CIA) e C. D. Jackson. Il coinvolgimento nel progetto della famiglia Rockefeller, proprietaria della Standard Oil, concorrente della Royal Dutch Petroleum di von Lippe influenzò molto il carattere del gruppo Bilderberg. Da allora, le sue riunioni riflettono in gran parte gli interessi dell'industria petrolifera.

Prima riunione nel maggio 1954

Alla prima riunione che ebbe luogo dal 29 al 31 maggio 1954 presso l'Hotel Bilderberg di Oosterbeek (in Olanda), presero parte circa un centinaio tra banchieri, politici, universitari, funzionari internazionali. Pare che figurassero tra queste personalità [5]: i Capi del governo belga e italiano Paul van Zeeland e Alcide De Gasperi, Panavotis Pipinelis di Grecia, Denis Healey e Hugh Gaitskell del Partito Laburista inglese, Robert Boothby del Partito Conservatore.

Secondo i giornalisti che presenziarono alle riunioni del gruppo, dopo il 1976 alla presidenza subentrò David Rockefeller, membro fondatore della Commissione Trilaterale, membro della Commissione Bancaria Internazionale, presidente del Council on Foreign Relations, membro del Club di Roma e di numerose altre organizzazioni internazionali.

Altri membri di spicco dell'organizzazione sono o sono stati: Giovanni Agnelli; Donald Rumsfeld; Peter Sutherland, irlandese, ex commissario di Unione Europea e presidente di Goldman Sachs e di British-Petroleum; Paul Wolfowitz ex presidente della Banca Mondiale; Roger Boothe. L'attuale presidente del gruppo è Etienne Davignon.

Tra i personaggi presenti alla riunione del 1999 venivano citati dal Corriere della Sera: Umberto Agnelli, Henry Kissinger, Mario Monti.

Due terzi dei membri dell'assemblea sarebbero americani. Al vertice di Stresa del 2004 si contarono 33 delegati americani e 16 italiani (seconda rappresentanza più numerosa). I partecipanti sono tenuti a non parlare né di quanto detto nelle riunioni né della loro presenza. Come per la Trilaterale, è nota la lista di una parte dei membri, riconosciuti da giornalisti che sono venuti a conoscenza ed hanno seguito i vari vertici del Bilderberg.

Caso Diamandouros

La riservatezza degli incontri del Bilderberg è rimasta relativamente intatta fino a che nel Parlamento europeo, nelle ultime settimane del 2004, non è salito alla ribalta il caso Diamandouros. Nell'occasione della rielezione del greco Nikiforos Diamandouros nella carica di mediatore europeo, il cosiddetto ombudsman, fu contestata l'appartenenza di Diamandouros al Gruppo Bilderberg: «Questa potentissima lobby mira a conquistare posizioni nelle istituzioni dell'Unione Europea a vantaggio dei suoi membri ed è strutturata con il meccanismo della segretezza quale obbligo assoluto dei membri. Chi vuol essere mediatore Europeo non può vantare la partecipazione come membro di una lobby. Diamandouros ha persino partecipato ad una apposita conferenza Bilderberg come membro, mentre era Ombudsman greco» (intervento di Giuseppe Fortunato). [6] [7]

Meeting del 2006 a Kanata in Ontario

Uno degli ultimi meeting è avvenuto dall'8 all'11 giugno 2006 a Kanata in Ontario (nei pressi di Ottawa) presso il Brookstreet Hotel, chiuso al pubblico per l'occasione. Un comunicato stampa ufficiale ha spiegato che i temi dell'incontro erano “le relazioni euro-americane, l'energia, la Russia, l'Iran, il Medio Oriente, l'Asia, il terrorismo e l'immigrazione”.

Tra i partecipanti David Rockefeller, Henry Kissinger, la regina Beatrice d'Olanda, Richard Perle, i dirigenti della Federal Reserve Bank, di Credit Suisse e della Rothschild Europe (il vicepresidente Franco Bernabè), delle compagnie petrolifere Shell, BP e Eni (Paolo Scaroni), della Coca Cola, della Philips, della Unilever, di Time Warner, di AoL, della Tyssen-Krupp, di Fiat (il vicepresidente John Elkann) i direttori e corrispondenti del Times di Londra, del Wall Street Journal, del Financial Times, dell'International Herald Tribune, di Le Figarò, del Globe and Mail, del Die Zeit, rappresentanti della NATO, dell'ONU, della Banca Mondiale e della UE, economisti e molti ministri dei governi occidentali.

Le misure di sicurezza sono state imponenti, e tutta la zona era presidiata. Alex Jones, impegnato a girare un documentario sul Gruppo Bilderberg, è stato identificato e arrestato dalla polizia appena sbarcato all'aeroporto di Ottawa, rilasciato solo dopo interrogatorio. James Tucker sostiene che al meeting ci sia stata una forte frattura fra la compagine americana favorevole alla guerra in Iran e la fazione europea che invece era contraria alla soluzione militare. Tra le altre cose si sarebbe stabilito il prezzo del greggio sui 70 dollari al barile.[8] Alla riunione del 2006 hanno partecipato, tra gli altri, gli italiani:

* Franco Bernabè, Amministratore delegato di Telecom Italia
* John Elkann, Vice presidente Fiat S.p.A.
* Mario Monti, Presidente Università Commerciale Luigi Bocconi
* Tommaso Padoa Schioppa, Ministro delle Finanze
* Paolo Scaroni, CEO, Eni S.p.A.
* Giulio Tremonti, Vice presidente della Camera dei Deputati

Meeting del 2007 a Istanbul (Turchia)

Tra il 31 maggio ed il 3 giugno 2007 si è tenuto l'ultimo meeting a Istanbul (Turchia). A quest'ultimo incontro hanno partecipato i seguenti membri italiani:

* Franco Bernabè, Amministratore delegato di Telecom Italia
* John Elkann, Vice presidente Fiat S.p.A.
* Mario Monti, Presidente Università Commerciale Luigi Bocconi
* Tommaso Padoa-Schioppa, Ministro delle Finanze
* Giulio Tremonti, Vice Presidente della Camera dei Deputati

Il prossimo incontro si terra' tra il 14 e il 16 Maggio 2009 ad Atene (Grecia)

Incontri

1. 29-31 maggio 1954: Oosterbeek, Olanda.
2. 18-20 marzo 1955: Barbizon, Francia.
3. 23-25 settembre 1955: Garmisch-Partenkirchen, Germania dell'Ovest.
4. 11-13 maggio 1956: Fredensborg, Danimarca.
5. 15-17 febbraio 1957: St Simons Island, Georgia, USA.
6. 4-6 ottobre 1957: Fiuggi, Italia.
7. 13-15 settembre 1958: Buxton, Inghilterra.
8. 18-20 settembre 1959: Yesilköy, Turchia.
9. 28-29 maggio 1960: Bürgenstock, Svizzera.
10. 21-23 aprile 1961: St Castin, Canada.
11. 18-20 maggio 1962: Saltsjöbaden, Svezia.
12. 29-31 maggio 1963: Cannes, Francia.
13. 20-22 marzo 1964: Williamsburg, Virginia, USA.
14. 2-4 aprile 1965: Villa d'Este, Italia.
15. 25-27 marzo 1966: Wiesbaden, Germania dell'Ovest.
16. 31 marzo - 2 aprile 1967: Cambridge, Inghilterra.
17. 26-28 aprile 1968: Mont Tremblant, Canada.
18. 9-11 maggio 1969: Marienlyst, Danimarca.
19. 17-19 aprile 1970: Bad Ragaz, Svizzera.
20. 23-25 aprile 1971: Woodstock, Vermont, USA.
21. 21-23 aprile 1972: Knokke, Belgio.
22. 11-13 maggio 1973: Saltsjöbaden, Svezia.
23. 19-21 aprile 1974: Megève, Francia.
24. 25-27 aprile 1975: Çesme, Turchia.
25. 22-24 aprile 1977 (nel 1976 non ci fu alcuna conferenza poiché il Principe Bernhard fu coinvolto nello scandalo Lockheed): Torquay, Inghilterra.
26. 21-23 aprile 1978: Princeton, New Jersey, USA.
27. 27-29 aprile 1979: Baden, Austria.
28. 18-20 aprile 1980: Aachen, Germania dell'Ovest.
29. 15-17 maggio 1981: Bürgenstock, Svizzera.
30. 14-16 maggio 1982: Sandefjord, Norvegia.
31. 13-15 maggio 1983: Montebello, Canada.
32. 11-13 maggio 1984: Saltsjöbaden, Svezia.
33. 10-12 maggio 1985: Rye Brook, New York, USA.
34. 25-27 aprile 1986: Gleneagles, Scozia.
35. 24-26 aprile 1987: Villa d'Este, Italia.
36. 3-5 giugno 1988: Telfs-Buchen, Austria.
37. 12-14 maggio 1989: La Toja, Spagna.
38. 11-13 maggio 1990: Glen Cove, New York, USA.
39. 6-9 giugno 1991: Baden-Baden, Germania.
40. 21-24 maggio 1992: Evian-les-Bains, Francia.
41. 22-25 giugno 1993: Atene, Grecia.
42. 3-5 giugno 1994: Helsinki, Finlandia.
43. 8-11 giugno 1995: Zurigo, Svizzera.
44. 30 maggio -1º giugno 1996: Toronto, Canada.
45. 12-15 giugno 1997: Lake Lanier, Georgia, USA.
46. 14-17 maggio 1998: Turnberry, Ayrshire, Scozia.
47. 3-6 giugno 1999: Sintra, Portogallo.
48. 1-4 giugno 2000: Genval, Bruxelles, Belgio.
49. 24-27 maggio 2001: Gothenburg, Svezia.
50. 30 maggio - 2 giugno 2002: Chantilly, Virginia, USA.
51. 15 maggio - 18 maggio 2003 : Versailles, Parigi, Francia.
52. 3-6 giugno 2004 : Stresa, Italia.
53. 5-8 maggio 2005 : Rottach-Egern, Monaco, Germania.
54. 8-11 giugno 2006 : Ottawa, Canada.
55. 31 maggio - 3 giugno 2007 : Istanbul, Turchia.
56. 5-8 giugno 2008 : Chantilly, Virginia, USA.
57. 14-16 maggio 2009 : Atene, Grecia.

Partecipanti

Alcuni nomi delle personalità italiane che hanno preso parte almeno una volta dal 1982 ad oggi a summit internazionali dei Bilderberg, venne pubblicato da "La Voce della Campania". [9]

A fianco di ciascun nome viene riportata la funzione ricoperta al momento dell'ultima partecipazione.

