venerdì 24 aprile 2009

Lezione di Gustavo Zagrebelsky

BIENNALE DEMOCRAZIA
Torino, 22-26 aprile 2009
Lezione di Gustavo Zagrebelsky
Giovedì 23 Aprile 2009
La democrazia in cui viviamo è come l’aria che respiriamo. Non ci si fa caso fino a quando viene a mancare o diventa tossica.
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(concetto e concezioni)
In qualunque definizione di democrazia appropriata al concetto, ai cittadini è attribuita una funzione attiva nelle decisioni che li riguardano. Le forme e i limiti possono essere diversi, ma questa è una condizione senza la quale di democrazia è improprio parlare. La definizione più compiuta (e utopistica) è certamente quella della democrazia come pieno “autogoverno” dei cittadini che Rousseau, all’inizio del Contratto sociale, enuncia come programma della sua ricerca: «Trovare una forma d’associazione […] attraverso la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero tanto quanto lo era prima»1. Ma appartiene alla democrazia anche il potere riconosciuto ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti, di farne valere la responsabilità in caso di malgoverno, cioè di porre limiti all’onnipotenza dei governanti, e di sostituirli, se del caso,
1 J-J. Rousseau, Du contrat social (1762), Paris, Garnier-Flammarion, 1966, p. 51.
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secondo procedure accettate, basate sulla misura del consenso, dunque non violente. Tutte queste concezioni possono apparire qualcosa di meno dell’autogoverno, ma rientrano tuttavia nel concetto di democrazia. Anzi, per qualcuno, sono le sole realistiche, l’autogoverno popolare appartenendo al mondo dei sogni2.
Dicevo “definizione appropriata al concetto”, perché nel campo politico i concetti sono spesso manipolati, per fini, per l’appunto, politici. Le parole della politica sono ambigue, come si spiegherà più avanti, perché sono parole del potere e per il potere, sono cioè parole strumentali. Questa ambiguità si constata facilmente proprio con riguardo alla democrazia quando la si definisce – normalmente con aggettivi qualificativi - non come governo del popolo, ma come governo per il popolo. Così, la “democrazia cristiana”, agli inizi del novecento, era definita “l’impegno cattolico per il popolo, avente come scopo il conforto e l’elevamento delle classi inferiori”3, lo “studium solandae erigendaeque plebis” dell’Enciclica Graves de communi, del papa Leone XIII (1901). In questo senso, della parola democrazia, anzi di “reale”, “vera”, “sostanziale” democrazia, contrapposta alla democrazia “solo formale” dei regimi liberali, si poterono fregiare anche il regime sovietico (“democratico è tutto ciò che serve agli interessi del popolo”), il fascismo (“democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria” al servizio della nazione) e tutti i regimi più violenti e arbitrari del mondo che, dopo avere privato i cittadini dei loro diritti, si sono auto-proclamati e si auto-proclamano sinceri amici e difensori del popolo. In questo semplice scambio di preposizioni, dal governo del popolo al governo per il popolo, sta la capacità mimetica della parola democrazia. Paradossalmente, anche le autocrazie, perfino le teocrazie, cioè le
2 K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Roma, Armando, vol. II, pp. 210 ss.
3 U. Benigni, “voce” Christian Democracy, in Catholic Encyclopedia, New York, Appleton, 1908.
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autocrazie spinte al massimo livello, come è in certe repubbliche islamiche, possono presentarsi come democrazie, talora anzi come le “vere democrazie” contrapposte a quelle occidentali “degenerate” e, a questo punto - è ovvio - la confusione e l’inganno diventano totali e insuperabili.
Ancora più intollerabile stravolgimento del concetto è la definizione della democrazia come governo per mezzo del popolo. A questo proposito, per comprendere la corruzione del concetto basta pensare ch’essa attrarrebbe nel campo della democrazia le jacqueries dei contadini in Francia, i sanfedisti del cardinale Ruffo, i pogrom dei cristiani fanatizzati contro i villaggi ebraici dell’Europa centrale, i milioni di morti delle guerre “di popolo”. Basti così.
Ci si può invece domandare perché oggi chi esercita funzioni politiche, tanto tenga a qualificarsi democratico, a costo di simili violenze lessicali e concettuali. La democrazia, fin dall’inizio della riflessione sulle forme del vivere insieme, è stata associata all’idea della massificazione, della mediocrità, dell’edonismo, del materialismo, dell’arbitrio e della violenza del numero senza qualità, dunque a una costellazione di valori negativi. Per quali motivi, allora, è diventata oggi una parola magica, lo shibbolet, il passaporto senza il quale non si è ammessi al consesso dei popoli, dei governanti e degli Stati civili? Perché, in breve, è diventata un titolo di rispettabilità al quale nessuno, oggi, può rinunciare?
Lasciamo per ora in sospeso la risposta.
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(un concetto non sperimentato né sperimentabile)
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Una volta che si sia preso atto dell’inganno perpetrato attraverso il rovesciamento del concetto, e della necessità di rimetterlo diritto, resta la difficoltà che, se non concettualmente, certo praticamente o, come si dice, “sperimentalmente”, la democrazia deve sempre fare i conti con una mutazione le cui cause sono endemiche, cioè interne alla democrazia stessa: la mutazione oligarchica. Questa mutazione, come esito inevitabile, è denunciata concordemente dai critici della democrazia, i critici, per usare ancora queste categorie che a molti paiono desuete, sia di destra che di sinistra. Il che è quanto dire che la denuncia è corale e che coloro che proclamano l’ideale del governo del popolo sono o degli ingenui o degli impostori.
