domenica 31 agosto 2008

Le sorti magnifiche della cordata tricolore

http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/economia/alitalia-25/scalfari-cordata/scalfari-cordata.html
Le sorti magnifiche della cordata tricolore
di EUGENIO SCALFARI
Ha detto Giulio Tremonti: "Il governo Prodi ci ha lasciato due disastri: l'immondizia di Napoli e l'Alitalia, oltre ad una situazione economica e finanziaria spaventosa. Il presidente Berlusconi ha risolto in 58 giorni il problema dei rifiuti e in 120 giorni ha salvato l'Alitalia. Noi abbiamo rimesso i conti a posto con la Finanziaria di luglio".

Giovedì è stato il giorno del trionfo e le celebrazioni sono continuate nei giorni successivi insieme a una pioggia di nuovi annunci sul federalismo, sulla sicurezza, sulla sanità, sulla scuola.

Ha parlato Berlusconi in tivù. Ha parlato Cicchitto. Hanno parlato Bossi, Calderoli, Maroni. Ha parlato Gelmini. Ha parlato Bombassei della Confindustria, anche lui magnificando la politica del fare rispetto a quella del dire e bruciando il suo chicco di incenso al culto berlusconiano. Qualcuno non ha mancato di indicare alla gogna i giornali "radical-chic" che si ostinano a non unirsi al coro e che comunque "non contano niente di fronte ai trionfali sondaggi di questo scorcio agostano".

Infine ha parlato anche Roberto Colaninno, presidente "in pectore" della nuova Alitalia, con un'intervista rilasciata al nostro direttore Ezio Mauro e pubblicata venerdì scorso. Un'intervista di grande interesse perché Colaninno spiega la filosofia imprenditoriale che ha indotto lui e altri quindici imprenditori italiani a impegnare oltre un miliardo di euro per salvare dal fallimento la compagnia di bandiera indipendentemente dalle opinioni politiche di ciascuno di loro.

Colaninno si è sempre proclamato di sinistra ed ha ribadito in quell'intervista la sua collocazione ma le sue opinioni politiche - ha detto - non hanno niente a che vedere con la sua visione imprenditoriale. L'Alitalia era un'occasione per mettere quella vocazione alla prova rischiando anche un po' di soldi (nel suo caso 200 milioni che non è poca cosa).

Questo ha fatto insieme ad altri suoi compagni di cordata. Chiede di esser giudicato sui risultati.

Alle domande criticamente incalzanti di Ezio Mauro ha risposto che non stava a lui di distribuire torti e responsabilità sul disastro Alitalia e neppure sui provvedimenti che il governo avrebbe preso per render possibile la nuova avventura della compagnia di bandiera. "Una cosa è certa" ha detto "l'Alitalia è fallita. Per farla rinascere bisognava liberarla dai pesi del fallimento. Ora si riparte da qui".

"Incipit nova historia".

La filosofia imprenditoriale è sempre stata questa, non è una scoperta di Colaninno e non ci stupisce. Neppure stupisce che quella filosofia si sia richiamata nel tempo con eguale vigore al libero mercato, al protezionismo, perfino all'autarchia, operando per salvaguardare il profitto d'impresa nelle condizioni storicamente date.

Il profitto (l'ho scritto più volte) è la sola variabile indipendente che l'impresa prende in considerazione ed è la sua unica modalità. In un sistema capitalistico le cose stanno così. La democrazia, cioè la sovranità popolare, può correggere questa filosofia capitalistica introducendovi dosi più o meno forti di socialità, di pari opportunità, di visione generale del bene comune.

Non è accettabile invece che la legittima vocazione imprenditoriale al profitto sia fatta passare per dedizione alla salvezza del Paese e alle sue "magnifiche sorti e progressive". Colaninno nella suddetta intervista ha battuto ripetutamente su questo tasto senza forse rendersi conto che, se si rivendica anche un ruolo di salvatori della patria ci si espone inevitabilmente all'esame delle "condizioni date" entro le quali l'operazione specifica avviene, chi ci guadagnerà e chi ne pagherà il conto.

Se ci si veste da salvatori bisogna rispondere alle critiche e non liberarsene con la frase "che altro può fare un imprenditore?".

L'imprenditore può fare tante cose tra le quali anche astenersi dal partecipare ad operazioni che hanno un contenuto eminentemente politico assai più che di vantaggio economico per la collettività.

L'imprenditore non è necessariamente un maniaco del fare. Se vuole anche la patente di salvatore, allora si rassegni ad ascoltare qualche opinione difforme dalla sua.

* * *

Francesco Giavazzi ha scritto sul Corriere della Sera di mercoledì un articolo sull'Alitalia nello stesso giorno in cui anch'io mi cimentavo con quell'argomento. La coincidenza e l'ispirazione sostanzialmente comune mi ha fatto piacere se non altro perché sarebbe difficile accusare Giavazzi, come pure Deaglio e Boeri, di bolscevismo e di radicalismo scicchettone.

Su un punto tuttavia le mie opinioni non coincidono con quelle di Giavazzi. Egli teme che la cordata di Colaninno si sia imbarcata in un'iniziativa troppo rischiosa. Io penso invece, come Deaglio e Boeri, che quei sedici "capitani coraggiosi" abbiano giocato sul velluto avendo ricevuto la staffetta nelle migliori delle condizioni possibili da un governo che sarà comunque (e forse per alcuni di loro è già stato) concretamente riconoscente.

Basta scorrere il decreto legge uscito dal Consiglio dei ministri di giovedì: divisione della vecchia Alitalia in due società, una "cattiva" con tutte le passività in testa allo Stato, l'altra libera come un uccello in volo e affidata ai privati; sospesi i poteri dell'Antitrust per sei mesi al fine di render possibile la concentrazione Alitalia-AirOne e instaurare il monopolio della tratta Linate-Fiumicino; salvaguardare la nuova Alitalia da ogni rivalsa dei creditori e dei dipendenti; consentirle di acquistare da una società fallita tutta la polpa (aerei, slot, diritti di volo, personale dipendente necessario); aprire un negoziato con i sindacati per portarli, già domati, a stipulare contratti nuovi col nuovo vettore.

Un caso tipico di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, che sarà probabilmente esteso anche ad Air France o a Lufthansa se entreranno per una quota nell'Alitalia nascente.

Chi voglia confrontare l'accordo offerto dai francesi nel marzo scorso vedrà che le differenze sono macroscopiche. Allora non si parlava né di fallimento né di legge Marzano né di divisione in due società, ma dell'acquisto di Alitalia in blocco con i suoi debiti, i suoi dipendenti, la sua flotta. I francesi avrebbero anche pagato allo Stato un prezzo per le azioni e lanciato un'Opa per gli azionisti di minoranza. Avrebbero stanziato 2,600 miliardi per il primo rilancio e incluso Alitalia nel "network" Air France-Klm.

Berlusconi (ma anche Colaninno) hanno definito quell'operazione una svendita. Ma l'operazione attuale come si può definire? Tutti gli oneri allo Stato, tutta la polpa ai privati, Air France compresa se entrerà come azionista. Io direi che un'operazione così si definisce politica di immagine e imbroglio economico.