* Gianni Agnelli
* Umberto Agnelli
* Krister Ahlström - presidente Ahlstrom
* Alfredo Ambrosetti - presidente Gruppo Ambrosetti
* Franco Bernabè - ufficio italiano per le iniziative sulla ricostruzione nei Balcani
* Emma Bonino - membro della Commissione europea
* Giampiero Cantoni - presidente BNL
* Lucio Caracciolo - direttore Limes
* Luigi G. Cavalchini - Unione Europea
* Adriana Ceretelli - giornalista, Bruxelles
* Innocenzo Cipolletta - direttore generale Confindustria
* Gian C. Cittadini Cesi - diplomatico USA
* Rodolfo De Benedetti - CIR
* Ferruccio De Bortoli - RCS Libri
* Gianni De Michelis - ministro degli Affari Esteri
* Mario Draghi - direttore Ministero del Tesoro
* John Elkann - vicepresidente FIAT e IFIL
* Paolo Fresco - presidente FIAT
* Gabriele Galateri - Mediobanca
* Francesco Giavazzi - docente economia Bocconi
* Giorgio La Malfa - segretario nazionale PRI
* Claudio Martelli - deputato - Ministero Grazia e Giustizia
* Rainer S. Masera - direttore generale IMI
* Cesare Merlini - vicepresidente Council for the United States and Italy
* Mario Monti - Commissione Europea
* Tommaso Padoa Schioppa - BCE (Banca Centrale Europea)
* Corrado Passera - Banca Intesa
* Romano Prodi - presidente della Commissione Europea
* Alessandro Profumo - Credito Italiano
* Gianni Riotta - editorialista La Stampa
* Virginio Rognoni - Ministero della Difesa
* Sergio Romano - editorialista La Stampa
* Carlo Rossella - editorialista La Stampa
* Renato Ruggiero - vicepresidente Schroder Salomon Smith Barney
* Paolo Scaroni - Enel SpA
* Stefano Silvestri - Istituto Affari Internazionali
* Domenico Siniscalco - direttore generale Ministero Economia
* Barbara Spinelli - corrispondente da Parigi - La Stampa
* Ugo Stille - Corriere della Sera
* Giulio Tremonti - ministro dell'Economia
* Marco Tronchetti Provera - Pirelli SpA
* Walter Veltroni - editore L'Unità
* Ignazio Visco - Banca d'Italia
* Antonio Vittorino - Commissione Giustizia UE
* Paolo Zannoni - FIAT

Altri principali esteri al summit 2004

* Etienne Davignon - Suez-Tractebel
* Martin Taylor - Goldman Sachs International
* Josef Ackermann - Deutsche Bank AG
* Elie Barnavie - Department of History, Tel Aviv
* Frits Bolkestein - Commissione Europea
* Max Boot - Wall Street Journal
* Daniel Borel - Logitech International
* Antony Burgmans - Unilever
* Phillipe Camus - European Aeronautics Defence and Space
* Kenneth Clarke - British American Tobacco
* Timothy C. Collins - Yale School of Management, Trilateral Commission
* George A. David - Coca-Cola Hellenic Botting Company
* Henri De Castries - AXA Insurance
* Gus De Vries - coordinatore antiterrorismo UE
* Kemal Dervis - Banca Mondiale Gr
* Anna Diamantopoulou - Comm. Europea Affari Sociali
* John Edwards - senatore, candidato alla vice presidenza USA
* Melinda F. Gates - Gates Foundation
* Timothy F. Geithner - presidente Federal Reserve Bank of New York
* Donald E. Graham - Washington Post Company
* Lars Heikenstein - governatore Swedish Central Bank
* Allen B. Hubbard - presidente E&A Industries
* Walter Issacson - presidente Aspen Institute
* John Kerr - direttore Shell
* Henry A. Kissinger - Kissinger Associates Inc.
* Yongtu Long - BOAO Forum for Asia
* Pedro M. Santana Lopes - sindaco di Lisbona
* Egil Myklebust - Scandinavian Sirline
* Indra K. Nooyi - presidente Pepsi Cola Inc.
* Jorma Ollila - presidente Nokia Corporation
* David Rockefeller - JP Morgan International Council
* Dennis P. Ross - Washington Institute for Near East Policy
* Slawomir Sikora - presidente Citibank Handlowy
* Jose Socrates - membro del Parlamento Europeo
* Jean-Claude Trichet - presidente European Central Bank
* Arold Underdal - rettore Università di Oslo
* Daniel L. Vasella - presidente Novartis AG
* Ben J. M. Verwaayen - British Telecom
* Jurgen Weber - Deutsche Lufthansa AG
* Martin H. Wolf - commentatore economico Financial Times
* James D. Wolfenson - presidente Banca Mondiale

martedì 12 maggio 2009

La nuova autocrazia di Israele

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=9118

di Dimi Reider, Giornalista israeliano - da Peacereporter.net
L’arresto di membri di una Ong pacifista è sintomatico di una nazione che si sta militarizzando a una velocità allarmante

Le prime irruzioni si sono svolte domenica, verso verso le sette del mattino. In tutta la nazione venivano trattenuti dalla polizia attivisti di una organizzazione no-profit regolarmente registrata. I loro computer sono stati confiscati, ed è stato loro vietato di contattarsi o di riprovare a ripristinare i dati sui PC sequestrati. In seguito ad una conferenza stampa trionfalista da parte della polizia, altri attivisti sono stati fermati e ci si aspetta ancora nuovi interrogatori.Nel caso in cui non abbiate ancora indovinato, il Paese in cui accade tutto ciò è Israele. La Ong in questione è New Profile, un'organizzazione femminista che lavora contro l'arruolamento nell'esercito israeliano.L'affondo contro New Profile, cinicamente portato a termine alla vigilia del Giorno della Memoria di Israele (momento in cui la maggior parte degli israeliani ha commemorato una persona cara persa in guerra) è profondamente sintomatico della velocità con cui la società israeliana si sta militarizzando ancora di più. New Profile sostiene che Israele è uno stato completamente militarizzato; ex generali di alto rango gestiscono diverse compagnie private e statali oppure prestano servizio nell'ambito del governo. Il sistema educativo e l'esercito stanno unendo le forze per avere un ufficiale in uniforme di stanza in ogni scuola superiore del paese, e le pubblicità e i programmi televisivi mostrano molti più personaggi in divisa di altre nazioni che si dichiarano democratiche.E la pressione continua a salire. Per la prima volta, adolescenti laiche che rifiutano l'arruolamento sono messe in prigione. Adolescenti religiose, che finora avevano avuto vita facile nell'evitare l'arruolamento allegando ragioni di pudore e religiosità, adesso vengono spiate dalla polizia militare e da investigatori privati, che le fotografano mentre si baciano o mentre indossano un abbigliamento "immodesto", e passano le foto osé alla stampa.La coercizione conduce ad una statistica poco conosciuta ma raccapricciante: l'esercito israeliano, uno dei più attivi del mondo industrializzato, perde più soldati per suicidi che per scontri, conflitto palestinese-israeliano incluso. Secondo gli stessi dati forniti dall'esercito, 205 soldati sono morti durante l'azione militare israeliana o sotto gli attacchi palestinesi tra il 2000 e il 2006, (senza contare l'anomalia della seconda guerra libanese). Nello stesso periodo, 236 soldati si tolsero la vita. Le organizzazioni di diritti umani sospettano che quest'ultimo numero possa essere ancora più alto. L'ultimo suicidio nell'esercito è avvenuto lo scorso mercoledì, e la notizia è stata a malapena riportata dai media.New Profile incoraggia un pensiero critico da parte dei giovani israeliani fornendo loro informazioni sulle violazioni di diritti umani commesse dall'esercito, talvolta all'interno della sua stessa struttura. Per di più, essa fornisce consulenza a coloro che desiderano diventare obiettori di coscienza, a coloro che vogliono lasciare l'esercito per motivi di salute mentale, o ancora sostituire l'arruolamento per andare volontario nel servizio civile nazionale. Per queste accuse, otto importanti attivisti sono stati fermati per essere interrogati, e i computer dell'organizzazione sono stati confiscati. In questi computer ci sono archivi e corrispondenza pieni di informazioni personali di migliaia di giovani israeliani, molti dei quali sono politicamente attivi. L'acquisizione di questi dati da parte della polizia permette inimmaginabili opportunità di ricatto politico.Tali misure non sono limitate solo a fastidiose ONG. Prendiamo per esempio l'attore e regista di Jaffa, Samieh Jabbarin, che a febbraio manifestò contro un'azione della destra radicale nella sua città natale. Jabbarin fu messo agli arresti domiciliari, nella città dei suoi genitori, lontano dal suo posto di lavoro e dalla sua residenza attuale. Ieri i suoi arresti domiciliari sono arrivati al sessantacinquesimo giorno, essendo stati estesi dalla corte di cinque altri mesi, fino a settembre 2009.Tuttavia Jabbarin non è l'unico a cui è si è voluto far capire chiaramente che le regole per i dissidenti stanno cambiando velocemente. Più di 800 manifestanti, la maggior parte dei quali arabi- israeliani, sono stati arrestati durante la guerra. Altri, tra cui un membro del consiglio municipale di Tel Aviv, sono stati convocati a una serie di continui interrogatori fuori dalle loro case, sia dalla polizia che dallo Shin Bet, che ha iniziato a minacciarli di un'azione legale per "sostegno al nemico in tempi di guerra". I manifestanti arrestati si sono trovati ad affrontare una minaccia senza precedenti di prolungamento della custodia cautelare (di solito, si viene trattenuti e rilasciati nell'arco delle 24 ore), basata su un aumento del rischio per la sicurezza pubblica, talvolta avvallata da prove segrete non rivelate dai giudici.Guardando oltre, ci si accorge che la situazione è ancora più tetra. Negli ultimi 18 mesi, molte garanzie di difesa tra libertà civili e autorità statali sono state metodicamente smontate. Un emendamento sulle comunicazioni è stato aggiunto al codice penale israeliano nel 2007, autorizzando la polizia e il servizio di sicurezza generale (Shin Bet) ad acquisire IP e numeri di cellulare di chiunque, scavalcando le corti. Un Database Biometrico è stato istituito lo scorso ottobre, con pena la galera per chi si rifiuti di fornire le proprie impronti digitali una volta iniziate le operazioni di prelievo. Inoltre il più importante meccanismo che preserva la traballante democrazia di Israele, la Corte Suprema, è stato intimidito da un violento attacco da parte dell'ex ministro della giustizia Dott. Daniel Friedmann, il quale ha cercato di aumentare l'influenza del governo nella nomina dei suoi giudici e di impedire alla corte interventi in materia legislativa. Quest'ultimo è un punto cruciale, in quanto Israele di fatto non ha una costituzione per tenere a freno i capricci e le ambizioni di legislatori esaltati. Il cambio di governo ha sollevato di poco la situazione, poiché un partito radicalmente autoritario e etno-nazionalista (Yisrael Beiteinu) ha adesso il controllo del ministero degli Interni, controllando quindi anche la polizia.Samieh Jabbarin ha perso la sua libertà senza essere nemmeno accusato. Gli attivisti di New Profile potrebbero subire condanne fino ad un massimo di 15 anni ognuno per "incitamento e sostegno alla diserzione in guerra" (legalmente, Israele è sempre in guerra). E tutto ciò è roba di poco conto in confronto alla soppressione subita dagli attivisti della Cisgiordania, da quelli che li assistono, e da tutti quelli che si trovano nella sfortunata condizione di vivere nella Striscia di Gaza.Il problema dell'autoritarismo è che non sempre si presenta tutto insieme. Non occorre che le truppe invadano le strade, né tantomeno che un grottesco dittatore sbuchi in un notiziario serale. Questi sviluppi sembrano minacciosi quando raggruppati in un articolo, ma per la maggior parte di noi israeliani, specialmente per quelli che non partecipano alla vita politica, sono soltanto questioni di second'ordine, o tutt'al più concessioni temporanee e insignificanti fatte per la nostra sicurezza che a stento vengono ricordate. Le stesse persone che difendono ogni follia di Israele insistendo sul fatto che essa sia l'unica democrazia in Medio Oriente, sono instancabilmente al lavoro per trasformarla nella caricatura di un'autocrazia. Più deprimente ancora, uno sguardo rapido ai commenti su qualsiasi sito di notizie israeliano suggerisce che attraverso la disinformazione e la diffusione della paura questi sforzi godono di un imponente sostegno popolare.
Traduzione di Domenico Polito

I Camaleonti del Sultanato. Il PD interfaccia del PDL

non mi meraviglio più di niente. Anzi no, è rimasto il revisionismo.