Nella teoria classica delle forme di governo, l’oligarchia, come governo dei molti impotenti da parte di pochi potenti, sta, per così dire, in mezzo, tra la monarchia, il governo di uno, e la democrazia, il governo dei molti o di tutti4. Questo, in teoria. In pratica, si conoscono solo oligarchie, del più vario tipo, più o meno ampie, più o meno strutturate, più o meno gerarchizzate e centralizzate: ma sempre e solo oligarchie. Questo è vero con riguardo alla monarchia, non essendo nemmeno immaginabile un regime che si regga sul potere concentrato in uno solo. Quello che appare come il monarca, in realtà è sempre l’espressione di un gruppo organizzato che, in vario modo, lo sostiene e, contemporaneamente, lo tiene imbrigliato. Ma è vero anche con riguardo alla democrazia. L’esperienza
4 Nella concezione moderna, la democrazia è il governo “di tutti”, cioè del popolo tutto intero. Nella concezione antica, la democrazia era il governo del demos, da intendersi il “popolo minuto o, anche, dei poveri, contrapposto all’oligarchia (o aristocrazia) come governo dei ricchi. Era cioè il governo dei molti, o dei più, in quanto, di fatto e er lo più, i poveri sono più numerosi dei ricchi. Ma la democrazia non si sarebbe trasformata in oligarchia se, per ipotesi, vi fossero stati più ricchi che poveri. Aristotele, Politica, 1279b, dice così: «La ragione sembra dimostrare che l’essere pochi o molti sovrani nella polis è un elemento accidentale, l’uno delle oligarchie, l’altro delle democrazie, dovuto al fatto che i ricchi sono pochi e i poveri sono molti dovunque […] mentre ciò per cui realmente differiscono tra loro la democrazia e l’oligarchia sono la povertà e la ricchezza: di necessità, quindi, dove i capi hanno il potere in forza della ricchezza, siano essi pochi o molti, ivi si ha oligarchia; dove invece lo hanno i poveri, la democrazia: e tuttavia capita, come abbiamo detto, che quelli siano pochi, e questi molti»
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storica mostra che la democrazia, nella sua forma pura o pienamente realizzata – la democrazia, per esempio, secondo la definizione di Rousseau già citata - di fatto non esiste e non è mai esistita, se non in effimeri “momenti di gloria”, come si esprime Joseph de Maistre. Questi momenti sono quelli iniziali, dell’instaurazione del potere popolare che abbatte le strutture gerarchiche del passato. Sono momenti negativi e distruttivi, non positivi o costruttivi. Sono perciò, per l’appunto, momenti effimeri e i critici della democrazia non mancano di argomenti, storia alla mano, per avvertire che “in generale, ogni governo democratico non è che una fugace meteora il cui fulgore esclude qualsiasi durata”5 e che questo momento fugace di ebbrezza che genera distruzione rischia di doversi poi pagare caro e a lungo
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(la “ferrea legge dell’oligarchia”)
La critica nei confronti della democrazia, in quanto regime dell’illusione, e la critica nei confronti del pensiero democratico, in quanto mistificatore della realtà, si comprendono per mezzo di quella che è stata detta la “ferrea legge dell’oligarchia” che è alla base di tutte le numerose concezioni elitiste del potere. Quell’espressione, coniata da Roberto Michels con riferimento alla sociologia dei partiti politici socialisti, vale però in generale, a indicare, in ogni organizzazione sociale, e tanto più nelle organizzazioni sociali di grandi numeri e dimensioni, la tendenza irresistibile alla formazione di gruppi dirigenti ristretti che ne assumono la guida. I grandi numeri hanno bisogno dei piccoli numeri. I pochi conducono, i molti seguono.
5 J. de Maistre, Etude sur la souveraineté, in Oeuvres complètes de Joseph de Maistre, t. I, Vitte, Paris, 1924, p. 495.
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Le élites non sono di per sé in contrasto con la democrazia. Sono conciliabili. Anzi, si può facilmente sostenere che la democrazia, in quanto non sia semplicemente il potere del bruto numero, per poter funzionare ha bisogno di élites in competizione tra loro, per poter organizzare, canalizzare e mobilitare le energie disperse nei grandi numeri, cioè per renderle operanti. Ma le cose cambiano assai quando l’élite si trasforma in oligarchia, cioè si chiude su di sé, aspira all’inamovibilità e si cristallizza. Quando ciò accade, il “principio maggioritario”, che è l’anima della democrazia, si rovescia nel “principio minoritario”, che è nell’essenza dell’autocrazia.
Orbene, la tendenza delle democrazie, in assenza di antidoti, a produrre élites politiche (“classi dirigenti”) e la tendenza di queste a trasformarsi in oligarchie (“caste”) non è astratta teoria. È constatazione di fatti reali e diffusi, che non è difficile da farsi.
Perfino il modello classico, la democrazia ateniese, sotto questo aspetto, deve essere demitizzato e, in realtà lo fu, e ferocemente, da Aristofane, ad esempio descrivendo il contrasto tra i due demagoghi de I Cavalieri (il salsicciaio e Paflagone) per il controllo di un demos piuttosto rimbecillito. Già all’epoca d’oro della democrazia del V secolo, si trattò, pur in una piccola città (niente a che vedere con i grandi Stati del nostro tempo) di oligarchia, la cui testa era occupata da Pericle, il “principe della democrazia”, come si è detto con un ossimoro. E il popolo applaudiva poiché, a iniziare da Clistene, il primo riformatore democratico, i capi si curavano di “assicurarsi il suo favore” (prosetairízomai), cioè di trasformarlo in massa di clienti6. Si noti: in democrazia, il “favore”, cioè la fiducia, è qualcosa che deve essere meritata e che lega i capi ai cittadini.
6 Erodoto, Storie, V, 66.
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Secondo ciò che si racconta della democrazia ateniese, erano i capi a mettersi al sicuro, legando i cittadini a sé. In che modo? Lo spiega Aristotele7, raccontando del contrasto tra Cimone e Pericle e dei mezzi usati dall’uno e dall’altro per prevalere. Cimone, che disponeva di un patrimonio principesco, “offriva splendidamente liturgie pubbliche e manteneva pure molta gente del suo demo. Chiunque volesse poteva recarsi a casa sua ogni giorno e prendere quel che gli occorreva. Inoltre, nessuna sua proprietà aveva recinzioni, sicché chi voleva poteva approfittare dei frutti”. Pericle, che non poteva permettersi tutto questo, semplicemente svendette le cariche pubbliche, dando origine, dice Aristotele, all’immoralità dei magistrati e, dice Socrate, alla corruzione dei costumi8. Il favore fu acquistato, col patrimonio privato (Cimone), con quello pubblico (Pericle). In entrambi i casi si trattò, insomma, di corruzione in senso tecnico.
In questo rapporto di democrazia rovesciata, cioè di potere che procede dall’alto, il popolo è semplicemente una massa di manovra da sedurre e utilizzare in una guerra tra oligarchi che si svolge senza regole, anzi talora contro le regole (come nel caso della vendita di cariche pubbliche), in luoghi e con mezzi che nulla hanno a che fare con la democrazia. Sui luoghi e sui mezzi della democrazia rovesciata è da fermare un poco l’attenzione.
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(democrazia e luoghi del potere)
7 La costituzione degli Ateniesi, XXVII, 3-5.
8 Platone, Gorgia 515E: «Io sento dire che Pericle li rese infingardi [gli Ateniesi], vili, chiacchieroni e avidi di danaro, dacché egli per il primo li abituò a riscotere una paga da’ fondi pubblici». Il discorso di Socrate si volge poi in evidente ironia: «Quest’altro però non lo sento dire, ma lo so di sicuro io […]: che da principio Pericle era l’idolo di tutti,; e gli Ateniesi, mentre erano peggiori, non lo colpirono di nessuna condanna infamante; ma poiché, grazie a lui, divennero ottimi, sulla fine della sua vita lo condannarono per peculato, e mancò poco non proponessero per lui la pena di morte, considerandolo evidentemente un malvagio» (Platone, Tutte le opere, a cura di G. Pugliese Carratelli, Firenze, Sansoni, 1974, p. 760).
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I luoghi del potere, innanzitutto. I luoghi d’elezione dell’oligarchia sono quelli dove il potere si nasconde, per sua naturale tendenza. Il potere non ama la pubblicità, la luce del sole. “Il segreto sta nel nucleo più interno del potere”, è un detto pregnante di Elias Canetti9 che può essere letto anche così: “Il potere sta nel nucleo più interno del segreto”. I luoghi dove si svolgono le pratiche che più contano sono anche quelli meno esposti alla vista del pubblico. Gli arcana imperii non sono prerogativa soltanto degli Stati assolutistici, non sono solo l’espressione della “ragion di stato”. C’è anche, per così dire, una “ragion di potere” che mira ad avvolgersi nel segreto e a proteggersi dagli sguardi indesiderati.