Sergio Romano, sul Corriere della Sera di ieri ha scritto che l'opposizione dovrebbe collaborare. Non riesco a capire per molti ed egregi opinionisti il ruolo dell'opposizione. Deve collaborare sulla sicurezza, sul federalismo, sulla giustizia, sulla legge elettorale, sulle riforme costituzionali, sulla scuola, sulla sanità. Ed anche su questo pasticcio dell'Alitalia.

Quello che non capisco è dove si può fare opposizione. Sulle fontanelle di quartiere, sindaci di destra permettendolo? Sarebbe interessante saperlo. In realtà si vorrebbe un'opposizione al guinzaglio, un'opposizione addomesticata. Non mi pare sia questo il suo ruolo in una democrazia liberal-democratica. Gli Usa insegnano.

* * *

Forse la parola imbroglio può sembrare eccessiva. Vediamo dunque da vicino alcuni lineamenti dell'operazione.

1. Gli esuberi previsti vanno da un minimo di cinquemila ad un massimo di settemila. Il ministro del "welfare", Sacconi (e prima di lui Berlusconi e Tremonti) assicura che nessun dipendente sarà lasciato per strada. Esistono infatti da quarant'anni alcuni ammortizzatori sociali, la cassa integrazione a zero ore e la mobilità permanente, per un totale di sette anni. Sacconi non inventa nulla che già non vi sia. Ma la cassa integrazione ha un suo plafond e non può estendersi all'infinito. Se si va oltre il limite bisognerà rifinanziarla o inventare nuovi ammortizzatori e nuovi finanziamenti. La questione va considerata con attenzione in tempi di crescita zero del Pil e di incombente disoccupazione.

2. Il governo prevede incentivi e detassazioni per le imprese private che assumano i licenziandi Alitalia. È evidente (Fassino l'ha ricordato ieri) che non si può limitare un provvedimento così anomalo al solo caso dell'Alitalia. Non si possono fare leggi speciali che valgano per un solo soggetto e non per altri. Perciò, se un provvedimento del genere sarà preso, bisognerà estenderlo a tutti gli esuberi che si verificheranno in futuro. Quanto costa una copertura di queste dimensioni?

3. Il governo prevede anche che i piccoli azionisti Alitalia siano indennizzati. Come e in che misura? Attingendo al fondo di garanzia creato per indennizzare i risparmiatori truffati dall'emissione di "bond" fasulli, tipo Parmalat, Cirio, "bond" argentini. Credo che quel fondo sia insufficiente a indennizzare gli azionisti Alitalia. Comunque la fattispecie è completamente diversa. Ma anche qui: se si adotta una strategia di questo genere bisognerà poi estenderla a tutti i piccoli azionisti travolti da crisi societarie. Lo Stato è in grado di assumersi una responsabilità di queste dimensioni? Intervenendo in questo modo mai visto prima sulla Borsa italiana? A me sembra una favola. Anzi l'ennesimo imbroglio.

4. È stato stabilito che gli azionisti della cordata Colaninno non potranno vendere le loro azioni nei prossimi cinque anni, passati i quali saranno liberi di fare quello che più gli sembrerà opportuno. Vedi caso: la scadenza è nel 2013 e coincide con la fine della legislatura. È molto probabile che il grosso dei soci della cordata, che niente hanno a che vedere col trasporto aereo, escano dalla società. Tanto più che avranno come consocio un vettore aereo internazionale, Air France o Lufthansa che sia. In questa vicenda il socio internazionale è destinato ad avere la stessa posizione della spagnola Telefonica in Telecom. È il solo che ne capisce ed è il solo che alla lunga resterà al timone. Ho già scritto che tutta questa vicenda mi ricorda il gioco dell'oca, quando si torna indietro alla casella di partenza. Alla fine avremo una compagnia guidata da un vettore internazionale perché non c'è più spazio in Europa e nel mondo per vettori locali nel mercato globale. La sola differenza sarà che il vettore internazionale avrà speso molto meno di quanto sarebbe avvenuto cinque anni prima.

Questa sì, sarà una svendita preceduta da un imbroglio. Le perdite allo Stato (cioè a tutti noi) i profitti ai privati, nazionali e stranieri. Un imbroglio che camuffa una svendita. La Frankfurter Allgemeine ha scritto ieri: "Un'operazione insolente contro il mercato e contro l'Europa". Ambasciatore Romano, l'opposizione deve collaborare?
(31 agosto 2008)

venerdì 29 agosto 2008

Decrescita e Democrazia

http://www.decrescita.it/modules/article/view.article.php/c7/20

Autore:Vincent Cheynet
Fonte:http://www.znet.it
Sommario:Nel corso degli ultimi sei mesi, la rivista 'Alternatives économiques' ha consacrato due articoli alla decrescita. Preoccupandosi attentamente di evitare le questioni sollevate, gli autori descrivono la decrescita sostenibile come necessariamente antidemocratica. Eppure i difensori del concetto di decrescita hanno costruito la loro argomentazione proprio intorno alla priorità da accordare alla difesa della democrazia e dell'umanesimo.
Si tratta della stessa ragion d'essere di questa idea:
Se non rientriamo oggi per nostra scelta in una decrescita economica, la cui condizione è una crescita dei valori umani, corriamo tutti i rischi di vederci imposta una decrescita domani, accompagnata da un terribile regresso sociale, umano e delle nostre libertà.
Mittente: webmaster Data: 1/5/2007 16:20 Viste: 546
Tags: decrescita democrazia


Nel corso degli ultimi sei mesi, la rivista 'Alternatives économiques' ha consacrato due articoli alla decrescita 1. Preoccupandosi attentamente di evitare le questioni sollevate, gli autori descrivono la decrescita sostenibile come necessariamente antidemocratica. Eppure i difensori del concetto di decrescita hanno costruito la loro argomentazione proprio intorno alla priorità da accordare alla difesa della democrazia e dell'umanesimo.
Si tratta della stessa ragion d'essere di questa idea:
Se non rientriamo oggi per nostra scelta in una decrescita economica, la cui condizione è una crescita dei valori umani, corriamo tutti i rischi di vederci imposta una decrescita domani, accompagnata da un terribile regresso sociale, umano e delle nostre libertà.

Più aspetteremo ad impegnarci nella decrescita sostenibile, più duro sarà l'impatto contro la fine delle risorse, e più elevato sarà il rischio di ingenerare un regime eco-totalitario 2.

Eppure, in cosa la decrescita economica sarebbe necessariamente antidemocratica' I regimi totalitari non cercano mai di ridurre il loro strumento militar-industriale. Esattamente al contrario, la politica economica di tutti i regimi tirannici del XX secolo (stalinismo, fascismo, nazismo, ultranazionalismo giapponese, ecc.) ha sempre avuto come fondamento la ricerca di una crescita massima. Dittature e ricerca di potenza sono irrimediabilmente legati, indissociabili. Al contrario, la decrescita s'inscrive nella filosofia non-violenta, che è, quest'ultima, antiautoritaria per natura. Essa si situa chiaramente in una volontà di non-potenza, che non è l'impotenza. La personalità politica più vicina alle idee della decrescita (autosufficienza, semplicità volontaria) è senza dubbio Gandhi, democratico morto assassinato a forza di combattere sistemi oppressori. Il movimento filosofico che porta attualmente l'idea di decrescita economica in Francia (Silence, L'écologiste, Casseurs de pub, La ligne d'Horizon ') è, appunto, il più vicino alle idee gandhiane.