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=9119

di Pietro Ancona Il fascismo fu sconfitto non solo perché Mussolini perse la guerra e l'Italia fu liberata con il concorso attivo della Resistenza ma sopratutto perché l'opposizione in esilio e nelle carceri seppe conservare un sistema di valori completamente antitetici a quelli del regime durato un ventennio. All'idea di razza contrapponeva l'idea dell'umanità; alla retorica della guerra una profonda convinzione pacifista, al culto del superuomo la fede nella democrazia.

Socialisti, comunisti, cattolici, repubblicani, liberali seppero custodire i valori poi trasfusi nella Costituzione e non ebbero mai cedimenti verso l'ideologia del regime. Ricordiamolo sempre: Pertini rimproverò la madre per aver chiesto la grazia a Mussolini e scontò quindici anni di carcere senza concedere alcuna indulgenza al fascismo. Con lui migliaia e migliaia di resistenti. Oggi, a fronte della xenofobia della Lega e dello smottamento del sistema legislativo italiano verso l'autoritarismo non mancano le adesioni di autorevoli esponenti del PD a scandalose decisioni del governo come quella del respingimento in mare di migranti in fuga dai disastri provocati dall'Occidente in Africa ed in Asia. Fassino ha rilasciato dichiarazioni di pieno consenso e legittimazione di atti condannati dall'ONU e contrari ai principi della solidarietà umana. Un atto prepotente di assoluta illegalità quale il trasloco in acque internazionali di migranti ed il loro forzoso "rimpatrio" in Libia è stato giustificato ed avallato.

L'Italia ha compiuto un atto di vera e propria pirateria riportando ad un neppure certo porto di partenza i migranti. Dal momento che i migranti erano stati imbarcati nelle motovedette italiane avevano acquisito un diritto di ospitalità regolato da precise norme. Dovevano essere assistiti ed ascoltati e sbarcati in Italia. Quanti tra di loro erano profughi da guerre o da dittature non dovevano essere restituiti alla realtà dalla quale fuggivano. La dichiarazione di Fassino spezza una lancia a vantaggio di Maroni e della Lega nel momento in cui la maggioranza di centro-destra è attraversato da dubbi e perplessità sul ddl sulla sicurezza e spinge quanti nel centro destra erano riluttanti a votare provvedimenti liberticidi e xenofobi a fare marcia indietro. Non ho dubbi che ronde, spionaggio dei presidi e dei medici, aumento a sei mesi della detenzione nei Cie, discriminazione dei bambini con genitori sprovvisti del permesso di soggiorno saranno sostenuti con maggiore forza dai leghisti e avranno maggiori probabilità di essere approvati. Tutto questo mentre cresce l'incattivimento delle istituzioni e del Paese. La giunta di centro-sinistra di Bergamo vara un regolamento per il quale i mendicanti potranno chiedere l'elemosina soltanto durante una sola ora del giorno (!!) e credo soltanto in una determinata via. A Milano un noto leghista propone l'apartheid sui mezzi pubblici senza registrare una seria opposizione dentro le istituzioni. Chissà, magari Penati, finanziatore delle ronde, sarà d'accordo! A Napoli, una ragazzina accusata dalla camorra di voler rubare un bambino è stata ri-condannata a tre anni e sei mesi di reclusione pur essendo innocente! Alla vigilia dei bombardamenti americani sulla popolazione civile dell'Afghanistan soldati italiani sparano ed uccidono una tredicenne. I bombardamenti sull'Afghanistan e la faccia feroce che si mostra ai migranti sono due momenti della stessa politica di rottura, di guerra guerreggiata con i poveri del mondo.Lo smottamento a destra del sistema politico italiano subisce una accelerazione ad opera di una opposizione parlamentare che ha disperso il grande patrimonio di valori ereditato dalla cultura comunista e da quella cattolica.

“L'immoralità è insita nel nostro Paese”. Intervista a Bruno Tinti

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=9125

di Aaron Pettinari – da AntimafiaDuemila.comDallo scorso dicembre si autodefinisce un “cantastorie”. Lasciare il proprio lavoro di magistrato dopo oltre 41 anni trascorsi ad occuparsi di diritto penale dell'economia, di falsi in bilancio, di frodi fiscali e reati finanziari sicuramente non è stata una decisione facile. Non lo è mai quando si ha tanta passione.

“Lascio perché è sempre più difficile fare il magistrato. Sono allo studio riforme legislative che ridurranno i pm a puri dipendenti del ministero di Grazia e Giustizia. Ho sempre fatto il pubblico ministero in modo del tutto autonomo perché, a mio parere, non c' è differenza tra pm e giudice. Come pm ho sempre fatto un lavoro imparziale. Il pm chiede la condanna di un colpevole, non di un imputato. Non credo che possa essere identificato esclusivamente con l' accusa, preferisco definirlo come la parte pubblica che conduce l' indagine cercando di appurare la verità. Questo però presto diventerà impossibile. E quindi io non voglio trovarmi in una magistratura che non è più quella che conosco...”. Così aveva spiegato la propria decisione lo scorso novembre. Noi lo abbiamo raggiunto alla presentazione del suo nuovo libro: “La questione immorale”, tenutasi a Porto Sant'Elpidio, in provincia di Ascoli Piceno.

Dottor Tinti, quando si può parlare di “questione immorale”? La classe politica spesso usa questi termini ma poi si perde nel significato della parola stessa con atteggiamenti tutt'altro che morali...
“Io non farei esempi di moralità o immoralità della nostra classe dirigente. Il discorso è molto più ampio. Basta guardare la nostra situazione e la nostra storia. La rappresentanza politica che è presente in Parlamento non è certo nata oggi. Se il Paese, da anni ormai, esprime la propria preferenza per questa classe dirigente evidentemente questo significa che noi cittadini vogliamo essere rappresentati da certi soggetti, perché ci identifichiamo negli stessi. Poi va considerato che siamo in presenza di un circolo vizioso perché i cittadini non sono informati a causa di un tipo di informazione proprietaria che effettua un certo tipo di propaganda. Se il cittadino non viene informato, e non supera questo handicap tentando egli stesso di reperire informazioni tramite internet o quotidiani, ecco che i cittadini restano sudditi, continuando anche in futuro ad esprimere preferenze per leader che approfittano della situazione per proprio vantaggio. Ma la cosa ancora più preoccupante è che la nostra è una classe dirigente inquinata dal malaffare perché ad essere inquinato è il popolo italiano. E per dimostrare questo non serve fare grandi esempi, basta guardare alle piccole cose. Dalle auto parcheggiate in doppia fila, fino ai limiti di velocità mai rispettati. O ancora le leggi sulla parità di diritto tra uomini e donne sul lavoro o tra italiani e stranieri. Queste sono leggi che esistono ma che nel nostro Paese vengono raramente rispettate. E se si è così nel piccolo provate ad immaginare quando si ha tra le mani la gestione del potere”.

Come valuta il problema dell'informazione in Italia? Spesso si assiste alla scomparsa delle notizie. Per esempio in questi giorni Luigi De Magistris, dopo essere stato attaccato a reti unificate, è stato prosciolto da tutte le accuse che gli avevano addebitato. Sui giornali e in tv però nessuno o pochissimo risalto è stato dato a questa notizia, invece, importantissima.
Se ai tempi del terzo Reich Goebbels avesse avuto un ministero della propaganda come quello che abbiamo noi oggi staremmo ancora con il braccio alzato: efficientissimo. Si è assistito e stiamo tutt'ora assistendo a una delegittimazione della magistratura anche a livello subliminale. Persino nelle fiction ad apparire come eroi sono i poliziotti e i carabinieri. Il giudice è quello che “rompe”, un imbecille che non lavora o arriva sempre in ritardo. Anche tramite questi mezzi si fa passare il messaggio che la magistratura è qualcosa che frena il Paese così come dice il nostro ineffabile presidente del consiglio. Quindi appare ovvio che l'informazione, al momento di dare notizie che contrastano tale progetto, preferisce tacere. Mi stupisco dei giornali indipendenti. Avrebbero dovuto dare la notizia.

Restando in tema di delegittimazione una vera e propria strategia è stata ordita ai danni del “consulente” Gioacchino Genchi. La sua opinione a riguardo?
Questo fa parte dell'attacco contro le intercettazioni e della delegittimazione della magistratura e dei suoi funzionari. Hanno fatto credere che esistesse un grande archivio di telefonate registrate facendo intendere ai cittadini che siamo tutti spiati. Un allarme assurdo che l'informazione proprietaria ha reso credibile dando spazio ad opinioni di politici che per cognizione di causa o per non conoscenza, hanno strumentalizzato tutto questo per raggiungere il loro principale obiettivo che è quello di eliminare la possibilità di essere intercettati. Per quanto riguarda l'archivio del dottor Genchi voglio precisare una cosa. Il consulente, per definizione, ha con se la documentazione processuale. La possiede legittimamente perché è il pm a dargliela. Se si vuole effettuare un incrocio sui tabulati telefonici è chiaro che questi finiranno nelle mani del consulente. Un soggetto che dovrà essere sentito poi anche nell'eventuale processo. E se dovrà essere sentito riguardo ad un'indagine da lui compiuta perché non dovrebbe avere copia dei documenti su cui ha lavorato? Come potrebbe rispondere correttamente se no?

Per quanto riguarda le intercettazioni le principali imprese specializzate nell'eseguirle hanno minacciato il governo sia di non accettare futuri incarichi che di interrompere quelli già avviati se non verrà saldato il debito. Quale sarebbe il danno se ciò accadesse?
Secondo me il governo sarà contentissimo di questa cosa. Da tempo sta cercando di bloccare le intercettazioni, e se vi riuscirà senza fare leggi vergogna, prenderà due piccioni con una fava, risparmiando anche un sacco di soldi. Il danno per la giustizia sarebbe incalcolabile perché senza intercettazioni non si potranno più garantire se non quei processi più semplici come omicidi o quegli atti criminali commessi in flagranza di reato. Alcuni reati si scoprono solo tramite indagini complesse, lunghe e le intercettazioni sono fondamentali proprio in questi casi. Che così scomparirebbero dall'ordine dei processi.

Oggi si parla molto di necessità di maggior “controllo della magistratura”. C'è chi vorrebbe che quella italiana si uniformasse a quella straniera, sul modello degli Stati Uniti o della Svizzera.
Si può spiegare in due parole perché in Italia non può funzionare un sistema come questi. Negli Usa giudici ed i procuratori vengono eletti e sono direttamente appoggiati ad un partito. Questo implica una serie di aspetti. E' ovvio che alla fine del suo mandato il procuratore dovrà rendere conto al proprio elettorato. Dal suo agire può dipendere una rielezione o addirittura un avanzamento di carriera a sindaco o governatore. La domanda che subito sorge spontanea è “se può subire pressioni come può svolgere serenamente il proprio lavoro?”. Posso raccontare un episodio che ha coinvolto un collega svizzero. Svolgendo delle indagini su una banca questi era arrivato a scoprire delle movimentazioni con il ministero della giustizia, occupato da uno dei membri del partito che lo aveva eletto procuratore. Alle pressioni che arrivarono rispose con tono minacciando un coinvolgimento della stampa nel caso in cui non avesse più potuto porre a compimento l'indagine. Ecco perché in Italia questo sistema non potrebbe funzionare. Perché la stampa è fortemente intrecciata con la politica mentre all'estero no. A prescindere da questo poi credo che il sistema italiano sia migliore per un semplice motivo. Il giudice è un impiegato dello Stato. Non ci sono elezioni ma dei concorsi e la carriera è dettata dal merito. Ogni mese percepisce uno stipendio a prescindere da quello che sarà il suo giudizio ad un processo. Per questo potrà svolgere il lavoro con assoluta serenità. Certo è vero che può esserci il pm o il giudice corrotto con suoi progetti ed il suo santo protettore politico ma questi sono da considerare come una patologia, una malattia, e non rappresentano l'intera categoria.