Naturalmente, ciò vale rispetto all’esercizio del potere, non rispetto all’ostensione di sé dei potenti, del loro essere, della loro indole e loro stile di vita privata. L’esteriorità esibita dai potenti non è la pubblicità dei loro atti e può convivere facilmente con la segretezza. “Il privato”, quando lo si ritenga opportuno e utile, può infatti essere messo in pubblico, e sempre più spesso lo è, anche artatamente e spudoratamente, senza che ciò incrini la segretezza del potere. Anzi la rafforza, perché serve ad alimentare tra gli spettatori l’idea che, alla resa dei conti, si è tutti uguali, le aspirazioni e le difficoltà della vita ci uniscono tutti, non c’è nulla da nascondere e, quindi, nulla che si possa pretendere che sia svelato.
Il “potere invisibile” è invece uno dei grandi problemi e delle maggiori difficoltà della democrazia, il regime che non può fare a meno della “trasparenza” del potere”. Come non ricordare, in proposito, la glasnost, trasparenza appunto, che della politica di democratizzazione dell’Unione Sovietica di Gorbačëv (1986) doveva essere uno dei capisaldi, anzi una pre-
9 E. Canetti, Massa e potere (1960), in Opere. 1932-1973, Milano, Bompiani, 1990, p. 1331.
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condizione? Norberto Bobbio ha scritto, su questo tema, pagine fondamentali10, ispirate alla formula trascendentale dell’autorità (cioè del diritto pubblico) di Kant: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è conciliabile con la pubblicità, sono ingiuste»11. Le azioni di cui si vuol celare la “massima”, cioè il motivo che le promuove, sono sottratte al controllo della ragione o opinione pubblica, e perciò sono per definizione sospette: si ha il diritto di supporre che, se quella massima fosse conosciuta, forse l’azione non potrebbe decentemente essere compiuta. Il segreto protegge dagli scandali del potere. Si comprende che i cosiddetti “poteri forti” siano anche quelli meno visibili. Ma, in democrazia, al contrario, oportet ut scandala eveniant, cioè che li si possa portare in pubblico affinché “facciano scandalo” e così impegnino la responsabilità dei governanti di fronte all’indignazione dei governati.
Se poi il potere invisibile è anche un potere che, a sua volta, può vedere tutto di tutti, come è nella tendenza dei regimi totalitari e come l’attuale sviluppo della tecnologia informatica in misura crescente consente, l’impunità, qualunque cosa si faccia, è garantita e il rovesciamento antidemocratico del rapporto tra governanti e governati è completo. L’immagine più chiara è quella dell’orecchio di Dionisio, l’antro delle latomie che amplificava i discorsi, dove venivano rinchiusi i nemici di Gerone, tiranno di Siracusa, il quale, secondo la leggenda, tutto poteva vedere e udire rimanendo nascosto. L’Onnipotente, d’altra parte, non è forse colui che nessuno ha mai visto, il quale, a sua volta, è onnisciente,
10 N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, in Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 74 ss., nonché Id., in N. Bobbio,G. Pontara, S. Veca, Crisi della democrazia e neocontrattualismo, Roma, Editori riuniti, 1984, pp. 27 ss.
11 I. Kant, Per la pace perpetua (1795), in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, UTET, II ed.,1965, p. 330.
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onnipresente, onnivedente? Tutto si può dire, ma non certo che il rapporto tra Dio e le sue creature sia un rapporto democratico.
La formula di Canetti, «il potere sta nel nucleo più interno del segreto», invita a fare un passo ulteriore. Essa suggerisce l’idea di gradi successivi tra la visibilità totale, il potere alla luce del sole, e l’invisibilità totale, il potere che si svolge nelle tenebre. L’immagine delle quinte teatrali, del potere “dietro le quinte”, rende bene l’idea. L’ultima, quella più interna, protegge il nucleo; man mano che si procede verso l’esterno, cioè verso il pubblico degli spettatori, la visibilità aumenta ma, con la visibilità anche l’illusorietà. Ciò che si vede, come sul palcoscenico del teatro, è una “rappresentazione”; è ciò che si vuole che si veda, non ciò che dovrebbe e potrebbe essere visto, in assenza delle quinte. La democrazia, come hanno detto i suoi denigratori, da Platone in poi, è una “teatrocrazia”. Sulla scena si spacciano “valori”, di cui, dietro le quinte ci si fa beffe tranquillamente e spesso volgarmente, come ci capita di constatare quando qualcuno parla, senza esserne al corrente, “a microfono aperto”.
Le procedure della democrazia cadono allora in rituali. Il loro significato non è il controllo del potere, ma è la copertura del potere attraverso l’illusione.
Il parlamento, centro della vita democratica, diventa uno schermo che riflette immagini fasulle del potere effettivo, che cerca di legittimarsi presentandosi a un pubblico di bocca buona come il prodotto di libere discussioni dei rappresentanti del popolo, mentre, al contrario, è la più o meno efficiente longa manus di un potere oligarchico nascosto. E così, alla fine, quando non serve più nemmeno come schermo, dopo che lo si è umiliato e riempito di uomini e donne senza valore e capaci solo di
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assecondare, lo si può perfino sbeffeggiare come luogo di “ludi cartacei”, di esercizi “discutidores”12, di fannulloni che fanno perdere tempo a chi vuole decidere con tempestività ed efficacia.
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(la democrazia e i mezzi del potere)
I mezzi, ora. Dietro le quinte, si giocano partite senza regole la cui posta è il governo delle società. Contano l’audacia, l’astuzia, talora l’inganno e il ricatto, la capacità delle combinazioni, le alleanze, le mediazioni. Tutto questo è “forza”, che non ha nulla a che vedere col “diritto” che celebra i suoi riti nelle procedure visibili della democrazia.
Ma di che sostanza è fatta questa forza? A seconda delle epoche, si intrecciano in equilibri variabili forze che fanno leva sulle aspirazioni primordiali degli esseri umani: paure e speranze, onore, benessere materiale. Il medium più potente, ciò che unifica tutto e di tutto è misura, oggi è indubitabilmente il denaro: pecunia regina mundi13, la ricchezza ottiene tutto, tutto può misurarsi in denaro, nulla sembra sottrarsi alla sua forza. Questa è l’ideologia del nostro tempo. Non c’è bisogno di spendere parole: col denaro si può comperare sicurezza, speranza, onore proprio e altrui e, naturalmente, benessere e, perfino, felicità. Il denaro muove il mondo, almeno il “nostro” mondo, come un tempo lo muovevano le fedi o le paure religiose, le ambizioni dinastiche, la gloria e la potenza delle nazioni, le missioni storiche di classi, etnie, popoli, eccetera (quand’anche esse non fossero, a loro volta, mascheramento di interessi materiali).