Inoltre, in un'organizzazione democratica, i propugnatori dell'abbondanza (crescita) dovrebbero dividere il loro tempo di parola con i difensori della sobrietà (decrescita). E' questa la condizione di un equilibrio reale. Ora, la teoria della crescita occupa la totalità del tempo. Appena i partigiani della decrescita mettono il naso, i cani da guardia abbaiano.
C'è da temere che questo tipo di rimproveri si sviluppi man mano che il concetto di decrescita si diffonderà nella società. Perché?

Un'idea che disturba

La scienza economica ha evacuato il parametro ecologico dal suo funzionamento. Così, essa funziona nel virtuale, sconnessa dalla realtà della biosfera. Reintegrare questo parametro fondamentale può sembrare spaventoso: esso impone di rimettere in questione 200 anni di scienze economiche, dal neoliberismo al neomarxismo. Tutta la comunità delle scienze economiche è dunque terrorizzata al solo evocare il nome di Nicholas Georgescu-R½gen, il padre della bioeconomia e teorico della decrescita, che si è appoggiato sulla scienza, lui, per fare rimettere i piedi per Terra all'economia. Galileo aveva affermato che la Terra era rotonda: è stato condannato a morte dalla Chiesa. Nicholas Georgescu-R½gen ha dimostrato che la Terra era finita, è stato condannato alla morte mediatica da tutti i paladini del dogma economico, qualunque sia la loro tendenza. La realtà paralizza questi economisti neoclassici che non riescono ad uscire dalla menzogna nella quale si sono rinchiusi da soli, e questo senza provocare drammi. Ma non è fuggendo dalla dura realtà che ci salveremo dai poteri tirannici. Esattamente al contrario, più aspetteremo ad affrontare la realtà, più i rischi di vederli arrivare saranno elevati.

Insultare piuttosto che riflettere

Quando un'idea ci disturba e ci obbliga a rimetterci in discussione, un riflesso umano primario suscitato dalla facilità e dall'orgoglio consiste nell'insultare il proprio contraddittore. Questo porta al 'Sei proprio un cretino!' detto nelle ore di ricreazione. E si traduce per esempio nella psicologizzazione dell'altro presso gli adulti occidentali formattati dal determinismo freudiano: 'Deve soffrire di un problema sessuale!'. La decrescita è un concetto che rompe una norma sociale integrata dall'estrema destra all'estrema sinistra. I suoi difensori saranno immancabilmente attaccati in questo registro. Che cosa c'è di più umano che insultare un interlocutore imbarazzante piuttosto che rimettersi in discussione. 'E' dichiarato pazzo colui il cui pensiero è minoritario.' I cari vecchi riflessi hanno la pelle dura e perdurano anche sotto altre forme in un altro contesto.

Un'aspirazione inconscia

Lo sviluppo durevole è inteso come un approccio innanzitutto tecnico dell'ecologia. In questo risponde perfettamente alla nostra attuale ideologia dominante, ideologia che ha sacralizzato la scienza. +Siccome l'uomo non può vivere senza il sacro, riporta il suo senso del sacro proprio su quello che ne ha distrutto tutto ciò che ne era oggetto: sulla Tecnica 3. Lo 'sviluppo durevole', l''ecologia industriale', la 'crescita verde', la 'produzione pulita' sono tutti termini contraddittori che rivelano l'atteggiamento dell'Occidente di fronte alla problematica ecologista. Credendo nell'onnipotenza delle tecniche, scientifiche o economiche, l'Uomo occidentale cerca come rimedio quello che fa la sua malattia. 'Solamente un massimo di tecnologia permette di ridurre l'inquinamento al massimo' era lo slogan di una pubblicità per l'autovettura Smart 4. Sulla scienza, fondata sul dubbio, si è innestata l'ideologia scientista, vero nuovo oscurantismo. Per un'opinione largamente condizionata, rimettere in discussione la capacità della Tecnica di risolvere i problemi ambientali e sociali è allora considerato inconsciamente come una vera bestemmia. Conviene quindi operare per la salvezza dell'eretico posseduto dal demonio.

Al contrario, la volontà esplicita del concetto di decrescita sostenibile è di affermare la necessità di una risposta che passi prima di tutto per il filosofico, il politico, la cultura, e di riconsiderare la scienza come un mezzo. In questo, essa contrasta totalmente con il nostro bagno ideologico. Il desiderio di discreditare in tutti i modi i difensori della decrescita sostenibile risponde anche ad una aspirazione che è inscritta molto profondamente, e il più delle volte inconsciamente, in seno all'individuo e alla nostra civiltà.

Gli economisti non sono più semi-dei

Il concetto di decrescita conduce inevitabilmente ad 'estrarsi dall'economismo'. Vale a dire a rimettere l'economia al suo giusto posto nella scala dei valori. Non tocca certo all'economia il compito di dettare la sua logica all'Uomo. Essa è un mezzo e non un fine. Il suo primato sulla nostra civiltà è assurdo. Siccome la nostra società ha deificato la scienza, la 'scienza economica' è diventata una religione, con il suo tempio: la borsa; e gli economisti hanno integrato il rango di gran sacerdoti. Se già per l'opinione sembra molto arduo togliersi da un terribile condizionamento, che dire di quelli per cui la decrescita significa decadere dal loro statuto di semi-dei viventi? Saranno certamente pronti a tutto per conservare i loro privilegi, e in primo luogo a trattare da fascisti quelli che chiederanno loro di restituire un potere usurpato alla democrazia. In effetti, l'economia non è altro che la contabilità trasportata nel campo politico. Non c'entra niente. Non è una scienza, come la biologia o la matematica. E se François Partant affermava: 'Oggi, un economista è un imbecille o un criminale', siamo obbligati a constatare che il più delle volte esso è un impostore.

Una soluzione tecnica ad un problema filosofico

Torniamo agli articoli di Alternatives économiques. In entrambi i casi, nonostante le inchieste di Silence abbiano evidenziato l'impossibilità di una 'crescita verde', il vicolo cieco della 'dematerializzazione dell'economia' e i limiti del riciclaggio, gli autori concludono che l'unica soluzione resta in questo tipo di concezione.

Eppure, nella pratica 5, la crescita (anche quella verde o pulita) porta inevitabilmente ad un aumento di prelievi sul capitale naturale. Un esempio semplice di questo fenomeno è stato dato dall'arrivo dell'informatica. Questa ha suscitato, presso gli economisti neo-classici, una grande speranza per la salvaguardia dell'ambiente. La trasmissione di informazioni per mezzo di impulsi informatici doveva portare una riduzione nel consumo di carta, e così dare sollievo alla risorsa (foreste) e alla natura intera (inquinamento di diversi tipi per la fabbricazione). Si è prodotto, invece, il contrario: il consumo di carta è decuplicato. Siccome la carta è abbondante, la gente esige ora un lavoro perfetto e stampa ancora fino ad avere completa soddisfazione. La facilità di demoltiplicazione dei documenti produce un'inflazione della loro riproduzione. Questo senza contare l'inquinamento caratteristico della fabbricazione, del funzionamento e della distruzione dell'informatica. E' l''effetto rimbalzo' 6. E' finito il tempo in cui si era consapevoli di quanto fosse prezioso il proprio foglio bianco, da preservare accuratamente cancellando e riutilizzandolo il più possibile prima di cestinarlo. Cosa è successo'

E' stata apportata una soluzione tecnica ad una problematica filosofica. Ogni volta che apportiamo una risposta inadatta ad un problema, lo amplifichiamo. I vasi rotti vengono pagati, prima o poi, ma lo saranno in ogni caso, ed in maniera tanto più grande e decuplicata, quanto più lo si sarà voluto occultare. E ancora, più forte sarà la crisi che ne deriverà, più presente sarà il rischio di veder arrivare dei poteri autoritari.