Vista la situazione generale quali possono essere gli anticorpi per far fronte al grave stato che ci ha descritto?“
Per prima cosa devo fare una considerazione. Io ho fatto l'impiegato tutta la vita. Io sono un tecnico, quando parlo di giustizia e di diritto; non mi sottraggo a queste domande anche se il mio giudizio vale come quello di qualunque altro. Detto ciò io ripeto ancora una volta che non posso pensare ad una Paese che esprime una classe dirigente diversa da ciò che il Paese stesso è. In un Paese sano non emerge una classe dirigente classe dirigente fondata sul malaffare. E' impossibile. Magari ci sarà una quota fisiologica di politici disonesti ma nel complesso la classe dirigente è sana ed efficiente. In un paese in cui i cittadini per primi non rispettano le regole è ovvio che emerga una classe dirigente di questo tipo. Se questo è vero, e non ho l'autorità per dire se è così o no, allora è dura uscirne perché bisogna aspettare una generazione di cittadini diversa da quella attuale. E quando arriverà chi la educherà? Come? Quindi, purtroppo, c'è da essere pessimisti”.

lunedì 11 maggio 2009

Una democrazia in frantumi

http://www.nuvole.it/index.php?option=com_content&view=article&id=372:girotti-fiorenzo&catid=80:numero-38&Itemid=61

di Fiorenzo Girotti*

Gli scontri tra i maggiori poteri dello Stato, che con andamento ciclico e sussultorio punteggiano l’incerto cammino della nostra democrazia, sollecitano una riflessione ben più estesa del merito e del contesto delle questioni sollevate nel recente dibattito. Non si tratta di dare ulteriore spazio al commento degli opinionisti e degli studiosi: molto e molto bene è stato detto e scritto nelle trascorse settimane. Importante e urgente ci sembra piuttosto dare voce e consapevolezza a uno stato d’animo diffuso tra quanti d’istinto sono scesi in piazza in questi giorni per manifestare a difesa della Costituzione e del lavoro, tra quanti non hanno rinunciato a sentirsi parte di una comunità di cittadini.
Al di là dello sgomento e di qualche reazione emotiva – non ingiustificata se si considera la gravità degli attacchi mossi alla Presidenza della Repubblica – ben pochi hanno creduto di dover indulgere ai toni accorati o alle iperboli. V’è anzi un certo fastidio per chi intende evocare un’emergenza democratica a fronte di letali ferite al patto costituzionale. Nessuna dittatura è alle porte e nessuna forza politica intende cavalcare le tensioni fino alle rotture irreparabili. Quella che si percepisce è piuttosto la consapevolezza che di strappo in strappo il tessuto si sfibra, si deforma, si lacera fino a rendere sempre più arduo qualunque tentativo, pur generoso, di ricucitura o di più impegnativo rappezzo.
Le lacerazioni del quadro istituzionale
È un fatto che dalla crisi politico-istituzionale del 1992/93 il principio di separazione e bilanciamento tra i poteri appare seriamente compromesso nel nostro paese. Il tracollo dei partiti della cosiddetta prima repubblica per una lunga stagione ha enfatizzato la politicità del ruolo della magistratura e insieme della Presidenza della Repubblica, ma per reazione ha posto anche le premesse per uno spregiudicato contrattacco degli interessi lesi e dei soggetti che hanno trovato rappresentanza nei partiti populisti di nuova formazione, dalla Lega a Forza Italia. L’autonomia della magistratura è da allora posta pesantemente sotto attacco, né contribuisce a difenderla l’evidenza di croniche inefficienze, privilegi e logiche corporative a fronte delle quali anche i governi di orientamento riformatore hanno mostrato timidezza o impotenza.
Negli stessi anni, in un clima d’opinione largamente favorevole a formule maggioritarie - ben altrimenti radicate nella tradizione politica dei paesi anglosassoni - anche da noi sono state poste le premesse per una progressiva transizione dalla forma di governo parlamentare verso sempre più ibridi assetti, che hanno inteso esaltare le prerogative della maggioranza in una logica bipolare. Non era che l’inizio di un progressivo logoramento della legittimazione del parlamento all’insegna di un preteso contrasto delle pratiche consociative del passato. Il parlamento da sede di rappresentanza degli interessi dei cittadini, da luogo di costruzione di un costante compromesso tra maggioranza e minoranza per la soluzione di problemi collettivi, è stato da allora sempre più assimilato a un’arena di semplice enunciazione degli interessi, di passiva ratifica, a colpi di fiducia, della decretazione governativa.
Al progressivo esautoramento del parlamento si è accompagnata una sistematica perdita di centralità delle assemblee elettive decentrate, dalle istituzioni del governo locale ai governi regionali, cui pure la neolegislazione degli anni Novanta ha attribuito nuovi poteri e competenze. Il principio di legittimazione è da allora unicamente individuato nella maggioranza espressa dal voto popolare, qualunque essa sia: chi vince le elezioni “deve essere posto nelle condizioni di governare” anche contro gli interessi (non meno legittimamente) rappresentati dalle minoranze. In questo modo, nelle città i consigli comunali non hanno conservato che deboli e pressoché formali poteri di indirizzo e controllo. Chi governa sono i sindaci, e per loro gli assessori e i city manager che i primi cittadini hanno scelto per lo più con totale discrezionalità, sulla base di un rapporto meramente fiduciario.
La perdita di centralità delle istituzioni cardine della rappresentanza incoraggia e rafforza pratiche di autorappresentazione dei poteri forti presso gli esecutivi e trasforma in prassi corrente l’accesso diretto degli interessi all’amministrazione. Si affermano, in tal modo, processi di governo sempre più sottratti alla visibilità e al controllo dei cittadini, come pure dei legittimi portatori di interessi, nel momento stesso in cui si assiste ad un’esaltazione quasi ossessiva delle buone virtù della governance e della concertazione, dei processi partecipati e dell’inclusività. Né si pongono argini di una qualche efficacia al trionfo acritico delle logiche manageriali, allo sperpero sistematico, all’uso spregiudicato delle risorse e dell’indebitamento pubblico, all’insensibilità quando non all’arrogante irrisione nei confronti dei bisogni e delle domande argomentatamente espresse dai cittadini. Gli interessi più strutturati e pervasivi, le logiche particolaristiche, l’esercizio autocratico delle proprie prerogative decisionali da parte sia del ceto politico e di governo, sia dei vertici burocratici sembrano in ogni modo destinati a prevalere sul senso di responsabilità, sull’impegno e sulla valorizzazione delle competenze professionali di dirigenti, funzionari e operatori ancora impegnati a difendere il carattere pubblico delle politiche.
In contesto di progressiva e sostanziale espropriazione della sovranità dei cittadini, tanto più apprezzabile appare pertanto l’impegno di politici e magistrati ancora disposti a garantire un’assunzione di responsabilità collettiva, pur nel rispetto di una irrinunciabile sfera di autonomia e libertà di scelta riservata ai singoli alle comunità, nel dare risposta a problemi complessi su cui l’opinione pubblica ha manifestato una così elevata sensibilità. E tanto più intollerabili appaiono quindi sia le rinnovate pressioni ecclesiastiche in tema di bioetica e testamento biologico, esercitate direttamente sulle nostre istituzioni, sia l’opportunismo di un esecutivo che non esita a porre in atto, con legge dello stato, una inammissibile interferenza in quella sfera dei mondi vitali e della responsabilità personale che pure dovrebbe continuare a presidiare le condizioni minime per un’esistenza degna di essere vissuta.
L’ultima e non meno grave lacerazione del tessuto istituzionale e civile del nostro paese è da ravvisare dunque nella rinuncia a tutelare la laicità delle istituzioni, alla luce del principio che lo Stato è e dovrebbe restare la casa di tutti a difesa di diritti essenziali. Allo stesso modo in cui anche la costruzione condivisa delle regole è e dovrebbe restare un principio non negoziabile.
La frammentazione degli interessi
Gli effetti deteriori di un uso particolaristico e partigiano delle istituzioni risultano a dir poco enfatizzati dalla parossistica frantumazione degli interessi che precede e anticipa le spinte disgregatrici della crisi in atto.
È appena il caso di richiamare, in uno scenario di relazioni globali, le trasformazioni indotte dal superamento del modello fordista di impresa e di società, con la perdita di centralità dei grandi soggetti collettivi della sfera della produzione e del welfare, nonché la perdita di ancoraggio ad una dimensione unicamente nazionale delle politiche e dei diritti. Nuovi interessi emergono, si differenziano e si contrappongono a quelli tutelati dai grandi soggetti collettivi, già protagonisti del contratto sociale che negli anni dello sviluppo era stato di presidio alla ricostruzione economica e civile e alla rinascita dei regimi democratici. Nuove linee di divisione oppongono oggi settori dell’economia innovativi e obsoleti, connessi alle reti dell’economia globale e racchiusi in uno spazio locale, mondi del lavoro protetti e non protetti, garantiti e non garantiti, socialmente tutelati e per contro esposti al ricatto di una cronica precarietà.
Se questo è uno scenario comune a molte economie dei paesi più sviluppati, peculiarità della nostra realtà nazionale è la sistematica perdita di peso e forza contrattuale del lavoro, che prelude a una lenta ma inesorabile erosione dei redditi, a una regressiva redistribuzione della ricchezza a carico del lavoro dipendente e, con tutta evidenza, delle posizioni di lavoro subordinate. Ma anche le politiche di condono fiscale e previdenziale hanno significativamente contribuito a questa cospicua redistribuzione della ricchezza a danno, soprattutto, dei lavoratori e degli imprenditori che hanno rispettato le regole del gioco. Strumenti e snodi importanti di questo arretramento sono stati e sono l’attacco sistematico allo Statuto dei diritti dei lavoratori, il varo di normative come la legge 30 che hanno introdotto una flessibilità del tutto disancorata dalla sicurezza, la rottura dell’unità sindacale e l’uso politico della divisione tra le grandi centrali sindacali; e di recente una riforma dei contratti che, con il pretesto di introdurre un livello di contrattazione locale ancorato alla produttività, vanifica l’ultimo presidio realistico per la maggior parte dei lavoratori di piccola e media impresa, di fatto unicamente rappresentato dal contratto nazionale. Accanto a queste dinamiche, di più evidente percezione, la condizione dei lavoratori è però stata ulteriormente indebolita dal sostantivo ridimensionamento delle prestazioni previdenziali, a cominciare da quelle pensionistiche assicurate alle fasce più giovani, e dalla debole o inesistente tutela del rischio di disoccupazione, in assenza ancora di una ragionevole garanzia del reddito e di veri ammortizzatori sociali a protezione delle posizioni lavorative più vulnerabili.
Nella logica di un cinico divide et impera il mondo del pubblico impiego, delegittimato da sistematiche campagne mediatiche, ancorché in assenza di qualunque investimento di riqualificazione, è contrapposto a quello del privato, i lavoratori stabili ai precari, gli strutturati al lavoro nero, i giovani agli anziani, la forza di lavoro autoctona a quella immigrata; la lealtà fiscale e contributiva alle pretese buone ragioni di un’estesa evasione ed elusione fiscale; l’economia legale a quella illegale quasi sempre in simbiosi con il vasto territorio dell’economia criminale.
Una società disgregata
Sarebbe facile obiettare che molti tra quelli richiamati sono processi di lungo periodo, comuni a molte delle società cosiddette complesse in un orizzonte di crescente globalizzazione dei rapporti economici e sociali. Ciò che appare allarmante, tuttavia, per riferirci ancora alla realtà della società italiana, è l’intensità e la rapidità dei processi involutivi, con effetti cumulativi tanto più rapidi e sensibili quanto più appaiono deboli le politiche e le azioni di contrasto.
Non sono soltanto l’economia e il lavoro a dar segni di arretramento. Dalla scuola alle politiche di sicurezza sociale, dalle politiche per lo sviluppo alle infrastrutture e alla tutela dell’ambiente e del territorio, gli ultimi epigoni delle sirene neoliberiste si affannano ad esaltare le buone virtù del mercato, delle privatizzazioni, della ricerca univoca di soluzioni individuali a problemi collettivi.
La società si frammenta in corpi sempre più autoreferenziali, la tutela di interessi categoriali gode di maggiore legittimità della ricerca concertata di soluzioni orientate a un pubblico interesse, la difesa corporativa degli interessi di specifiche aree territoriali prevale sulle politiche di integrazione tra Nord e Sud, tra aree forti e deboli, tra realtà centrali e periferiche.
Alla frammentazione della società in segmenti e corpi separati si accompagna, quel che è più grave, una progressiva attenuazione del senso della cittadinanza e una minore attenzione al valore-obiettivo della coesione sociale, come la pauperizzazione dei soggetti più deboli, mediante un maldestro uso delle “carte sociali”, ha di recente messo in mostra. L’integrazione degli immigrati, fino a ieri perseguita in una logica di reciprocità tra diritti e doveri - pur tra non poche incomprensioni della vera portata del problema anche da parte della sinistra - è oggi assimilata a mera azione di contenimento e di utilizzo di una forza lavoro a basso costo. La costruzione politica e mediatica del problema della sicurezza, in assenza di veri investimenti e di un efficace presidio del territorio, è unicamente pretesto per campagne di demonizzazione degli immigrati a sfondo razziale; anziché operare di prevenzione (ed educazione dei cittadini all’impegno solidale) si alimenta la paura e l’indifferenza.
L’allentamento dei legami sociali e la perdita di spirito di tolleranza producono un sensibile arretramento non solo sul terreno dei diritti politici e sociali, ma anche su quello non meno cruciale dei diritti civili. In questa luce, le prove tecniche di stato di polizia, sperimentate a Genova nel 2001, segnano indelebilmente la coscienza di ogni democratico. Non meno inquietanti si profilano per altro anche le intercettazioni sistematiche, non quelle mirate a specifiche inchieste ma unicamente dirette a produrre strumenti di controllo da parte di poteri - non del tutto occulti - su politici, amministratori e comuni cittadini.
Crisi della rappresentanza e collasso dei partiti
A ricomporre i diversi tasselli, quello che si disegna è un quadro a dir poco inquietante. Né conforta esorcizzarlo richiamando dinamiche non dissimili che investono democrazie di ben più solida tradizione della nostra. Demagogia e populismo, sull’onda dell’antipolitica, caratterizzano in effetti l’esperienza di molti altri paesi, e per converso qualunquismo ed etnocentrismo connotano gli orientamenti di grandi masse di elettori. Vero che la nostra non è di certo l’unica esperienza di involuzione democratica, in cui interessi privati e un populismo spregiudicato si fondono in operazioni elettorali di grande successo, anche grazie a un sistematico impiego di pubblicità ingannevole. Ciò che tuttavia colpisce, del caso italiano, sono gli effetti di aggregazione e i meccanismi cumulativi; la simultaneità delle rotture e il sincronismo delle dinamiche involutive che accelerano l’arretramento.
In quale altro paese, di fronte a un’offensiva di tale portata si assiste al crollo sistematico e simultaneo delle principali forze politiche in grado contrapporre azioni di contrasto, tanto da ridurre all’impotenza e all’incapacità di formulare proposte larga parte dell’opposizione?
In presenza di un’esigenza diffusa di riscoperta dei denominatori comuni e di una ritrovata unità d’azione si è preferito percorrere o addirittura esaltare le logiche centrifughe del “correre da soli”. Nell’intento, pur condivisibile, di costruire una grande forza democratica e riformatrice si è preteso di tenere insieme culture e componenti che hanno convinzioni a dir poco contrastanti in materia di diritti civili e laicità dello stato, mentre un patrimonio di militanza e radicamento sociale veniva progressivamente dissipato. Invece di ricomporre interessi diffusi e soggetti sociali, cui dare nuova voce e rappresentanza, si è preferito ripiegare su forme neppure troppo trasformate di patronato degli interessi, su logiche correntizie o neonotabilari di puntiglioso presidio delle proprie nicchie elettorali, nella costante preoccupazione di un controllo esclusivo del potere di designazione dei rispettivi partiti. Da ultimo, in presenza di una crisi pressoché inarrestabile di credibilità e fiducia, proprio nella maggiore forza di opposizione è prevalsa l’idea di dover elevare le soglie di sbarramento e di limitare la facoltà concessa agli elettori di operare scelte tra i candidati imposti dai vertici di partito.
Sembra ovvio doverlo ribadire, ma esiste l’errore in politica ed è bene che sappiano tenerne conto non solo i leader, che in quanto tali dovrebbero sentire tutta l’urgenza di correzioni di rotta non più rinviabili, ma anche gli elettori e i militanti che, con diversa responsabilità, ne hanno assecondato le scelte.
Ricomporre uno schieramento che abbia al centro la tutela del lavoro e dei diritti, che sappia sviluppare momenti di confronto e di aggregazione, che sappia dare rappresentanza ai diversi frammenti di una società e di un’economia sempre più spoglia di regole e capacità di governo, dovrebbe imporsi, con tutta evidenza, come l’obiettivo primario di ogni forza politica che, al di là di miopi tatticismi, senta ancora la responsabilità di risanare questa democrazia in frantumi.
*Fiorenzo Girotti insegna Scienza Politica all’università di Torino