12 J. Donoso Cortés, Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo (1850), trad. it. Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, Milano, Rusconi, 1972, disprezzava la democrazia parlamentare come espressione liberale della clasa discutidora,
13 Petronio, Satyricon, 14.
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Su tutto ciò non c’è nemmeno bisogno di soffermarsi. Oggi la potenza del denaro si è resa perfino immateriale, incorporea, mistica, attraverso il capitale finanziario la cui forza spira dove vuole, attraverso lo spostamento di “quote” che crea ricchezze e causa miserie, al di sopra di ogni confine, controllo e regole. La refrattarietà del danaro a sottoporsi a regole è tale che - ultima mossa della disperazione - sembra non restare altra risorsa che il patetico appello al senso etico dei finanzieri, cioè all’etica negli affari contro l’etica degli affari. Nella difficoltà di far valere il diritto, sembra non esserci di meglio che i “valori”!
Dove il denaro è la misura di tutte le cose, tutto è potenzialmente in vendita al miglior offerente, compresa la politica, compresa la democrazia. L’esposizione della democrazia a questo genere di corruzione si vede con tanta maggior chiarezza se la si guarda, ancora una volta, dal punto di vista della sua natura oligarchica e la si concepisce, secondo la celebre visione economica di Joseph A. Schumpeter14, riferita in origine alla società americana, come competizione tra élites per la conquista del mercato dei voti. Per chi ha patrimoni da investire, i magnati della finanza - siano essi persone fisiche o società di capitali - la democrazia può diventare un’impresa, un investimento, per i vantaggi d’ogni genere che ne potranno derivare, più fruttuoso di altri esclusivamente finanziari. E così, la democrazia può essere “rovesciata” in oligarchia del danaro15, cioè plutocrazia o governo dei ricchi.
14 Capitalismo, socialismo e democrazia (1942), Milano, Comunità, 1964.
15 Questa è la tesi, argomentata in un libro dalla non sorprendente fortuna di Sheldon S. Wolin,(non un rivoluzionario, ma un professore emerito dell’Università di Princeton, che si ispira al pensiero di Tocqueville), dal titolo Democracy Incorpored. Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism, Princeton Un. Press, Princeton-Oxford, 2008. In Italia, gli studi circa l’influenza il rapporto denaro-democrazia sono pressochè inesistenti, se si escludono quelli ormai risalenti di E. Rossi, I padroni del vapore, Bari, Laterza, 1955 e E. Scalari, Razza padrona, Milano, Feltrinelli, 1974. Ancora sugli Stati Uniti, v. K. Phillips, Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano, Milano, Garzanti, 2005
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Tutti i regimi democratici si preoccupano di evitare questo rischio. Per esempio, prevedendo come reato il “voto di scambio”, il voto che si ottiene, approfittando della condizione di bisogno dell’elettore, promettendo favori16. Un tempo, forse, l’esito delle elezioni dipendeva da questo genere di corruzione, per così dire, spicciola. Oggi, ci sarebbe da sorridere se si pensasse che questo sia il modo di condizionare gli esiti elettorali. In certe situazioni si fa ancora così, ma in generale l’influenza del danaro sulle opinioni e i comportamenti politici segue strade molto più sofisticate e diffusive, rispetto alle quali il codice penale ha poco o nulla da dire. Si tratta i mezzi della comunicazione pubblica, mezzi molto sofisticati, sottoposti a innovazione tecnologica continua che, soprattutto, richiedono investimenti ingenti che sono nelle possibilità solo di pochi. Chi vince le elezioni è oggi, in tutto il mondo “avanzato”, solo chi dispone di questi mezzi e, con l’aiuto di specialisti della comunicazione politica, li sa meglio utilizzare.
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(Che cosa pensare? Una vuota ideologia?)
Che cosa dobbiamo concludere? Che la democrazia, se mai è stato in qualche tempo e in qualche luogo, possibile, non lo è nelle società del nostro tempo? Che l’oligarchia, cioè il dominio dei pochi sui molti è la realtà alla quale non possiamo sfuggire? Che le forme della democrazia sono pure apparenze ingannevoli? Che la democrazia, per riprendere un’espressione famosa, fa promesse che non può mantenere17 ed è quindi un regime fedifrago?
16 E’ il caso di colui che “per ottenere a proprio o altrui vantaggio il voto elettorale o l’astensione, offre, promette o somministra denaro, valori o altra utilità o promette, concede, o fa conseguire impieghi pubblici o privati a uno o più elettori, o, per accordo con essi, ad altre persone, anche se l’offerta venga sotto qualsiasi pretesto dissimulata” (art. 96 t.u. 30 marzo 1957, n. 361 sull’elezione della Camera dei deputati).
17 N. Bobbio, il futuro della democrazia, cit., p. 8.
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Siamo qui riuniti per sentirci dire questo? Che i neri, che per la prima volta in Sud Africa facevano la fila con emozione davanti ai seggi elettorali, di cui parla l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu18, fossero degli illusi e che nulla sarebbe destinato a cambiare, come pensavano i bianchi che li guardavano ironicamente seduti nei loro caffè, da sempre a loro riservati? Che gli italiani che hanno combattuto il regime fascista e poi, a liberazione avvenuta, facevano disciplinatamente la fila per votare, ancora tra le macerie della guerra, non sapessero quel che facevano? Che i movimenti per la democrazia in tutto il mondo lavorino semplicemente per nuove forme di asservimento, per passare da un’oligarchia a un’altra?
Come dobbiamo considerare il fatto che il linguaggio della democrazia è diventato il linguaggio universale delle relazioni politiche del nostro tempo: un puro e semplice fatto d’ipocrisia politica, un atto di deferenza a un simulacro senza contenuto? Di concetto idolatrico, Idolbegriffe, infatti, si è parlato da taluno19. Un realista scettico potrebbe perfino dire così, che la portata universale assunta dalla parola democrazia ha come presupposto proprio la sua insignificanza. La democrazia sarebbe un autoinganno, addirittura di dimensione mondiale20, una vuota parola d’ordine che i popoli hanno inventato per darsi rassicurazioni, una volta distrutte le altre legittimazioni del potere. In una parola, la democrazia come ideologia.
18 D. Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano, 1999.
19 E. Küchenhoff, Möglichkeiten und Grenzen begrifflichen Klahrheit in der Staatsformenlehre, Berlin, 1967, p. 654.
20 La forza d’espansione della democrazia è talora espressa in “ondate”: S.P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione del XX secolo, Bologna, il Mulino, 1991 (si tratterebbe di ciò: una prima “ondata”, ha portato le costituzioni americane e francesi della fine del ‘700; una seconda, le costituzioni del secondo dopo-guerra del XX secolo; una terza, le costituzioni seguite alla caduta postuma dei regimi fascisti sopravvissuti alla seconda guerra mondiale, a iniziare da quella portoghese del 1974. Ma ora si dovrebbe parlare di quarte e quinte ondate, con riferimento alle vicende dell’Est europeo, di paesi che si sono date o a cui sono state imposte costituzioni vere o sedicenti democratiche in Africa e in Asia).