Il radicalismo non è estremismo

Un altro rimprovero ricorrente è quello di considerare qualsiasi idea radicale come immancabilmente estremista, quindi potenzialmente tirannica. Ma cos'è il radicalismo nel senso in cui ne parliamo' Si tratta di andare alla radice dei problemi, di rifiutare un approccio puramente superficiale. E' il senso semantico della parola 'radicale' (radice). Radicalismo non è inesorabilmente estremismo. Si tratta di ritornare all'umano, alla filosofia, al senso, a considerare l'uomo in tutte le sue dimensioni, riflessione senza la quale siamo condannati ad una visione riduttiva e regressiva dell'Uomo, a vederlo solo come un consumatore, un tubo digerente, un ingranaggio della macchina economica.

Nell'eccellente libro di Jean-Luc Porquet 'Jacques Ellul, l'uomo che aveva previsto quasi tutto' 3, Dominique Bourg, difensore dello Sviluppo durevole e dell'ecologia industriale, dichiara che 'il radicalismo è una forma di malattia del pensiero' e dice di 'ritenere che la sua azione non serva a fini puramente narcisistici'. Qualificando come malattia mentale un contraddittore del suo pensiero, Dominique Bourg svela una faccetta totalitaria del suo funzionamento psicologico. In effetti l'incapacità ad ammettere la contraddizione e il desiderio di psichiatrizzare il dissidente è rivelatore di un funzionamento totalitario, individuale o collettivo. L'avversario è per forza di cose 'estremista', quindi demente, e sarà immancabilmente fascista o traditore. Intellettuali come Alain Finkielkraut o Luc Ferry usano lo stesso procedimento. Ogni pensiero 'radicale' è qualificato come 'estremista', ogni proposito non superficiale, vitale, è subito tacciato di 'oltranzista', e colui che lo formula soffre necessariamente di una patologia. Così, Jacques Ellul parlava di 'uomo totalitario dalle convinzioni democratiche'. L'unico approccio accettato è quello superficiale. E' la condizione necessaria per 'tenere' il sistema ed evitare di rimettersi realmente in discussione, soprattutto per quanto riguarda il loro statuto di intellettuali mediatici. Non oso immaginare i qualificativi che Gesù o il Cirano di Bergerac di Rostand, se tornassero oggi, si beccherebbero, probabilmente: 'pericolosi estremisti terroristi'.

Una contestazione fittizia

Così, la contestazione ammessa diventa, in maniera più paradossale, inutile, rinforzando un sistema che fonda la nostra autodistruzione (il consumatore critico può essere un consumatore, ma non deve rivendicare il suo status di umano, il capitalismo deve diventare 'commercio equo' e la razzia delle risorse e la schiavitù economica sono promesse allo 'sviluppo durevole').

Il diktat del 'pensiero del mercato'

Sarebbe sbagliato pensare che il diktat possa venire solo dalla sfera politica. Il totalitarismo assume sempre nuove forme per asservirci meglio. Quello che ci minaccia oggi è stato descritto molto bene da Aldous Huxley: +Le vecchie forme pittoresche 'elezioni, Parlamenti, alte corti di giustizia- rimarranno, ma la sostanza nascosta sarà una nuova forma di totalitarismo non-violento 7. Il nuovo diktat è quello della finanza, pensiero molle che si esprime nel nome della libertà e nega all'Uomo la possibilità di andare alla sua essenza, alla sua coscienza, a ciò che fa di lui un umano. Con il pretesto di una falsa moderazione, la violenza di questa logica è estrema: solo l'abbrutimento nel consumo, nella televisione o nei neurolettici permettono di sopravvivere. La saggezza è confusa con la sottomissione, la ricerca di equilibri con il nichilismo. Degli pseudo-difensori della democrazia diventano, il più delle volte a loro insaputa, i più servili guardiani della tirannia 8.

La decrescita vuol dire obbligo a maggior democrazia

Nondimeno, il rischio di una decrescita imposta resta reale. Lester Brown, l'ex presidente del Worldwatch Institute, l'ha descritto come un'economia di guerra 9. Ma questo è specifico di questo concetto' E' proprio di tutte le idee che si irrigidiscono, senza più ammettere contraddizioni, il fatto di produrre delle ideologie che a loro volta genereranno dei sistemi autoritari. I deliri e le illusioni nell'onnipotenza della tecnoscienza ci conducono ancora più sicuramente al Migliore dei Mondi. Dominique Bourg accetta già l'idea di modificare il genoma umano per rendere l'Uomo resistente a un degrado importante dello strato di ozono 8. Diciamo che il concetto di decrescita sostenibile, fondata sulla semplicità volontaria e l'umiltà, in lui porta meno i geni della dittatura, che covano più volentieri nei sistemi ideologici fondati sulla ricerca di potenza. Inoltre, quest'idea impone di restituire la realtà del potere, rimanda gli individui alle loro responsabilità, aiuta a 'reintrodurre il sociale, il politico, nel rapporto di scambio economico, ritrovare l'obiettivo del bene comune e della buona vita nel commercio sociale' 10. La decrescita obbliga anche a distinguere la risposta istituzionale dalla risposta militante, ovvero di concepire che non possiamo avere una soluzione totale, essendo quindi, anche in questo, antitotalitaria.

I terreni essenziali sono i più scivolosi, perciò bisogna essere tanto più vigilanti quando ci confrontiamo con essi. Ma il pericolo più grande resta il rifiuto di abbordarli, spaventati di fronte a questi rischi. E non è vivendo nella menzogna che ci proteggeremo. Un approccio che si rinchiuda nella superficialità produrrà inesorabilmente il caos, che a sua volta sarà portatore del rischio totalitario.