domenica 10 maggio 2009

La sinistra invertebrata

http://www.internazionale.it/home/primopiano.php?id=22350

Troppo deboli, moderati, pronti a scendere a compromessi. Il Pci e i suoi eredi hanno perso contatto con la società. E hanno dilapidato un'eredità politica straordinaria, scrive lo storico inglese Perry Anderson.

1 maggio 2009 • Fonte: Internazionale La sinistra italiana era una volta il più grande e impressionante movimento popolare per il cambiamento sociale in Europa occidentale. Comprendeva due partiti di massa, il Pci e il Psi, ognuno con la propria storia e cultura, impegnati non a migliorare, ma a rovesciare il capitalismo.

L'alleanza del dopoguerra tra socialisti e comunisti, però, non sopravvisse al boom degli anni cinquanta. Nel 1963 Pietro Nenni portò per la prima volta il Psi al governo, come alleato della Democrazia cristiana, imboccando la strada che avrebbe condotto a Bettino Craxi e lasciando ai comunisti la guida dell'opposizione al regime democristiano. Fin dall'inizio il Pci era stato il più forte dei due partiti, sia dal punto di vista organizzativo sia da quello ideologico. Prima di tutto aveva una base più ampia: a metà degli anni cinquanta contava più di due milioni di iscritti, che andavano dai contadini del sud agli operai delle industrie del nord passando per gli artigiani e gli insegnanti del centro Italia.Il suo punto di riferimento teorico erano i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, pubblicati per la prima volta tra il 1948 e il 1951. All'apice della sua potenza, il Pci era in grado di attingere a una straordinaria gamma di energie morali e sociali: poteva contare sia sulle sue profonde radici popolari sia sull'appoggio degli intellettuali, più di qualsiasi altra forza politica del paese.La grande influenza che il Pci esercitava nel mondo del pensiero e dell'arte dipendeva anche dalla sua capacità di assimilare e riproporre il filone dominante della cultura italiana: l'idealismo. Questa corrente aveva trovato la sua espressione più alta, anche se non l'unica, nella filosofia di Benedetto Croce, che nella vita culturale italiana aveva assunto un ruolo simile a quello avuto da Goethe in Germania.Lo storicismo di Croce, anche grazie all'attenzione che gli aveva riservato Gramsci negli anni della prigionia, diventò il nutrimento naturale di gran parte della cultura italiana del dopoguerra. Dietro a quella corrente di pensiero, però, si nascondevano tradizioni filosofiche molto più antiche, secondo cui in politica il primato spettava al regno delle idee, concepito come volontà o intelletto.

La lotta per l'egemonia
Tra la caduta dell'impero romano e la fine del risorgimento, l'Italia non aveva mai conosciuto un governo o un'aristocrazia nazionale, ed era stata quasi sempre in balìa di potenze straniere in conflitto tra loro.A lungo le sue élite avevano avvertito il peso schiacciante del divario tra il passato glorioso del paese e il suo triste presente. A partire da Dante, gli intellettuali si erano sentiti in dovere di riscoprire e trasmettere la cultura dell'antichità classica, convinti che l'Italia potesse risorgere solo grazie alle idee mutuate dalla sua storia e dalla sua tradizione. La cultura non era distinta dalla politica: era il passaporto per arrivare al potere.Il comunismo italiano aveva ereditato questo atteggiamento mentale e lo aveva rimodellato secondo gli insegnamenti di Gramsci. Nella sua dottrina "l'egemonia" era una supremazia culturale e morale da conquistare con il consenso della società civile.Vero cardine della società, l'egemonia avrebbe garantito la pacifica conquista del controllo dello stato. Secondo questa interpretazione, l'autorevolezza che il partito aveva conquistato nell'arena intellettuale era il primo passo verso la vittoria politica finale. In realtà questa non era affatto la visione di Gramsci.Da rivoluzionario e membro della Terza internazionale, il filosofo sardo riteneva essenziale ottenere il massimo consenso popolare per rovesciare l'ordine costituito, ma non aveva mai pensato che il capitalismo potesse essere abbattuto senza la forza delle armi. Il punto era che l'idea del primato dell'egemonia si adattava molto bene alla cultura di stampo idealista. Gli intellettuali legati al Pci, inoltre, conservavano i pregiudizi delle élite tradizionali, i cui campi di ricerca preferiti erano tutti umanistici: la filosofia, la storia e la letteratura.Le discipline più moderne come l'economia e la sociologia, e i loro metodi presi in prestito dalle scienze naturali, erano estranei agli interessi del partito. Il Pci aveva una straordinaria influenza sui vertici delle gerarchie culturali, ma ai livelli più bassi mostrava una debolezza preoccupante, che in futuro avrebbe avuto gravi conseguenze.