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Perché la democrazia, malgrado tutto, ha potuto diventare l’unica parola della politica legittima? La risposta si trova nella storia della cultura e delle ideologie politiche e, in particolare, nella fine della credenza nei principi trascendenti e nelle autorità che a questi si richiamano, nel governo delle umane società. In Europa, innanzitutto, si è trattato della vicenda che, a partire dalle lotte rinascimentali contro il potere della Chiesa nel governo civile, sotto il nome di secolarizzazione, ha portato al rovesciamento del principio di legittimità del governo civile dalla sovranità divina in temporalibus alla sovranità popolare. La sovranità popolare si è accompagnata, come all’altra faccia della medaglia, al principio di uguaglianza che, a sua volta, ha sconfitto l’antica visione gerarchica della società, da sempre associata invece all’idea del potere che procede dall’alto. Orbene, sovranità popolare e uguaglianza tra gli esseri umani sono gli ideali politici della democrazia. Per quanto il secolarismo sia contestato e si stia facendo avanti un ambiguo “post-secolarismo”, cioè una rinascente teologia politica che tende alla restaurazione del divino nella politica di quaggiù, il mondo attuale, a quanto sembra, non è pronto ad accettare “ideologicamente” un ribaltamento come questo, che metterebbe in crisi la democrazia come unico regime legittimo. Fino a che quei principi – sovranità popolare e uguaglianza degli esseri umani, cioè i due sommi principi delle rivoluzioni della fine del XVIII secolo - resteranno fermi, e fino a quando quelli opposti - trascendenza del potere e gerarchia sociale - non avranno di nuovo, in qualche non impossibile reincarnazione, guadagnato spazio nella coscienza sociale, c’è da credere che la democrazia resterà la parola d’ordine d’ogni teoria politica e di ogni uomo politico rispettabili, a onta di tutte le diverse realtà ch’essa è capace di accogliere e, qualche volta, occultare o mistificare.
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Ma davvero dobbiamo pensare che stiamo parlando solo di illusioni? Non può essere necessariamente così, non deve essere necessariamente così e, in effetti, non è così.
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(Un regime di possibilità)
Quanto precede ci rende consapevoli della posta in gioco. In poche parole, si può dire così: l’oligarchia è il regime del potere monopolizzato; la democrazia, del potere diffuso tra tutti o, almeno, tra il maggior possibile numero. Il fatto che il potere diffuso tra tutti o tra i grandi numeri sia un ideale, non realizzabile se non in momenti eccezionali e destinato a generare dal suo seno sempre nuove oligarchie, come la storia insegna, mostra innanzitutto una cosa: che la democrazia è un sistema di governo perennemente in crisi. Sul tema “crisi della democrazia”, in Italia e in altri Paesi, in ogni momento della loro storia democratica, sarebbe non difficile, ma impossibile fornire una bibliografia completa. L’essere in crisi è la sua condizione naturale. Se oggi ci interroghiamo in proposito, come se fosse una novità, è solo a causa di memoria corta.
Soprattutto, quell’ideale sempre insidiato non significa che la democrazia sia un falso scopo, come credono coloro che, ragionando sulla “natura del potere”21, sostengono che l’oligarchia, in una forma o in un’altra, è il destino d’ogni tempo e d’ogni popolo e tanto vale rassegnarsi e abituarvisi. Essi, così facendo, alla democrazia come ideologia, cioè come apparato di idee ingannatrici, finiscono per contrapporre un’altra ideologia, un’ideologia antidemocratica molto diffusa che accomuna reazionari e rivoluzionari. Sull’ostilità alla democrazia vi è una naturale concordanza,
21 Il riferimento più immediato è allo scritto recente di L. Canfora che porta questo titolo, Bari, Laterza, 2009.
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una coincidentia oppositorum, anche se poi le speranze ch’essi ripongono nelle “loro” oligarchie divergono.
Una concezione realistica della democrazia come regime dell’inclusione politica ci dice invece che, ammessa l’illusorietà della sconfitta definitiva delle oligarchie in un regime politico che non debba più con esse fare i conti, non è affatto insensato operare per ridurne il peso e la presa, cioè per combatterle e, con ciò stesso, diffondere la democrazia. In breve, la democrazia non è un regime consolidato, assestato, sicuro di sé. Dove c’è consolidamento, assestamento, sicurezza del sistema di potere, lì c’è in realtà oligarchia, anche se, eventualmente, sotto mentite spoglie democratiche. Democrazia è invece conflitto perenne per la democrazia e contro le oligarchie sempre rinascenti nel suo interno.
L’ideale democratico pienamente realizzato e dispiegato à la Rousseau, secondo la citazione che sta all’inizio di questo scritto, è irrealizzabile, ma l’aspirazione ad avvicinarvisi o a non allontanarvisi più di quanto già si sia lontani, cioè a difenderla, è tutt’altro che insensato. La democrazia è il regime in cui esistono le condizioni della democrazia. È un regime della possibilità, non della rassicurazione. Se poi si considera che la sua aspirazione è l’inclusione nella vita politica attiva, si comprende che l’ideale democratico dovrebbe essere l’ideale degli esclusi. La salvezza, in ultima istanza, viene dagli esclusi.
Quali siano le condizioni di possibilità della democrazia è ben noto: sono condizioni procedurali e condizioni sostanziali che si traducono in diritti di partecipazione e in diritti che condizionano, rendendola possibile ed efficace, la partecipazione politica. Se il diritto di voto non è riconosciuto a tutti, non c’è democrazia. Ma che cosa vale il diritto di voto senza la libertà
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di opinione politica, il diritto di fondare movimenti e partiti politici, il diritto di conoscere senza inganni la realtà delle questioni sulle quali si vota, il diritto di sapere chi sono coloro per i quali si vota e quali sono gli interessi effettivi che li muovono nella sfera politica, dietro quelli sbandierati pubblicamente? Che cosa vale il diritto di partecipare alla vita pubblica se non è garantito il diritto a condizioni di giustizia che consentano a tutti di disporre di tempo ed energie per dedicarsi, oltre che alle loro esigenze primarie di esistenza, alle questioni comuni? Che cosa vale la democrazia se i cittadini non sono nelle condizioni d’istruzione e cultura per comprendere la natura dei problemi su cui si esprimono e i contenuti delle proposte sottoposte al loro giudizio? Che cosa vale la loro partecipazione se coloro ai quali essi conferiscono il potere di governo sono in condizione di distorcerlo a fini personali, se non anche criminali? Che cosa è la democrazia senza controlli, senza indipendenza della magistratura e senza libertà della stampa, di critica, di satira politica?
Sono solo alcune delle domande (retoriche) che possono farsi sulle condizioni che permettono alla democrazia di essere qualcosa di serio, qualcosa per cui vale la pena di impegnarsi, di dare qualcosa di sé e della propria esistenza. Sono solo alcune domande, ma sufficienti a comprendere che la democrazia non è una formuletta astratta d’organizzazione politica, ma una concezione impegnativa della vita in comune.