Note:

1 Alternatives économiques: Le développement est-il soutenable', settembre 2002, Jacques Généreux.
2 La décroissance soutenable, Silence n. 280, Bruno Clémentin e Vincent Cheynet.
3 Jacques Ellul, l'homme qui avait presque tout prévu, Jean-Luc Porquet, Editions le cherche midi.
4 La pubblicità è il vettore dell'ideologia dominante. Quest'ultima riproduce, nel cuore stesso della società, la sua logica antidemocratica. La pubblicità 'psichiatrizza' i suoi dissidenti qualificandoli implicitamente il più delle volte di 'malati mentali'. Ma qualche volta lo fa esplicitamente, come un'associazione di agenzia di consigli in comunicazione che qualche anno fa descriveva, attraverso una campagna pubblicitaria, la pubblifobia come una 'malattia' (mentale). Il termine pubblifobia è stato creato dai pubblicitari: una fobia è una patologia.
5 Anche nella pura teoria, una crescita completamente dematerializzata si rivela del tutto impossibile. In effetti essa porta ad un'accelerazione infinita degli scambi finché l'umano si stacca. Un fenomeno che esiste già nelle nostre società, in cui l'accelerazione temporale prodotta dal sistema Tecnico scaraventa fuori i più deboli di noi, incapaci di seguire un ritmo sempre meno umano e naturale.
6 Point d'efficacitè sans sobriété, François Schneider, Silence n. 280.
7 Aldous Huxley, Retour au meilleur des mondes, Librairie Plon, 1959, p. 169.
8 Les scénarios de l'écologie, p. 72, Dominique Bourg, Editions Hachette, 1996. Questo libro è sintomatico di questo 'liberal-totalitarismo': con il pretesto di una denuncia delle derive potenziali, e reali, dell'ecologia, esso impone il diktat delle Tecnica difendendo per esempio gli O.G.M., p. 108.
9 La guerre entre l'homme et la Terre est d'ores et déjà engagée, Lester R. Brown, Le Monde, 27 febbraio 1996.
10 Serge Latouche, Pour en finir, une fois pour toute, avec le développement, Le Monde Diplomatique, maggio 2001.

(Traduzione di Angelo Vitello) – articolo tratto da Znet.it

mercoledì 27 agosto 2008

soggettività non assoggettate

http://www.liberazione.it/ pag. 10
27/08/2008
Anna Simone

Quando, a partire dagli anni Sessanta, si diffuse in tutta Europa e poi anche in Giappone come negli Stati Uniti il ciclone Michel Foucault, nessuno avrebbe potuto prevedere la lungimiranza delle sue analisi sul funzionamento del potere, sulla sessualità, sulla follia e sul sistema penale. Disdegnato dal Partito comunista francese e dal Partito socialista dell'epoca per aver detto più volte che il disegno del potere e la negazione delle libertà era pressocchè identico, sia all'interno delle società capitalistiche che all'interno delle società socialiste (all'epoca il suo unico riferimento era ovviamente l'Urss) - pur prestando sempre attenzione ai rapporti di produzione e alla loro innegabile funzione nella definizione del potere e nei processi di sfruttamento -, questa "strana" ed inquieta figura non cessa mai di essere attuale.
Come fare, infatti, per leggere i dispositivi di sicurezza del presente, la persecuzione degli omosessuali e delle lesbiche, l'infamia della sostituzione del lessico dei diritti con quello della pena e dei processi di criminalizzazione di tutte le figure sociali che dissentono dalla norma, il ritorno del sette in condotta, la crisi delle Università e dei saperi liberi senza i suoi testi più importanti (da La Storia della follia a Sorvegliare e Punire , da Le parole e le cose all' Archeologia del sapere sino alla Volontà di sapere etc.)? Foucault amava dire che il ruolo dell'intellettuale non è quello di dare indicazioni di voto, ma di svelare il funzionamento del potere, le forme di limitazione delle libertà individuali e collettive per apportare un suo contributo specifico alla politica, un contributo teorico-pratico. L'intellettuale, diceva Foucault, se davvero vuole porsi l'obiettivo di orientare alcune scelte politiche deve farlo sempre e solo a partire dalla volontà dei soggetti e non a partire dalle strategie messe in atto dai partiti per creare egemonia sui soggetti. Deve analizzare e pensare la società, deve porsi e porre delle domande, deve partire dai soggetti o dalle «soggettività non assoggettate» - come amava definirle lui -, deve indagare a partire dai margini e, contemporaneamente, a partire dalle istituzioni per svelarne le nefandezze. Inoltre questo lavoro avrebbe dovuto anche inventare delle pratiche quotidiane in grado di produrre movimenti, lotte, conflitti contro ogni forma di dominio.
E infatti Foucault non è stato affatto "solo" un grande accademico, anzi. Le sue ricerche storiche, genealogiche erano sempre intervallate da innumerevoli micro interventi sparsi su riviste e giornali (prevalentemente Le Nouvel Observateur e Il Corriere della sera ), da innumerevoli interviste, da due esperienze politiche militanti interessantissime, una più nota con il Gip (Gruppo di informazione sulle prigioni) e una meno nota con il Gis (Gruppo di informazione sulla sanità). Quest'ultimo gruppo nacque in Francia nel 1972 ad opera di alcuni medici impegnati nella lotta per la depenalizzazione dell'aborto accanto al Movimento di liberazione delle donne. L'11 ottobre dello stesso anno, infatti, Marie Claire, una ragazza di 17 anni compariva dinanzi al tribunale dei minori di Bobigny per aver abortito, un delitto allora punito dall'articolo 317 del Codice penale francese. Il processo, che si doveva svolgere a porte chiuse a causa della minore età dell'imputata divenne, invece, un momento pubblico accompagnato da un manifesto del Movimento delle donne attraverso cui in 400 dichiaravano di aver abortito e da un manuale pratico pubblicato dal Gis sulla demedicalizzazione dell'aborto e sulla necessità di diffondere il metodo dell'aspirazione (meglio noto come "metodo Karman"). Parallelamente, invece, Simone de Beauvoir e l'associazione Choisir redigevano un progetto di Legge che legalizzava l'aborto riconoscendo solo ed esclusivamente alla donna il diritto di scegliere. Foucault fu convocato dinanzi alla polizia giudiziaria e per denunciare l'evento scrisse un intervento ("Convocati alla polizia giudiziaria") assieme ad altri due membri del Gis su Le Nouvel Observateur . Questo testo, insieme a moltissimi altri interventi sulla sessualità, sui movimenti omosessuali, sulla follia, sul diritto penale, sul potere e il ruolo degli intellettuali, sull'Urss e sulle prigioni, costituiscono la micro rete di un lavoro "disperso e mutevole" che prende corpo nei famosi Dits et écrits pubblicati per intero in Francia e in modo frammentato in Italia, un po' da Feltrinelli negli Archivi Foucault e ora anche da Marietti in un bel volume curato da Mauro Bertani e Valeria Zini (Michel Foucault, Discipline, Poteri, Verità. Detti e scritti 1970-1984 , pp. 263, euro 25).
In quest'ultimo volume appena edito, infatti, che contiene anche il breve scritto "Convocati alla polizia giudiziaria" è possibile rintracciare almeno tre tra le molteplici linee tracciate da Foucault lungo l'arco di una vita appassionata ed intensa di cui vale la pena discutere sulle pagine di Liberazione : la sessualità, il diritto penale, il potere. Per quest'ultimo Foucault non ha mai inteso la classica teoria del potere che fa riferimento solo alla forma Stato bensì l'insieme delle relazioni che permettono agli uomini di governarsi all'interno della famiglia, della scuola etc. A suo modo per Foucault anche le relazioni d'amore sono delle relazioni di potere: «I genitori governano i figli, l'amata governa il suo amante, il professore governa gli alunni etc.». Tali micro società consentono al potere di attraversare qualsiasi relazione e qualsiasi individuo, il potere stesso è una relazione. La teoria classica del potere, invece, pensa di poter trasferire sulla famiglia, sulla sessualità, sulle condotte scolastiche etc. il proprio potere anche se la storia, dalla Grecia antica in poi, ci dice tutt'altro. Ci dice, infatti, che la nascita dello Stato ha utilizzato queste forme di potere già esistenti tra gli individui per poi istituzionalizzarle. Di conseguenza lo Stato non può che avere una matrice primigenia patriarcale, non può che stabilire ciò che è bene e ciò che è male, non può che intervenire sistematicamente, per il tramite delle sue istituzioni, sulle condotte degli individui. Accade nelle democrazie contemporanee così come è avvenuto durante il fascismo. Dice Foucault ne "L'intellettuale e i poteri" -intervista fattagli dalla Revue nouvelle nel 1984 - «I padri di famiglia tedeschi non erano fascisti nel 1930, ma, perché il fascismo potesse attecchire, bisognava anche prestare attenzione, tra molte altre condizioni -non dico che fossero le sole - alle relazioni tra gli individui, al modo in cui le famiglie erano costituite, alla forma in cui veniva impartito l'insegnamento, a un certo numero di presupposti di questo genere». Uno schema che potrebbe tranquillamente essere applicato oggi per riuscire a dirci, in tutta franchezza, che la forza di Berlusconi non consiste nella sua forma Stato ma nell'antropologia berlusconiana e cioè in un sistema di vacuo pensiero che attraverso le tv ha permeato la società mutandone desideri e bisogni nel profondo.
L'altro nodo centrale contenuto in questo volume appena edito da Marietti attraversa la critica del diritto penale e del sistema delle prigioni. Un sistema contenitivo che oggi più di ieri permea l'intera società a causa dei dispositivi di sicurezza e a causa di nuovi universi concentrazionari come i Cpt. La nascita dell'uso della pena, della prigione e di tutti gli universi concentrazionari lungi dall'essere la risposta più avanzata della razionalità politica costituiscono, per Foucault, l'evoluzione dell'idea di vendetta, una sorta di faida "buona", senza omicidio. Perché ciò che sottende tutte le geografie dei codici penali non è tanto il diritto quanto un'idea tattica e strategica di un uso funzionale della pena? Un uso in grado di riuscire a riprodurre un'idea di società che mette al bando ciò che essa stessa produce, come, per esempio, la propensione a delinquere? Il filosofo francese, infatti, a più riprese dichiara in molti scritti contenuti nel volume di avere cominciato a studiare il diritto penale, sia durante la sua esperienza nel Gip, sia durante la stesura di Sorvegliare e Punire , salvo essersi immediatamente accorto della necessità di interpretarlo solo ed esclusivamente come una tattica, come una strategia messa a punto per esercitare delle relazioni di potere per il tramite delle prigioni. E allora perché, si chiedeva, non riflettere su altre esperienze di erogazione delle pene, come, per esempio, il sistema delle ammende adottato in Svezia? Perché continuare a pensare la razionalità politica solo attraverso il tramite delle strutture disciplinari e contenitive? Oggi la disciplina ha lasciato ampio spazio ad un'ideologia del controllo più diffusa e capillare, alla sicurezza, come abbiamo più volte scritto anche su queste colonne che, però, si pone in linea di continuità con la nascita delle prigioni. Tanto è vero che l'esito più grossolano di queste politiche diviene visibile attraverso i dati raccapriccianti concernenti il sovraffollamento delle carceri.
E infine la sessualità, o meglio il rapporto che intercorre tra sesso, sessualità ed identità. In alcune interviste rilasciate ad alcune riviste gay Foucault sottolinea come il grande tema non sia quello del rivendicare un'identità omosessuale da opporre alle altre bensì l'indispensabilità di costruire, di creare, di inventare un «divenire gay» intendendo con ciò la realizzazione di una forma di vita e di un sistema di pensiero in grado di produrre e di salvaguardare un'idea di libertà all'interno della società. Una libertà non discriminata e perseguitata. In poche parole chiedeva ai movimenti degli omosessuali, delle lesbiche e anche delle donne di non fermarsi al dire "chi sono", ma di provare a cambiare la società con tutti i suoi apparati di norme istituzionalizzate e non, di farsi cultura non-identitaria. Una cultura scevra da qualsivoglia forma di cristallizzazione identitaria perché è il mondo stesso a mutare continuamente sotto i nostri occhi. E' ovvio allora che la grande eredità foucaultiana vada rintracciata soprattutto nell'aver spostato l'asse dell'analisi classica dei marxisti dal capitale al potere, così come è ovvio che la sua tensione principale sia stata quella di ricercare le vie della libertà. Una libertà intesa come ricerca continua del piacere, anche di fare politica, una libertà intesa come pratica di resistenza perché, come scriveva lui, «si è liberi almeno finché si ha la possibilità di trasformare le cose». E quindi se vogliamo far nostro il pensiero di Foucault non possiamo più vedere la società "solo" come un rapporto di produzione dettato dal capitale. Dobbiamo altresì essere in grado di vedere tutti i luoghi e le relazioni di potere, tra cui la famiglia, la sessualità, le condotte, gli ordini gerarchici e via discorrendo. In fondo è ciò che ci chiede il presente. Il presente e non il ‘900.