Masse ed élite
Il partito fu colto di sorpresa dai due grandi cambiamenti del dopoguerra in Italia. Il primo fu la diffusione della cultura di massa, un fenomeno inimmaginabile nel mondo in cui erano cresciuti Togliatti o Gramsci.Anche nel momento della sua massima espansione, il tentativo del Pci – e più in generale della sinistra – di allargare la propria influenza culturale ha sempre incontrato diversi ostacoli. La religione, infatti, aveva ancora un ruolo chiave nell'immaginario e nelle convinzioni degli italiani.Nelle università, nelle case editrici, negli studi degli artisti e nelle redazioni delle riviste l'influenza del partito era molto diffusa, e ben distinta da quella dell'establishment borghese liberale sulla stampa quotidiana. Ma in Italia è sempre esistito un gran numero di giornali e programmi televisivi confezionati in base ai gusti degli elettori della Democrazia cristiana di cultura medio-bassa. Dall'alto della sua cultura elitaria, il Pci guardava a questo universo con condiscendenza, considerandolo l'eredità di un passato clericale sulla cui importanza Gramsci si era soffermato a lungo. Non si rendeva conto, però, che tutto questo era una minaccia per il suo potere. Il fatto che la cultura di massa fosse completamente laica e americanizzata era un altro discorso. L'apparato del partito e l'intellighenzia che gli si era formata intorno furono colti di sorpresa e rimasero spiazzati.Anche se la critica italiana si era già occupata della letteratura popolare (Umberto Eco era stato uno dei pionieri in materia), il Pci non riuscì a inserirsi in questo filone. Non ci fu nessuna dialettica creativa in grado di resistere all'offensiva del nuovo e di modificare i rapporti tra cultura alta e cultura bassa. Il caso del cinema, un campo in cui nel dopoguerra l'Italia aveva dato prova di eccellenza, è emblematico. I grandi registi come Roberto Rossellini, Luchino Visconti o Michelangelo Antonioni avevano debuttato tra la fine degli anni quaranta e i primi cinquanta e le loro ultime opere importanti risalgono all'inizio degli anni sessanta.Ma quella generazione non ebbe eredi alla sua altezza. Negli anni sessanta in Italia mancò quell'esplosivo incrocio tra avanguardia e forme popolari che in Francia e in Germania produsse le opere di Jean-Luc Godard e Reiner Werner Fassbinder. Più tardi ci sarebbe stato solo il debole contributo di Nanni Moretti. E così il profondo divario di sensibilità che si era creato tra le classi colte e quelle popolari ha reso il paese indifeso di fronte alla controrivoluzione dell'impero televisivo di Berlusconi. La sua tv ha nutrito l'immaginario popolare con un mucchio di idiozie e invenzioni volgari. Non sapendo come affrontare questi cambiamenti, per una decina d'anni il Pci ha cercato di resistergli. L'ultimo vero leader del partito, Enrico Berlinguer, ha incarnato l'austerità e il disprezzo per l'autoindulgenza e l'infantilismo del nuovo mondo dei consumi materiali e culturali. Dopo la sua morte, il passaggio dal rifiuto intransigente di quei valori all'entusiastica capitolazione politica e culturale è stato brevissimo.E Walter Veltroni ha finito con il somigliare sempre di più alle figurine sorridenti degli album che aveva distribuito con l'Unità quando era direttore del giornale.

Giovani e operaisti
Se l'idealismo non aveva permesso al Pci di cogliere la spinta al materialismo che aveva trasformato il modo di divertirsi degli italiani, la stessa scarsa lungimiranza dal punto di vista economico e sociologico gli impedì di accorgersi dei cambiamenti in corso nel mondo del lavoro.Già alla fine degli anni sessanta il partito prestava meno attenzione a questi fenomeni di quanto stava facendo una nuova leva di giovani radicali, che avrebbero prodotto quel fenomeno tutto italiano che è stato l'operaismo, una delle più singolari avventure intellettuali della sinistra europea di quegli anni. A differenza del Pci, nel dopoguerra il Partito socialista aveva esplorato con una figura di spicco come Rodolfo Morandi un marxismo poco idealistico e più attento invece alle strutture dell'industria italiana.Morandi trovò un valido successore in Raniero Panzieri, un militante socialista che dopo essersi trasferito a Torino aveva cominciato a indagare sulle condizioni di lavoro degli operai della Fiat, raccogliendo intorno a sé un gruppo di giovani intellettuali, che spesso (come Antonio Negri) provenivano dalle organizzazioni giovanili socialiste.Negli anni sessanta l'operaismo diventò un movimento multiforme e diede vita a una serie di riviste importanti, anche se dalla vita breve, come Quaderni rossi, Classe operaia, Gatto selvaggio e Contropiano, che esploravano le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e del capitalismo industriale italiano.Il Pci non aveva iniziative paragonabili e prestava poca attenzione a questo fermento, anche se il più influente dei nuovi teorici era un giovane comunista romano, Mario Tronti. L'operaismo era una corrente estranea al partito, e per di più dichiaratamente ostile a Gramsci, accusato di spiritualismo e populismo.Il forte impatto che ebbe l'operaismo non fu dovuto solo alle inchieste e alle idee dei suoi teorici, ma anche alla loro capacità di cogliere l'irrequietezza della nuova classe operaia. I giovani immigrati del sud si ribellavano ai bassi salari e alle condizioni opprimenti delle fabbriche del nord ricorrendo a insolite forme di lotta, che lasciavano sconcertati i sindacati tradizionali.Aver saputo anticipare queste nuove mobilitazioni diede all'operaismo una grande forza intellettuale, ma allo stesso tempo lo fece rimanere immobile sulle sue intuizioni originarie. Il risultato fu l'idealizzazione della rivolta proletaria. Dopo essersi resi conto che l'industria italiana stava di nuovo cambiando e che nelle fabbriche la militanza era in crisi, alla metà degli anni settanta Negri e molti altri tornarono a vedere nella figura del "lavoratore sociale" – in pratica chiunque fosse occupato, o sottoccupato, dal capitale – il protagonista della rivoluzione immanente.L'astrattezza di questo concetto era un segnale della disperazione e della visione apocalittica che alla fine degli anni settanta avrebbero portato quest'ala dell'operaismo in un vicolo cieco. Oltre a non aver capito la portata dei mutamenti degli anni sessanta, il Pci non aveva imparato nulla dai suoi errori e non fu capace di produrre nulla di interessante in termini di sociologia industriale. Fu così che negli anni ottanta, mentre l'economia italiana attraversava altri cambiamenti cruciali, con la nascita delle piccole imprese e del sommerso (il secondo "miracolo italiano", come fu ottimisticamente definito all'epoca) il Pci si ritrovò di nuovo impreparato.E questa volta il colpo fu fatale: il partito perse infatti il suo ruolo di rappresentante politico della classe operaia. Negli anni novanta la sinistra ha subìto altre due pesanti sconfitte: il trionfo di Forza Italia ha sottolineato l'incapacità di reagire alla massificazione della cultura popolare, e il successo della Lega nord ha rivelato l'incapacità di rispondere tempestivamente alla frammentazione del mondo del lavoro postmoderno.Questi errori sono stati causati da una mentalità che aveva radici più profonde del marxismo e una visione tradizionale dei valori culturali, a suo modo apprezzabile nonostante i suoi limiti. Questo idealismo, però, aveva anche un aspetto negativo che era tipico del comunismo italiano: una sorta di riflesso strategico che non era mai cambiato dai tempi della liberazione, un'eredità le cui conseguenze si avvertono ancora oggi.

La svolta di Salerno
Nel 1944, di ritorno da Mosca, Togliatti fece subito capire che un'insurrezione non era nei piani del partito. Dopo vent'anni di esilio e repressione, il compito del Pci era costruire un partito di massa e guadagnarsi un ruolo centrale nelle nuove istituzione democratiche del paese.Togliatti, però, si spinse ancora più in là. Nell'estate del 1943, quando gli alleati sbarcarono in Sicilia, la monarchia italiana chiese le dimissioni di Mussolini, che il 25 luglio fu sfiduciato dal Gran consiglio del fascismo. Poco dopo il re fuggì al sud con il maresciallo Badoglio, che fu messo a capo del governo dagli Alleati.Il nord era invece sotto il controllo del regime di Salò, guidato da Mussolini. Quando la guerra finì l'Italia non fu trattata come una potenza sconfitta, alla stregua della Germania, ma come una nazione "cobelligerante" .Una volta partite le truppe alleate, il governo di coalizione (che comprendeva il Partito d'azione, i socialisti, i comunisti e i democristiani) si trovò ad affrontare l'eredità del fascismo e della monarchia, che aveva collaborato a lungo con Mussolini. I democristiani sapevano che i loro potenziali elettori erano ancora fedeli alla monarchia, ed erano perciò decisi a impedire che in Italia si verificasse un fenomeno simile alla "denazificazione" tedesca. Ma erano in minoranza rispetto ai partiti di sinistra.A questo punto il Pci decise di non mettere alle corde la Dc. Non chiese l'epurazione, che avrebbe significato la rimozione di tutti i funzionari vicini al fascismo nella burocrazia, nella magistratura, nell'esercito e nella polizia, e lasciò alla Dc la guida del governo, senza fare nulla per smantellare l'apparato di potere creato da Mussolini. Fu così che il Partito fascista, rinato con il nome di Movimento sociale italiano, tornò presto in parlamento. E quarant'anni dopo la vedova di Togliatti partecipò ai funerali del leader dell'Msi Giorgio Almirante. Oggi Gianfranco Fini, erede di Almirante, è il presidente della camera dei deputati ed è il probabile successore di Berlusconi alla presidenza del consiglio.

L'eredità sovietica
Al di là degli evidenti errori di questa traiettoria politica, quello che si può rimproverare al Pci è la sua inerzia autodistruttiva. Il partito aveva già edulcorato il concetto gramsciano di egemonia, riducendolo alla ricerca del consenso e confinandolo alla società civile.Allo stesso modo, sotto la guida di Togliatti aveva ridotto la sua strategia politica a una semplice guerra di posizione. I comunisti italiani cercarono per anni di influenzare la società civile, come se ormai in occidente non fosse più necessaria una guerra di manovra, con le sue imboscate, le sue cariche improvvise, i suoi rapidi attacchi e i tentativi di cogliere di sorpresa i nemici di classe o lo stato. Tra il 1946 e il 1947 De Gasperi e i suoi colleghi non fecero lo stesso errore.Nel 1948 lo slancio popolare innescato dalla Liberazione si era già esaurito. L'inizio della guerra fredda portò alla sconfitta elettorale della sinistra, e ci vollero vent'anni prima che in Italia ci fosse una nuova ondata di mobilitazioni politiche. La rivolta generazionale della fine degli anni sessanta, che coinvolgeva studenti e lavoratori, fu più profonda e durò più a lungo che nel resto d'Europa.Sotto la guida del successore di Togliatti, Luigi Longo, più agguerrito e meno diplomatico, il Pci non reagì negativamente alla rivolta giovanile come fece invece il Partito comunista francese. Ma non fu nemmeno capace di rispondere in modo creativo, non riuscendo né a entrare in contatto con una cultura in cui i classici del passato bolscevico e gli slogan scritti sui muri si integravano in modo dinamico, né a rinnovare il suo bagaglio ideologico e teorico.Quando all'interno del Pci emerse un gruppo brillante e critico verso l'inerzia del partito, i dirigenti non esitarono a espellerlo. Nel 1969 questo gruppo di militanti, che aveva una visione genuinamente gramsciana e una maggiore intelligenza politica rispetto agli operaisti, fondò Il manifesto. La scomunica avvenne dopo l'invasione sovietica della Cecoslovacchia, che Il manifesto condannò senza riserve. Oltre che nel suo innato idealismo, proprio in questa decisione va cercato il secondo motivo della paralisi strategica del comunismo italiano.Flessibile sotto certi aspetti, il Pci è sempre rimasto stalinista sia nella sua struttura interna sia nel legame con il regime sovietico. Convinta che la Dc non fosse capace di esercitare un'egemonia assoluta, la destra del Pci ha spesso lodato la moderazione del partito in politica interna, criticando invece i legami con l'Unione Sovietica e la rigidità organizzativa. In realtà le due cose erano strutturalmente collegate. A partire dalla svolta di Salerno del 1944, la moderazione servì al partito come contrappeso ai suoi rapporti con Mosca. Esposto alle accuse di avere troppe affinità con l'Unione Sovietica, il Pci doveva dimostrare che non aveva nessuna tentazione di emulare il modello bolscevico.Il peso di queste accuse alimentava la ricerca di una rispettabilità politica che compensasse le colpe presunte. Il rappresentante più in vista della destra del partito, Giorgio Amendola, incarnava perfettamente questo dualismo: denunciava il rischio di un'eccessiva tolleranza nei confronti delle rivolte giovanili ma andava regolarmente in vacanza in Bulgaria con la famiglia.Durante la crisi provocata dal sequestro di Aldo Moro, il Pci dimostrò di non avere né umanità né buon senso. Fu contrario a ogni ipotesi di negoziato, con una veemenza perfino maggiore rispetto alla Democrazia cristiana, che sulla questione era molto divisa.La Dc non mostrò nessuna gratitudine verso i comunisti. Dopo averli usati, Giulio Andreotti gli inflisse una sconfitta bruciante alle elezioni. Nel 1979 il Pci perse un milione e mezzo di voti.