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(Possibilità ed effettività della democrazia)
La democrazia è un insieme di diritti, dunque. Ma non basta. I diritti sono soltanto possibilità. Si possono fondare partiti e movimenti politici, ma se nessuno lo fa? Si può partecipare alla discussione dei problemi comuni, ma
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se nessuno crea le occasioni per discutere e se i discorsi non sono discussioni ma monologhi? Si può votare, ma se non si va a votare? Si possono pubblicare e leggere giornali, ma se nessuno li pubblica o nessuno li legge? Si può fare informazione politica senza censure, ma se ci si autocensura per piaggeria verso i potenti?
In breve, la democrazia è una cornice di possibilità ma, come è in ogni altra forma di governo, la cornice deve essere riempita di un ethos conforme. La Ciropedia di Senofonte era l’etica per il re di Persia; il Principe di Machiavelli, l’etica del despota rinascimentale; la Politica estratta dalle proprie parole della Sacra Scrittura di Bossuet, l’etica del sovrano delle monarchie assolute. Invece, per la democrazia, sembra che non esista un problema analogo; che i cittadini, una volta diventati tali, da schiavi e sudditi ch’essi erano un tempo, siano per natura portati a essere buoni sovrani di se stessi. Non è affatto così, come sappiamo dalla storia delle democrazia che si sono suicidate democraticamente, cioè attraverso le proprie stesse mani.
I classici insegnano che non bastano buone cornici politiche, cioè buone costituzioni, ma che occorrono anche uomini buoni che, dentro la cornice, agiscano secondo lo spirito del quadro, secondo il suo ethos. La migliore delle costituzioni nulla può se gli uomini che la mettono in pratica sono corrotti o si corrompono o, comunque, non ne sono a misura. La dottrina dei cicli costituzionali22, che accompagna fin dai primordi, come una maledizione, la riflessione sulle forme di reggimento politico, il loro sorgere, il loro decadere e il loro morire, è fondata sulla capacità corruttiva degli uomini circa le istituzioni e, quindi, in definitiva, sulla preminente importanza dei primi sulle seconde.
22 Ad es. Platone, Repubblica, VIII-IX ; Polibio, Storie, VI, 4; Cicerone, Repubblica, XLII-XLIII.
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In altro luogo, ho cercato di esporre per esteso, a partire dal senso comune, una specie di decalogo dell’etica democratica23: l’adesione a principi e valori, contro il nichilismo; la cura della personalità individuale, contro le mode, l’omologazione, il conformismo e la massificazione; lo spirito del dialogo, contro la tentazione della sopraffazione; il senso dell’uguaglianza e il fastidio per il privilegio; la curiosità e l’apertura verso la diversità, contro la fossilizzazione e la banalità, e contro la tendenza a guardare ogni cosa da una sola parte, la nostra; la diffidenza verso le decisioni irrimediabili che non consentono di ritornarci criticamente su; l’atteggiamento sperimentale, contro le astrazione dogmatiche; il senso dell’essere maggioranza e minoranza, dei compiti e delle responsabilità corrispettivi; l’atteggiamento di fiducia reciproca, che rifiuta non vede in ogni cosa complotti e in ogni avversario un capro espiatorio; infine, la cura delle parole.
Ciascuno di questi punti meriterebbe una trattazione particolare. Relativamente alla questione sviluppata in queste riflessioni, la corruzione della democrazia in oligarchia, il primo e l’ultimo meritano attenzione particolare.
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(Valori della democrazia)
La democrazia è un modo di stare insieme. Ma si può stare insieme al solo fine di stare insieme? Può lo stare insieme essere, al tempo stesso mezzo e fine? Se fosse così, non sarebbe la democrazia un puro non senso? In verità, si sta insieme in quanto esiste uno scopo comune. Scopo e senso coincidono.
23 Imparare democrazia, Torino, Einaudi, 2007.
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La democrazia, del resto, è per l’appunto quella forma di convivenza che si spiega e giustifica in quanto essa dà ai cittadini il diritto di agire per perseguire fini politici, ciò che è un altro modo di dire il senso dello stare insieme.
Per questo, la caduta delle idee generali, delle aspirazioni collettive, dei programmi politici, in una parola la diffusione dell’apatia, tutto ciò è nemico della democrazia. Prima o poi, essa sembrerà un peso, una complicazione. Caduta la tensione ideale, che cosa resterà? Resterà, questo sì, l’aspirazione all’autoaffermazione, cioè la lotta per il puro potere. Ma la lotta per il potere non sa che farsi della democrazia. La conquista del potere per il potere fa a meno della filosofia, delle idee generali, delle buone intenzioni, dei programmi; le idee vengono dopo, come copertura del potere acquisito. I fatti, l’azione, il movimento, il coraggio, lo sprezzo delle concezioni del mondo vengono prima di ogni giustificazione. All’inizio, pragmaticamente, c’è qualcosa per tutti, a condizione che, almeno, si sia condiscendenti al nuovo che avanza. Il potere nascente, secondo una prassi oramai troppo nota per non essere smascherata, ama presentarsi come “né di destra, né di sinistra”, oppure, simultaneamente di destra e di sinistra, onnicomprensivo, cioè inevitabilmente vuoto. «Ho orrore dei dogmi. Non potrebbe esservi un dogma nel Partito fascista»: parole del Mussolini del momento della conquista del potere, prima delle dottrine dello Stato etico24. Nelle fasi iniziali, la contraddizione è forza. La possibilità di affermare oggi quel che si era negato ieri e si negherà domani è la liberazione dagli impacci. Solo dopo, l’ideologia di Stato con i suoi sacerdoti e custodi, sarà il cemento spirituale del potere conquistato e costituito.
24 D. Mack Smith, Mussolini, Milano, Rizzoli, 1981, pp. 178 ss. e A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965, pp. 3 ss.
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La democrazia è libero confronto di idee e programmi. I suoi nemici sono, da un lato, il nichilismo del puro potere e, dall’altro, l’assolutismo della verità dogmatica. Il nostro tempo della democrazia è in bilico tra questi opposti pericoli, l’opportunismo e l’ideologia; oggi più l’opportunismo, domani forse più l’ideologia.
A onta delle confusioni concettuali, occorre dire che la democrazia, come forma d’insieme, è relativista25. Si fa confusione quando si sottopone il relativismo a una caccia alle streghe, come se equivalesse a indifferenza etica, a un “una cosa vale l’altra”, ad apatia morale: ciò cui meglio si addicono le parole indifferentismo o nichilismo. Il relativismo della democrazia consiste nel rifiuto, da parte delle istituzioni di abbracciare a priori una qualunque ideologia, una qualunque idea di verità assoluta, proprio perché solo in tal modo si consente il libero pensiero e lo sviluppo delle concezioni della vita buona che nascono dalla società, cioè le si consente di non essere nichilista. È il contrario, dunque, di ciò che dicono i suoi critici. Così inteso, il relativismo non è affatto la corruzione della democrazia, ma la sua linfa vitale26.
Naturalmente, l’affermazione del carattere relativista della democrazia incontra un limite in una sorta di principio di non contrattazione; essa non può essere relativista rispetto alle sue stesse premesse, ai principi su cui si basa. Qui deve valere l’assolutismo e la difesa intransigente dai pericoli che le vengono dai suoi nemici, coloro che si richiamano all’anti-democrazia. Anzi, una volta che la democrazia sia concepita non come pura procedura
25 Hans Kelsen, Vom Wesen und Wert der Demokratie, (1929) trad. it. La democrazia, Bologna, il Mulino, 1981, pp. 143 ss., 264 ss. e 452 ss.