viva la follia

http://it.wikipedia.org/wiki/Michel_Foucault

Paul Michel Foucault (Poitiers, 15 ottobre 1926Parigi, 26 giugno 1984) è stato uno storico e filosofo francese.

Tra i grandi pensatori del XX secolo Foucault fu l'unico che realizzò il progetto storico-genealogico propugnato da Nietzsche allorché segnalava che, nonostante ogni storicismo, continuasse a mancare una storia della follia, del crimine e del sesso.

I lavori di Foucault si concentrano su un argomento simile a quello della burocrazia e della connessa razionalizzazione trattato da Max Weber. Egli studiò lo sviluppo delle prigioni, degli ospedali, delle scuole e di altre grandi organizzazioni sociali. Sua è la teorizzazione che vide il modello del Panopticon, ideato da Jeremy Bentham come applicabile alla società moderna.

Importanti sono anche gli studi di Foucault sulla sessualità, secondo il quale non è sempre esistita così come la conosciamo noi oggi e così come soprattutto ne discutiamo. In particolare negli ultimi due secoli la sfera del sesso è stata oggetto di una volontà di sapere, di una pratica confessionale che prosegue in maniera blanda ma comunque diffusa la volontà di potere e di sapere istituita con la modernità dalle istituzioni prima religiose e poi secolari.

La sua produzione può essere divisa generalmente in due periodi: il primo relativo alle teorie raccolte nelle opere Storia della follia nell'età classica, Nascita della clinica, Le parole e le cose e L'archeologia del sapere. In queste opere Foucault propone un'analisi ch'egli definisce "archeologica", dei processi di costituzione e di formazione del 'sapere' di un certo momento, in un certo luogo, per una certa disciplina. In particolare Foucault analizza il formarsi del campo di studi delle "scienze umane".