Napolitano e l'immunità
Cinque anni fa, in un'amara riflessione sul suo paese, il politologo Giovanni Sartori ha osservato che Gramsci aveva ragione quando distingueva tra guerra di posizione e guerra di manovra.I grandi leader europei come Winston Churchill e Charles de Gaulle avevano compreso la necessità di impegnarsi in guerre di manovra, mentre i politici italiani conoscevano solo la guerra di posizione. Nel suo articolo Sartori sosteneva che il titolo del famoso saggio di José Ortega y Gasset, Spagna invertebrata, si adattava benissimo all'Italia.Nella penisola, infatti, la controriforma aveva creato una profonda assuefazione al conformismo, e le continue conquiste e invasioni straniere avevano reso gli italiani specialisti nell'arte del piegarsi per sopravvivere. Senza élite coraggiose, l'Italia era un paese privo di spina dorsale.Sartori non parlava a caso. Si rivolgeva alla classe politica che conosceva. Quando il suo articolo è stato pubblicato, nel 2004, il Pci non esisteva più. Al potere c'era Berlusconi e il suo obiettivo era chiaro: difendere se stesso e il suo impero dalla magistratura. Le leggi ad personam per realizzare quest'obiettivo erano già state approvate dal parlamento ed erano arrivate sulla scrivania del presidente. La presidenza della repubblica italiana non è una carica puramente onorifica. Il Quirinale non solo procede alla nomina del presidente del consiglio, che deve poi essere ratificata dal parlamento, ma può anche non approvare la nomina dei ministri e rifiutarsi di firmare le leggi.Nel 2004 il presidente in carica era l'ex governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, un fiore all'occhiello del centrosinistra: aveva guidato l'ultimo governo della prima repubblica ed era stato ministro dell'economia con Romano Prodi.Imperturbabile, Ciampi ha firmato delle leggi che non solo consolidavano il controllo di Berlusconi sulla televisione, ma gli garantivano l'immunità da qualsiasi procedimento giudiziario. La sua decisione è stata contestata da centinaia di persone che si sono raccolte davanti al Quirinale.Ma gli eredi del Partito comunista non hanno sollevato nessuna obiezione. Anzi, la prima bozza della proposta di legge sull'immunità era uscita proprio dai ranghi del centrosinistra.Neanche la stampa ha osato mettere in discussione il presidente, che per tradizione è considerato super partes ed è trattato con la dovuta riverenza. Solo una voce si è levata contro Ciampi: quella di Sartori, un conservatore liberale, che con una buona dose di sarcasmo ha criticato il presidente per la sua mancanza di coraggio. Oggi al Quirinale c'è l'ex comunista Giorgio Napolitano, successore di Amendola alla guida della destra del Pci, la cosiddetta ala migliorista. Quando ha assunto la carica, nel 2006, la prima legge sull'immunità era già stata dichiarata incostituzionale dalla consulta.Presentati sotto una nuova forma, i princìpi contenuti in quel provvedimento sono stati approvati di nuovo dal parlamento. Il capogruppo postcomunista al senato ha preferito non fare opposizione, spiegando che in linea di principio il Partito democratico non aveva obiezioni, anche se riteneva che la legge sarebbe dovuta entrare in vigore nella legislatura successiva. Napolitano non aveva tempo da perdere con simili questioni di principio e ha firmato il provvedimento il giorno stesso in cui è arrivato sul suo tavolo. Ancora una volta, le uniche voci che si sono levate a denunciare questa vergogna sono state quelle di intellettuali liberali o apolitici, come Sartori e un gruppetto di altri spiriti liberi, immediatamente rimproverati non solo dalla stampa vicina al Pd ma anche da Rifondazione comunista per aver mancato di rispetto al capo dello stato. Questa è la sinistra invertebrata dell'Italia di oggi.

Verso destra
La fine dell'esperienza sovietica, la disintegrazione della classe operaia tradizionale, l'indebolimento dello stato sociale, il potere sempre maggiore della televisione, il declino dei partiti: gli eventi che negli ultimi anni hanno colpito la sinistra europea sono stati molti e di grande portata.E pochi partiti li hanno attraversati indenni. Se considerata in questa prospettiva, la fine del comunismo italiano rientra in un quadro storico più ampio, che va al di là di ogni critica. Ma nessun altro paese ha dilapidato del tutto un patrimonio così imponente. Il partito che era stato superato in astuzia politica da De Gasperi e Andreotti, che non aveva avuto il coraggio di epurare i fascisti e di spaccare il fronte clericale, era comunque una forza con una grande vitalità. Eppure i suoi eredi sono scesi a patti con Berlusconi senza un vero motivo politico, ben sapendo chi avevano di fronte e quello che stava facendo.Sul premier italiano esiste una ricca letteratura di denuncia, sia in Italia sia all'estero, tra cui almeno tre saggi di alto livello in inglese. Le critiche, però, non toccano mai le responsabilità del centrosinistra. La complicità dei suoi leader con il progetto berlusconiano non è un'anomalia, ma rientra in una strategia coerente.Gli eredi del comunismo italiano hanno permesso al capo di Forza Italia di mantenere e ampliare il suo impero mediatico a dispetto della legge, non hanno fatto nulla per risolvere il conflitto d'interessi, hanno rifiutato di far arrestare il suo braccio destro e hanno cercato più volte di fare, per puro calcolo politico, una riforma elettorale con il suo partito. Alla fine, però, sono rimasti non solo a mani vuote, ma senza idee e perfino senza coscienza.Nel frattempo le fondamenta della cattedrale della cultura di sinistra avevano già cominciato a sgretolarsi, indebolite dalla natura stessa del Pci come partito di massa. Come in Germania, lo spostamento verso destra è cominciato con la rivalutazione della dittatura che aveva governato il paese tra le due guerre. Uno dei protagonisti di questo fenomeno è stato lo storico Renzo De Felice. Pur non avendo l'apparato concettuale e l'ampiezza di interessi di Ernst Nolte, De Felice ha scritto libri che hanno avuto un impatto assai più profondo di quelli del suo collega tedesco.Il suo successo non si deve alla sua erudizione o al fatto che in Italia il fascismo non era mai stato screditato in modo netto, come invece era successo in Germania. La vera ragione della popolarità delle tesi di De Felice dipende dalla debolezza della cultura ufficiale a cui la sua storiografia si contrapponeva. È significativo che le critiche più radicali all'edificio costruito da De Felice sono arrivate dall'inglese Denis Mack Smith invece che da studiosi italiani di sinistra.

Religioni e politica
Il principale erede di De Felice è stato Emilio Gentile, uno storico che ha interpretato i movimenti politici di massa del novecento come versioni secolarizzate di una fede soprannaturale, dividendole in due filoni: quello totalitario, in cui ci sono fascismo, comunismo e nazionalismo, e quello democratico delle religioni civili, come il patriottismo statunitense. Questa teoria ha avuto più successo nel mondo anglosassone che in Italia. aradossalmente, lo stesso si può dire degli ultimi frutti dell'operaismo. In Italia lo spirito dell'inchiesta operaia era scomparso con la morte prematura di Panzieri a metà degli anni sessanta, e la sua eredità si era modificata sotto i colpi di Mario Tronti e del giovane critico letterario Alberto Asor Rosa.Tronti era convinto che fosse la classe operaia, e non il capitale, il vero demiurgo delle trasformazioni economiche: la forza che imponeva ai datori di lavoro e allo stato i cambiamenti strutturali di ogni fase dell'accumulazione.Secondo la sua visione, il motore dello sviluppo non era nelle esigenze economiche impersonali del profitto che agiscono dall'alto, ma nella lotta di classe che preme dal basso. Asor Rosa, invece, sosteneva che la "letteratura impegnata" era un'illusione populista, perché la classe operaia non poteva ricavare nessun vantaggio dalle arti e dalle lettere di un mondo in cui la cultura era borghese per definizione.A completare l'opera di Asor Rosa e Tronti è stato Massimo Cacciari, più giovane e intellettualmente più ambizioso dei suoi colleghi. Cacciari non solo ha separato la cultura e l'economia dalla politica rivoluzionaria, ma ha proposto una sistematica dissociazione tra tutte le sfere della vita e del pensiero moderni, in quanto domini tecnici intraducibili l'uno nell'altro.La fisica, l'economia neoclassica, l'epistemologia canonica, la politica liberale, la divisione del lavoro, il funzionamento del mercato e l'organizzazione dello stato avevano una sola cosa in comune: erano tutti in crisi. E solo il "pensiero negativo" era in grado di cogliere la profondità di questa crisi. Prima di diventare sindaco di Venezia Cacciari è stato deputato del Pci; anche Tronti e Asor Rosa sono stati eletti in parlamento. Il prezzo dell'integrazione in un partito che non era riuscito a prendere il potere è stata la graduale scomparsa dell'operaismo. Vent'anni dopo il suo tramonto, con il Pci ormai cancellato, Asor Rosa ha tracciato un malinconico bilancio del percorso della sinistra italiana, a cui lui e Tronti erano rimasti a loro modo fedeli.Cacciari, invece, è oggi uno dei protagonisti della destra del Partito democratico, capace di fondere – come ben si addice a un ammiratore di Wittgenstein – misticismo e tecnicismo in una politica per certi versi molto simile a quella del New labour britannico. Nei suoi successori l'eredità intellettuale del pensiero negativo si è trasformata in un'arida cultura della specializzazione, ormai depoliticizzata. Alla fine degli anni sessanta Toni Negri aveva preso la direzione opposta, propugnando non un patto per la modernità tra capitale e lavoro sotto l'egida del Pci, ma un'escalation del conflitto tra i lavoratori non organizzati e lo stato verso la lotta armata e la guerra civile.Dopo l'annientamento di Autonomia operaia, il movimento di cui era stato il teorico, Negri finì in prigione con l'accusa infondata di essere stato il mandante dell'omicidio di Aldo Moro. Nel suo esilio francese ha scritto testi che hanno avuto più successo all'estero che in Italia, come Impero. Al centro delle sue riflessioni non c'è più il lavoratore sociale, ma il concetto di moltitudine. Il recupero del fascismo a destra e la fine dell'operaismo a sinistra hanno modificato lo spazio politico del centro, in cui la versione laica e quella clericale del "giusto mezzo" avevano sempre convissuto.La disgregazione della Democrazia cristiana non ha ridotto l'influenza della religione nella vita pubblica, ma l'ha ridistribuita su tutto l'arco politico. Gli elettori cattolici non solo si sono divisi tra centrodestra e centrosinistra, ma hanno anche dimostrato di essere il settore più volubile dell'elettorato, il vero ago della bilancia conteso dai due blocchi. Per andare a caccia del voto cattolico, gli ex leader del Pci hanno mostrato una sensibilità religiosa sconosciuta fino a poco tempo fa. Quello che la chiesa ha perso con la fine di un partito di massa obbediente ai suoi ordini, lo ha guadagnato conquistandosi un'influenza più pervasiva, anche se meno evidente, sull'intera società. Il risultato è stato il ritorno della superstizione religiosa.Durante il papato di Karol Wojtyla sono stati nominati più beati (798) e più santi (280) che nei cinque secoli precedenti messi insieme, il numero di miracoli necessari per la santificazione è stato dimezzato, e il grottesco culto di padre Pio è arrivato al punto che sulla stampa si discute con la massima serietà del suo trionfo sulle leggi della natura.È improbabile che una cultura laica così ossequiosa verso la fede sia più combattiva nei confronti del potere. Durante la seconda repubblica le opinioni espresse sui principali mezzi d'informazione italiani non si sono allontanate quasi mai dalla via maestra neoliberale.La maggior parte dei giornali somiglia ai nuovi tabloid popolari spagnoli, francesi, tedeschi, inglesi. Secondo tutti gli editorialisti l'unico rimedio per i mali del paese è una maggiore competitività nei servizi e nell'istruzione, un mercato più libero e uno stato più efficiente e snello. Opinioni del genere sono il frutto di un conformismo intellettuale universale, a cui non è sfuggita nemmeno l'Italia.