26 Sull’uso ideologico della parola « relativismo » come arma contro la libertà di pensiero, riflessioni piane e chiarificatrici si trovano in A. Levi, Un paese non basta, Bologna, il Mulino, pp. 176-181.
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ma come sostanza di valori politici (l’uguaglianza e la giustizia sociale, la libertà, la solidarietà e l’inclusione sociale, la tolleranza, eccetera) può diventare essa stessa un fine di se stessa. Anzi, deve diventarlo, senza di che si trasformerebbe in un mezzo come un altro per la conquista del potere e l’abolizione della democrazia; un mezzo, in certe condizioni storiche, addirittura più invitante, perché meno violento di altri.
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(Le parole della democrazia)
Ogni forma di governo usa gli “argomenti” adeguati ai propri fini. Il dispotismo, ad esempio, usa la paura e il bastone per far valere il comando dell’autocrate27. La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono le parole. Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento delle società, le parole siano tanto importanti quanto lo sono in democrazia. Si comprende quindi che la parola, per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo.
Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i
27 Montesquieu, Esprit des lois, l. VIII, ch. XXI.
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posti entro le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l’esigenza di impadronirsi della lingua? Comanda chi conosce più parole. Il dialogo, per essere tale, deve essere paritario. Se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di altri, la vittoria non andrà all’argomento, al logos migliore, ma al più abile parolaio, come al tempo dei sofisti. Ecco perché la democrazia esige una certa uguaglianza – per così dire - nella distribuzione delle parole. “E’ solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno” 28. Ecco anche perché una scuola ugualitaria è condizione necessaria, necessarissima, della democrazia.
Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il confronto delle posizioni sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole con e su altre parole; no al profluvio che logora e confonde. Esemplare è la prosa di Primo Levi. Uno dei pericoli maggiori delle parole per la democrazia è il linguaggio ipnotico che seduce le folle, ne scatena la violenza e le muove verso obbiettivi che apparirebbero facilmente irrazionali, se solo i demagoghi non li avvolgessero in parole grondanti di retorica.
Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Impariamo da Socrate: “Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito”; “il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i
28 Lettera a una professoressa, Lib. Ed. fiorentina, Firenze, 1967, p. 96..
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tempi”29, il che significa innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l’ignoranza forza30. E significa affermare la sovranità della “cosa” detta sulla “sovranità della parola”, separata dalla sua verità e trasformata così in mezzo onnipotente di sottrazione al discorso del suo contenuto di verità. Il tradimento della parola deve essere stata una pratica di sempre, se già il profeta Isaia, nelle sue “maledizioni” (Is 5, 20), ammoniva: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro».
I luoghi del potere sono per l’appunto quelli in cui questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare proprio dalla parola “politica”. Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano il vivere insieme, il convivio. E’ l’arte, la scienza o l’attività dedicate alla convivenza. Ma oggi parliamo normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale, di politica espansionista degli stati, di politica coloniale, ecc. “Questa è un’epoca politica – si è detto31 -. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare”. Il detto di Clausewitz32: “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” – che colloca, sì, la guerra in un contesto politico, ma la qualifica espressamente come mezzo diverso da quelli politici – è diventata un lasciapassare per un radicale tradimento del concetto: la celebre definizione di Carl Schmitt, ripetuta alla nausea, della politica come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità
29 Fedone, cit., LXIV e LII, pp. 107 e 99.
30 G. Orwell, Nineteen Eigthy-Four (1949), trad. it. 1984, in Romanzi, vol. II, Milano, Mondadori, 1994, pp. 1087 ss.
31 G. Orwell, Writers and Leviathan (1948), in England Your England, London, Secker & Warburg, 1954, p. 17.
32 G.E. Rusconi, Clausewitz, il prussiano, Einaudi, Torino, 1999, p. 3.
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assoluta tra parti avverse33 è forse l’esempio più rappresentativo di questo abuso delle parole. Qui avremmo, se mai, la definizione essenziale non del “politico” ma, propriamente, del “bellico”, cioè del suo contrario. Ancora: la libertà, nei tempi nostri avente il significato di protezione dei diritti degli inermi contro gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo sacro dietro il quale proprio costoro nascondono la loro pre-potenza e i loro privilegi. La giustizia, da invocazione di chi si ribella alle ingiustizie del mondo, si è trasformata in parola d’ordine di cui qualunque uomo di potere si appropria per giustificare qualunque propria azione. E ancora, ancora: legge di mercato per sfruttamento; economia sommersa per lavoro nero; guerra preventiva per aggressione; pacificazione per guerra; governare per depredare; deserto per pace34. Quanto alla parola democrazia, già abbiamo constatato i rovesciamenti di significato quando la si definisce come governo del, per o attraverso il popolo.
Da questi esempi si mostra la regola generale cui questa perversione delle parole della politica: il passaggio da un campo all’altro, il passaggio è dal mondo di coloro che al potere sono sottoposti a quello di coloro che del potere dispongono e viceversa. Un uso ambiguo, dunque, di fronte al quale a chi pronuncia queste parole dovrebbe sempre porsi la domanda: da che parte stai ? Degli inermi o dei potenti?
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(La verità dei fatti)
33 In proposito, R. Sternberger, La parola politica e il concetto di politica, in Id., Immagini enigmatiche dell’uomo, il Mulino, Bologna, 1991, pp. 151 ss.
34 Questi ultimi spunti in I. Dionigi, Cittadini della parola, in D. Del Giudice, U. Eco, G. Ravasi, Nel segno della parola, Milano, Rizzoli, 2005, 15. Le due ultime trasformazioni delle parole sono una citazione del celeberrimo: ‘il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano imperium, e dove fanno il deserto lo chiamano pace’ di Tacito (Agricola 30, 4).
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Affinché sia preservata l’integrità del ragionare e la possibilità d’intendersi onestamente, le parole devono inoltre, oltre che rispettare il concetto, rispettare la verità dei fatti. Sono dittature ideologiche i regimi che disprezzano i fatti, li travisano o addirittura li creano o li ricreano ad hoc. Sono l’estrema violenza nei confronti degli esclusi dal potere che, almeno, potrebbero invocare i fatti, se anche questi non venissero loro sottratti. Non c’è manifestazione d’arbitrio maggiore che la storia scritta e riscritta dal potere. La storia la scrivono i vincitori – è vero - ma la democrazia vorrebbe che non ci siano vincitori e vinti e che quindi, la storia sia scritta fuori delle stanze del potere, non in quelli che ancora Orwell definiva i “ministeri della verità”. Sono regimi corruttori delle coscienze “fino al midollo”, quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un relativismo nichilistico applicato non alle opinioni ma ai fatti, quelli in cui la verità è messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello dell’ingiusto, il bene su quello del male; quelli in cui la “realtà non è più la somma totale di fatti duri e inevitabili, bensì un agglomerato di eventi e parole in costante mutamento, nel quale oggi può essere vero ciò che domani è già falso” secondo l’interesse al momento prevalente35. Onde è che la menzogna intenzionale, cioè la frode – strumento che vediamo ordinariamente presente nella vita pubblica – dovrebbe trattarsi come crimine maggiore contro la democrazia, maggiore anche dell’altro mezzo del dispotismo, la violenza, che almeno è manifesta. I mentitori dovrebbero considerarsi non già come abili, e quindi perfino ammirevoli e forse anche simpaticamente spregiudicati uomini politici ma come corruttori della politica.