Per la realizzazione di quest'analisi egli introdurrà, tra gli altri, il concetto di "
episteme", col quale indicherà l'insieme delle formazioni discorsive performanti per i sistemi concettuali di una determinata epoca storica, in un determinato contesto geografico e sociale. A partire dall'episteme, secondo Foucault, diviene possibile che solo certi "giochi di verità" abbiano luogo e non altri. Un esempio di disciplina che, nella nostra epoca e cultura, fornisce epistemi, è la psicanalisi freudiana che ricorre spesso nell'opera dell'autore oltre che come esempio di scienza in grado di produrre conoscenza, anche come fonte di esercizio di potere nel limitare la libertà critica, sfruttando la propria autorità di disciplina consolidata.

Il secondo periodo della sua produzione è invece direttamente interessato all'esercizio del potere e al suo funzionamento. Visse il '68 fuori dalla Francia, ma partecipò alla temperie culturale seguente, come pensatore di prestigio oltre che accademico riconosciuto. Risente della cultura marxista, ma ribalta completamente il discorso sul soggetto della storia. Non c'è una classe repressa portatrice inevitabile di sviluppo, come in Marx. Foucault parla di una microfisica del potere, risentendo chiaramente del dibattito strutturalista e poststrutturalista, nonché della Nietzsche renaissance che a lui deve molto.

Il concetto di potere espresso da Foucault è profondamente attuale, essendo una sorta di campo relazionale mai gestito da qualcuno (il capitalista, il prete...). È prima di tutto un discorso (una proliferazione di discorsi) portato verso una direzione in seguito a stratificazioni di un senso piuttosto che un altro. Qualcosa che condiziona ma che lascia margini di gioco, di distorsione, di sviluppo.

Il tema della conoscenza è centrale nel pensiero di Foucault, che ad essa lega la storia stessa della cultura dell'occidente con riferimenti all'esercizio del potere tramite la gestione della verità effettuati ad esempio dalla Chiesa o dalla scienza positiva. Una rivoluzione della conoscenza e della "verità" porta inevitabilmente dei cambiamenti forti nella essenza stessa della società e della sua cultura. Cosicché la storia si viene a delineare come costituita da momenti di grave crisi delle "verità" seguiti da periodi di relativa stabilità in cui una serie di "discorsi" domina su altri. Il "discorso", quindi, si viene a delineare come una costruzione basata su degli epistemi tramite il quale viene esercitato un potere e rispetto al quale, per la difesa di questo discorso, esistono una serie di tecniche e procedure, tra cui l'interdetto ossia il divieto per certi argomenti ad essere trattati: la creazione dei tabù, oppure il rapporto con i discorsi dei folli, che in quanto tali non vengono presi in considerazione oppure caricati di valori misteriosi, ma mai trattati come discorsi reali e valutabili in quanto tali (da ciò il procedimento inverso, ossia il considerare folli coloro che fanno dei discorsi inaccettabili e al limite bruciarli al rogo!).

venerdì 22 agosto 2008

Ormai l'Italia accetta tutto senza dissenso

questa professoressa vorrei ascoltarla tutti i giorni.

da: liberazione.it

«Ormai l'Italia accetta tutto senza nessun dissenso»

Antonella Marrone
Professoressa Urbinati lei ha scritto qualche giorno fa su "La Repubblica" che l'Italia è un paese senza dissenso, una società democratica docile. Altri parlano di opinione pubblica inesistente, di società mucilllagine. Insomma, un agosto ricco di pensieri sulla democrazia nel nostro paese che lei definisce - anche - autoriaria e paternalista. Oltre che docile.
La società democratica è un concetto complesso e può stimolare due letture importanti. La prima si fonda sull'idea dell'unanimità e sul potere della maggioranza: la maggioranza regge il governo democratico in nome del popolo. Una visione che da un senso di compatezza, propone l'unità del "demos" attraverso la decisione. Questa visone ha avuto una lunga tradizione, Carl Schmitt ne ha parlato come di un esempio di democrazia che viene da Rousseau. Accanto a questa visione ce n'è un' altra che ha avuto anch'essa una grande tradizione storica e che parte dalle rivoluzioni per i diritti (inglese, francese, americana). È una visione che possiamo definire conflittualistica, liberale, che poggia sui i diritti, che insiste sul processo formativo delle opinioni, plurale, aperto al dissenso. L'Italia di oggi assomiglia a una grande caserma, docile e assuefatta. Sia a destra che a sinistra i cittadini sono portati a pensare in un modo - lo stesso - che pare essere diventato naturale.

Dove c'è decisionismo non c'è gran democrazia, quindi.... La democrazia non è un semplice sistema di decisioni, ma un sistema di decisioni alle quali si arriva attraverso il libero confronto delle idee. Decisionismo vuol dire insistere sul momento finale, sulla decisione e sulla volontà. Se invece si vede l'intero processo politico - e non solo le regole che definiscono i modi delle decisioni - si da spazio a quelle misure che tutelano la libertà delle opinioni e quindi si lascia espressione libera al dissenso. Mi sembra che possiamo parlare di una visione molto più ricca e articolata della democrazia.

E noi dove ci collochiamo tra le diverse società democratiche, secondo lei?
Non ho la pretesa di fare analisi di tipo sociologico. Questo trend che prosegue da diversi anni - non è una cosa nuova - mi sembra che porti verso una visione molto riduttiva della democrazia, direi elettoralistica. Ovvero gli elettori vanno a votare e il resto viene fatto da altri, da chi governa. Il cittadino ha una funzione politica ridotta, che è soltanto quella elettorale. Ciò che viene fatto è fatto per via decisionista. Manca il senso della visione complessiva, anche conflittuale, della democrazia. Viviamo in una società omogenea dal punto di vista delle opinioni. Per questo parlo di docilità, che significa non avere una opinione diversa rispetto all'opinione preponderante, significa accettare pacificamente quello che l' opinione generale di una più o meno larga maggioranza, crede e vuole.

Società docile, opinioni omogenee: da più parti si denuncia un sospetto di fascismo.
È molto difficile dirlo. Mi spiego: Famiglia Cristiana ha parlato esplicitamente di fascismo. Ma così non credo che si colga il punto. Ci sono forme diverse per implementare una democrazia. Io dubito che una democrazia che imbavagli l'opposizione la si possa chiamare tale. Bisogna però vedere come la imbavaglia. Se le strade perseguite sono persecuzione e galera è ovvio che si colloca fuori da una dimensione di stato di diritto,è puramente fascista. Ma la nostra situazione è diversa. Questa nuova forma di omogeneità non passa più attraverso la coercizione delle azioni, ma attraverso una dolce trasformazione delle idee. Ci sono forme diverse di addolcimento dell'opposizione o di neutralizzazione dell'opposizione. Per me la parola fascismo denota ancora un regime particolare

Quanto siamo vicini alla democrazia americana da un punto di vista formale?
In America è così ed è diverso nello stesso tempo. In Europa un elemento come il personalismo ha cambiato il modo di intendere la democrazia che si era sempre sviluppata per movimenti, partiti, organizzazioni collettive delle opinioni - anche per reagire ai fascismi che appunto personalizzavano la politica. In America c'è sempre stato un misto delle due cose: molti movimenti, una società molto in moto, dove i diritti - individuali e collettivi - sono una strategia di azione politica e non semplicemente un "oggetto" che viene usato qualche volta, o sempre, o solo dai giudici. Rappresentano veramente, i diritti, un progetto politico. In questo senso è una società molto più in moto, attiva e turbolenta, anche se non è una turbolenza che crea disordine. L'Italia in questo momento è pacificata, accetta con straordinaria, paurosa tranquillità l'idea che le regole o le ordinanze dei comuni possano interferire sulla vita privata delle persone. Cosa che in America non sarebbe accettabile. Qui ci sono situazioni nelle quali si accetta più facilmente la decurtazione dei diritti.