L'opposizione assente
L'atteggiamento della stampa nei confronti della legalità è un'altra questione. Dopo aver appoggiato l'offensiva della magistratura contro la corruzione nella prima repubblica, da quando Berlusconi è al potere i mezzi d'informazione si sono sempre mostrati poco coraggiosi, limitandosi a critiche perlopiù formali, senza scatenare quell'offensiva che avrebbe potuto metterlo davvero in difficoltà. Per raggiungere quest'obiettivo la stampa avrebbe dovuto rivolgere le sue critiche non solo al premier, ma anche ai giudici che regolarmente lo assolvevano, ai capi di stato che gli avevano garantito l'immunità, e ai partiti di sinistra che l'avevano trasformato in un interlocutore accettabile, se non addirittura stimato. Ma non l'ha fatto. In questo scenario spiccano poche eccezione. La principale è quella di Marco Travaglio. Le sue denunce del berlusconismo e del sistema di connivenze che lo ha protetto sono un caso unico nel panorama del docile giornalismo europeo di questi anni.Come era prevedibile, Travaglio – i cui libri vendono centinaia di migliaia di copie – è un liberale di destra che si esprime con una ferocia e una libertà del tutto sconosciute alla sinistra.A differenza che negli Stati Uniti, i mezzi di comunicazione in Europa tendono a riflettere, e non a creare, l'universo culturale, che dipende molto di più dalla situazione delle sue università. Come è noto in Italia le università sono antiquate e sottofinanziate, dominate da intrighi burocratici e dal clientelismo dei baroni. Il risultato è che i migliori cervelli del paese vanno a studiare all'estero.Questo fenomeno riguarda tutte le discipline, come dimostra la lunga lista di studiosi italiani che hanno vissuto o lavorato a lungo negli Stati Uniti: Luca Cavalli-Sforza per la genetica, Giovanni Sartori per le scienze politiche, Franco Modigliani per l'economia, Carlo Ginzburg per la storia, Giovanni Arrighi per la sociologia, Franco Moretti per la letteratura, oltre a molti ricercatori più giovani.Non è una diaspora nel vero senso della parola, dato che tutti hanno mantenuto contatti con l'Italia, ma è un'assenza che ha indebolito la cultura del paese. È presto per dire se una nuova leva di studiosi di questo livello potrà nascere in Italia. A prima vista sembra poco probabile.Tuttavia sarebbe comunque un errore sottovalutare le riserve a cui il paese può attingere. Il caso della Spagna, la cui modernizzazione è spesso considerata un modello dagli italiani che fanno autocritica, è eloquente.Anche se con un'economia più in salute, istituzioni politiche più efficienti, meno criminalità organizzata e uno sviluppo regionale più omogeneo, la Spagna ha ancora una vita culturale provinciale e poco autonoma. Il contributo italiano alla letteratura contemporanea è molto più importante, nonostante la confusione in cui si trova il paese. Negli ultimi anni nessun paese europeo ha prodotto un esempio di erudizione paragonabile ai cinque volumi sulla storia e la morfologia del romanzo mondiale curati da Franco Moretti per Einaudi: un'opera di una magnificenza tipicamente italiana. L'Italia, inoltre, ha ancora la grande capacità di mettere in discussione i paradigmi consolidati che arrivano dall'estero.È il caso, per esempio, di Miti, emblemi e spie. Morfologia e storia di Carlo Ginzburg, o del saggio in cui lo storico italiano ricostruisce Georges Dumézil, cosa che nessuno studioso francese aveva mai osato fare. Altri esempi potrebbero essere l'ultimo libro del grecista Luciano Canfora, dedicato alla democrazia e censurato da un editore tedesco, o il saggio del politologo Danilo Zolo, che demolisce il concetto di "giustizia internazionale". Una ricchezza simile non si esaurisce facilmente.

La spinta dei girotondi
Ma che fine ha fatto l'opposizione? Nell'Italia di oggi sopravvive ancora un nucleo di comunisti, né tradizionalisti né operaisti, rimasto più autenticamente gramsciano di quanto la sua leadership avesse il coraggio di essere o potesse sopportare.Riunito intorno a Lucio Magri, Rossana Rossanda e Luciana Castellina, questo gruppo è stato espulso dal Pci nel 1969 e subito dopo ha fondato Il manifesto, l'unico quotidiano veramente radicale d'Europa. Nel corso degli anni le analisi strategiche più coerenti e incisive dei problemi della sinistra e del paese nel suo complesso sono arrivate proprio da questa corrente.Oggi i protagonisti di quella stagione hanno cominciato a fare i conti con il passato. La ragazza del secolo scorso, il libro autobiografico di Rossana Rossanda, ha avuto un grande successo. Nel 2005, però, la Rivista del manifesto è stata costretta a chiudere, e con la crisi attuale anche il quotidiano rischia di scomparire. Lo stesso rischio non sembra correrlo Micromega, il bimestrale curato da Paolo Flores d'Arcais, parte del gruppo editoriale l'Espresso. Con la nascita della seconda repubblica la rivista è diventata il fulcro dell'opposizione più intransigente a Berlusconi, assumendo un ruolo unico per una pubblicazione non certo di massa.Un anno dopo la vittoria del centrodestra del 2001, è stata proprio Micromega a lanciare l'imponente ondata di proteste contro Berlusconi e la passività del centrosinistra: la cosiddetta stagione dei girotondi. I protagonisti di quelle mobilitazioni sono stati due: Nanni Moretti e lo storico britannico Paul Ginsborg. Con i suoi film il regista romano denunciava da almeno dieci anni, anche se in modo ironico e leggero, lo sfascio del Pci e le sue conseguenze sulla società.Ginsborg, invece, insegna all'università di Firenze ed è autore di due delle più importanti storie dell'Italia del dopoguerra. Nel volume che copre il periodo tra il 1980 e il 1996, L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato, Ginsborg sostiene che, accanto all'egoismo dei ceti rampanti, cresciuti durante gli anni del craxismo, in Italia esiste ancora una parte della borghesia dotata di senso civico e altruismo.Lo storico inglese chiama questo gruppo sociale "ceto medio riflessivo" e lo considera essenziale per il rinnovamento della democrazia italiana. Accolta con un certo scetticismo, questa intuizione ha trovato conferma nel 2002, quando sono stati proprio i professionisti, i professori e i dipendenti pubblici a scendere in piazza contro Berlusconi. La forza di quella mobilitazione era però anche il suo limite. I manifestanti organizzavano cortei davanti ai palazzi del potere. Camminavano intorno agli edifici tenendosi per mano: per questo sono stati subito ribattezzati dalla stampa "girotondini".In questo modo i dimostranti volevano sottolineare le loro intenzioni pacifiche, ma a qualcuno quelle mobilitazioni sono sembrate un gioco da ragazzi. I partiti di centrosinistra non gradivano le critiche, ma soprattutto temevano la concorrenza politica del nuovo movimento, e hanno fatto ben poco per nascondere la loro ostilità. I girotondini hanno mantenuto la calma. Hanno deciso di evitare azioni violente come quelle che si erano viste al G8 di Genova, e nella vana speranza di trovare alleati tra i leader sindacali hanno rinunciato a lanciare un'offensiva più dura contro il governo e i suoi complici dell'opposizione. Logorato dalla stessa immagine che si era costruito, il movimento ha finito presto per disperdersi. Quando l'estate scorsa, facendo infuriare Veltroni, Micromega ha lanciato l'invito per una nuova manifestazione a piazza Navona contro il ritorno al potere di Berlusconi, le contraddizioni dei girotondini sono esplose.Moretti e altri presenti sul palco si sono dissociati dagli interventi più radicali, che questa volta non risparmiavano critiche neanche a Napolitano, al Pd e a Rifondazione comunista. Proprio come l'incomprensibile linguaggio politico della prima repubblica aveva prodotto per reazione la calcolata volgarità della Lega nord, questa volta la bonaria retorica dei girotondini ha innescato il suo opposto: un'esibizione eccessiva e roboante di alcuni comici notoriamente critici verso l'intera classe politica, che ha imbarazzato molti manifestanti, ma che a giudicare dai sondaggi non è dispiaciuta alla maggioranza degli elettori di centrosinistra.Dal punto di vista politico, questo episodio potrebbe essere visto come l'ennesimo riflesso del conflitto vissuto dalla sinistra negli anni settanta, in cui la moderazione della leadership provocava esplosioni di rabbia dal basso.Nell'autunno del 2008 queste tensioni sono sfociate nelle proteste studentesche contro i tagli di bilancio per l'istruzione e la riduzione delle ore di insegnamento decisi dal governo di centrodestra, e nelle mobilitazioni dei sindacati, molto più modeste, contro la risposta di palazzo Chigi alla crisi globale.La concessioni ottenute sono state meno importanti rispetto all'ampiezza della mobilitazione stessa. Ma lo schema secondo cui a una ritirata strategica di Berlusconi corrispondono temporanei scoppi di rabbia popolare contro il suo governo non è nuovo. Con l'economia in crisi, però, oggi non è facile prevedere come andranno le cose. Dopo essersi lasciata alle spalle il minaccioso simbolo della falce e martello, la sinistra italiana ha adottato una serie di altri simboli presi in prestito dal regno vegetale e da quello celeste: la rosa, la quercia, l'ulivo, la margherita, l'arcobaleno. Ma senza più il vecchio bagliore del metallo, difficilmente riuscirà a fare molta strada.

PERRY ANDERSON è uno storico britannico. È stato tra i fondatori della New Left Review. Insegna storia e sociologia all'università della California di Los Angeles (Ucla).

Quest'articolo è un estratto del saggio pubblicato sulla London Review of Books e farà parte del nuovo libro di Anderson, The new-old world, in uscita a settembre per Verso Books.

da sapere
1921 Nasce il Partito comunista italiano
1924 Antonio Gramsci viene eletto segretario
1930 Palmiro Togliatti segretario
1964 Luigi Longo segretario
1972 Enrico Berlinguer segretario
1976 Alle elezioni il Pci ha il 34 per cento dei voti. È il suo massimo storico
1984 Morte di Berlinguer
1988 Elezione di Achille Occhetto alla segreteria
1989 Caduta del Muro di Berlino
1991 Scioglimento del Pci e nascita del Partito democratico di sinistra
1994 Massimo D'Alema diventa segretario del Pds
1996 Alle elezioni il Pds è il primo partito italiano. Primo governo Prodi
1998 Nascita dei Democratici di sinistra. Walter Veltroni segretario. Primo governo D'Alema
1999 Secondo governo D'Alema
2000 Governo Amato
2001 Piero Fassino è segretario dei Ds
2006 Secondo governo Prodi
2007 Nasce il Partito democratico. Veltroni segretario
2009 Dario Franceschini segretario