Non molto tempo fa, una delle tante indagini sul nostro vivere, descriveva gli italiani come un popolo che, pur di avere più sicurezza, avrebbe rinunciato volentieri ad un po' di "privacy"
La paura è stata alimentata ad arte e le misure di sicurezza accettate in modo incredibilmente pacifico. Eppure stiamo parlando di una situazione criminale individuale, ordinaria. Quindi una paura che non ha senso. Pensiamo agli anni Settanta con la strategia del terrore, quando l'Italia aveva certo ragione ad avere paura! Oggi questa paura serve per poter giustificare azioni di governo che sono ai limiti della legittimità dello stato di diritto. Il nostro paese giustifica fenomeni di razzismo, e di interferenza con i diritti individuali universali, che è pauroso.

Riproporre il dissenso, il conflitto: il mondo del lavoro può essere la chiave per tornare ad una democrazia di "opinioni" non omogenea, né docile?
Può esserlo, secondo me, solo ad una condizione: che torni ad essere un valore e non solamente una "prestazione d'opera" che serve per avere un salario. Il lavoro ha subito una trasformazione epocale, una svalutazione totale. È stato trasformato in semplice prestazione d'opera - e già l'uso di queste parole, di questa frase, toglie senso al lavoro come responsabilità, fatica, impegno - rendendo tutto generico ed uguale. Al lavoro è stata tolta la caratteristica di forza integrativa della società, il suo essere strumento che guadagna diritti, e spende benessere e diritti. Così si è avuta una progressiva scrematura delle organizzazioni che potevano difendere i diritti del lavoro, si sono create situazioni di contrasto tra lavoro occupato e non occupato, giovani e vecchi. Insomma una situazione che ha contribuito a rendere il lavoro veramente vulnerabile a tutti gli attacchi possibili e recentemente anche a questa straordinaria facilità di licenziare per ragioni alcune volte giuste, altre volte assolutamente faziose, pretestuose. Il lavoro potrà essere la chiave che lei dice, ma ci vuole tempo. Perché al lavoro, come alle forme di vita pubblica, sono stati tolti valori etici.

L'opinione pubblica, ci dicono i giornali, non è comunque interessata a questo... ammesso che abbia un senso parlare di "opinione pubblica"
Non mi soddisfa parlare di queste cose. Da una parte, come dice lei, l'opinione pubblica, detta così non significa nulla. Dall'altra parte, visto che l'opinione pubblica è il giudizio politico in generale, occorrerebbe tornare a pensare a quali sono gli strumenti di formazione, a come vengono gestiti e che ruolo ha il pubblico nella regolamentazione di questi strumenti per la formazione. Un'opinione non è un fatto privato, l'opinione politica, nella democrazia rappresentativa, è una componente della sovranità. La scheda nell'urna - il semplice gesto di andare a votare - è espressione della volontà. Ma io non vado semplicemente a votare. La scheda nell'urna - ecco perché la democrazia deve essere completa - viene alla fine di un processo di formazione delle opinioni, ovvero di una funzione del giudizio. Anche questa è parte della sovranità, non è un fatto privato. Le nostre leggi e le nostre costituzioni sono sguarnite su un punto che ha indicato molto bene uno studioso norvegese, Jon Elster. Scrive Elster che nessuna costituzione dei paesi occidentali si preoccupa della pluralità dei mezzi di informazione. Pluralità dei media e, dunque, delle opinioni. È vero, perché sono tutte costituzioni scritte prima della rivoluzione mediatica. Quando si parla di opinione pubblica si parla di questo. E su questo occorre lavorare. Del resto mi sembra che venti anni di discussioni non hanno portato a nessuna soluzione legislativa che avrebbe potuto rendere il nostro paese meno problematico da queso punto di vista.

È ancora vero che le "idee della classe dominante sono le idee dominanti"?
Occorrerebbe uno studio approfondito. A me sembra che ci sia una trasformazione della democrazia, anche se la parola democrazia purtroppo è generica. Ci sono democrazie dirigistiche, dove l'esecutivismo è molto più accentuato ed è evidente l'erosione del ruolo delle decisioni collettive dei parlamenti, in tutta Europa. Da noi la democrazia interna ha avuto delle evoluzioni che si accompagnano alla de-politicizzazione della società civile e anche di molte decisioni. Pensiamo, per fare un esempio, alle commissioni bipartisan in parlamento. Ce ne sono tantissime, come se fosse davvero possibile risolvere questioni di tipo pubblico da un punto di vista "non politico", in altre parole: come se ci fosse una visione scientifica, oggettiva di una verità. Sono forme di de-politicizzazione. La politica ridotta ad una cosa volgare che si basa su opinioni opposte. Difficile da comprendere questa democrazia.

Nanni Moretti, tanto per restare nel mood agostano, parla da tempo di una classe politica - di sinistra - che non fa più bene il suo mestiere. Sintomo o causa del malessere della democrazia?
Non c'è bisogno dei massimi sistemi per analizzare la crisi della sinistra. Sappiamo benissimo quanto sono importanti le leadership. La classe dirigente di oggi è povera, povera dal punto di vista culturale e ideale, parlamentarizzata. L'opposizione non incalza. Andrebbe fatta una bella analisi sociale della trasformazione delle classi dirigenti tenendo conto anche della loro funzione sociale. E tenendo conto di come sia cambiato il linguaggio politico con la presenza massiccia della televisione.

L'Italia è stata attraversata da un euforico vento di cambiamento, di innovazione, di "gioventù". Di cui si vedono i segni anche in parlamento, dove un'intera generazione politica è stata spazzata via...
Non sono così sicura che cambiando si possa recuperare quello che non si ha più. Le idee politiche hanno bisogno di tempo per sedimentare. Se si cambia troppo facilmente si perde l'identità

Identità è parola grossa e anche abusata, oggi. Non c'è il rischio che il dialogo politico si atrofizzi tra tante "identità"?
Allora diciamo questo: io non so che cosa sia identità. Ma non è l'identità, a mio parere, che limita il dialogo e il confronto. A meno che l'identità non diventi una sede dogmatica.

Torniamo al punto di partenza. Società docile, dissenso inesistente, opinione pubblica senza strumenti per "formarsi". C'è da sperare in una "mutazione" generazionale che arrivi quanto prima
È disarmante perché è veramente finito un ciclo. I ragazzi e le ragazze con cui a volte ho discussioni non amano né il dissenso, né visioni progressiste. È già un mutamento. Penso che Gramsci sia ancora importante e attuale: è un mutamento di egemonia. La cultura egemonica politica non è quella progressista quella radicale o di sinistra. Non lo è, si tratta di prepararsi ad un lungo periodo di difficile dialogo e accettazione della realtà usando quegli strumenti che si sono sempre usati nelle democrazie: giornali, movimenti, parlamento.... Non credo ad una breve durata. Questo è un mutamento molto molto profondo.


22/08/2008