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(Democrazia e filologia)
35 Così H. Arendt, The Aftermath of Nazi-Rule. Report from Germany [1950], trad. it. Ritorno in Germania, Roma, Donzelli, 1996 p. 30, per descrivere la situazione morale di un popolo asservito e assuefatto alla propaganda menzognera.
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La cura delle parole in tutti i suoi aspetti è ciò che Socrate definisce filologia. Vi sono persone, i misologi, che «passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi divenuti i più sapienti di tutti per aver compreso essi soli che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c’è nulla di sano o di saldo, ma tutto […] va su e giù, senza rimanere fermo in nessun punto neppure un istante». Questo sospetto che nel ragionare non vi sia nulla di integro c’è un grande pericolo, che ci espone a ogni genere d’inganno. Le nostre parole e le cose non devono “andare su e giù”. Occorre un terreno comune oggettivo su cui le nostre idee, per quanto diverse siano, possano poggiare per potersi confrontare. Ogni affermazione di dati di fatto deve essere verificabile e ogni parola deve essere intesa nello stesso significato da chi la pronuncia e da chi l’ascolta. Chi mente sui fatti dovrebbe essere escluso dalla discussione. Solo così può non prendersi in odio il ragionare e può esercitarsi la virtù di chi ama la discussione.
Una volta stabilito il terreno comune, allora non intestardirsi, né lasciar correre ma confrontare le posizioni con l’atteggiamento spirituale che ancora Socrate ci indica quando dice che chi ama il dialogo si rallegra d’esser scoperto in errore, cioè di avere constatato che la sua visione iniziale delle cose era unilaterale, dunque difettosa. E’ stato detto con ragione che “nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua piena realtà tutto ciò che è obbiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se si vuole vedere ed esperire il mondo così com’è ‘realmente’, si può farlo solo considerando una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive.
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Soltanto nella libertà di dialogare il mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni lato”36. Il che è tanto più vero in quanto complessa è la realtà delle odierne società e complicata la sfida che ne viene alla democrazia.
Se di solito, invece, di fronte a posizioni diverse dalle nostre, reagiamo malamente, consideriamo una sconfitta, addirittura un’umiliazione, l’essere colti in fallo, se quella virtù non dunque affatto in onore, è perché ci lasciamo dominare da orgoglio, vanità, protervia, partito preso: tutte cose che non hanno a che fare con l’etica della democrazia. Se non possiamo ricordare un solo caso di uomo politico che abbia pubblicamente riconosciuto le buone ragioni del proprio interlocutore e ammesso il suo errore o torto, allora dobbiamo tristemente prendere atto della distanza che separa la concezione della politica di chi ci governa dalla democrazia.
* * *
Mi pare di avere argomentato a sufficienza la tesi che la democrazia non è soltanto un abito esteriore di regole, ma è anche un atteggiamento interiore che dà corpo alle istituzioni; che non c’è democrazia senza un ethos conforme e diffuso; che lo scheletro, fatto di regole, è importante ma non sufficiente; che la più democratica delle costituzioni è destinata a morire, se non è animata dall’energia che è compito dei cittadini trasmetterle. L’art. 1 della Costituzione definisce l’Italia una repubblica democratica. È una norma dal doppio volto: per una parte, è una descrizione della forma politica, delle istituzioni democratiche; per l’altra parte, è una norma programmatica che invita all’azione per la democrazia. Istituzioni e azione
36 H. Arendt, Che cos’è la politica?, cit., p. 40. Nelle parole di Hannah Arendt risuona la considerazione del Corifeo nell’Antigone di Sofocle, in cui è racchiusa una chiave interpretativa dell’intera tragedia: “questo prodigio del destino considero da ogni lato” (es daimónion téras amphinoò tóde) (v. 376-7), dove si esprime l’esigenza di apertura alla comprensione sia della complessità delle cose umane, sia della parte di verità che ciascuna delle ragioni unilaterali può contenere in sé.
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sono ugualmente indispensabili. Due sono i modi di prosciugare la democrazia: chiuderne le condotte e spegnerne il desiderio. Rendersi conto di questa implicazione che ci riguarda tutti e mette in gioco le nostre responsabilità è lo scopo e il presupposto di ogni discorso sulla e per la democrazia.

In coda per ascoltare Amato e le altre star della Biennale

http://www.lastampa.it/Torino/cmsSezioni/biennaledemocrazia/200904articoli/10291girata.asp

In coda per ascoltare Amato e le altre star della Biennale
MARCO CASTELNUOVO
TORINO
Dicono che la politica non interessi più. E invece. La dimostrazione ieri a Torino in piazza Carignano, davanti al maxischermo che non riporta, come al solito, le partite dei Mondiali, ma la lectio di Gustavo Zagrebelsky la mattina o la prolusione di Giuliano Amato nel pomeriggio o la lectio di Alain Touraine la sera. Ad ascoltare ragazzi che prendono appunti, donne in bicicletta che si fermano, anziane che appoggiano i sacchetti della spesa. Persone, insomma. In fondo, è questa l’essenza della democrazia.

Lo spiega bene Giuliano Amato, per nulla sorpreso dalla gente in coda che aspetta, se mai riuscirà, di accaparrarsi un posto dentro il teatro dove l’ex premier discuterà di democrazia deliberatva con il sociologo norvegese Jon Elster e il professore americano John Gastil. Non proprio due vip che trascinano le folle. «Per me non è certo una novità - dice Amato mentre saluta la gente in fila composta -. Anche al festival dell’Economia di Trento, a quello del Diritto di Piacenza o della Letteratura a Mantova, vedo le stesse scene. C’è sempre tanta gente, e di anno in anno sempre di più, in piazza a seguire. Dove le persone possono conoscere, imparare, discutere, ecco che la politica torna a essere passione».

In fondo, è il cuore stesso del tema affrontato da Amato con Elster e Gastil: la democrazia deliberativa. Dove per «deliberativa» non si intende «che decide», quindi non è «volontà del popolo», ma «discussione». Si fa spesso confusione sulla democrazia deliberativa. Per molti politici è utile per fare digerire meglio decisioni già prese (per esempio, la Tav) o quando, davanti a questioni problematiche, si fa fatica a raggiungere una soluzione soddisfacente e si tende così a procrastinarla (il testamento biologico).

Per Gastil il ragionamento va rovesciato: «Il dibattito pubblico deve assicurare che ogni partecipante abbia adeguate occasioni di espressione, che i partecipanti si capiscano reciprocamente e mostrino la dovuta considerazione gli uni per gli altri. Il dibattito dovrà essere deliberativo, cioè stabilire una solida base informativa, elencare in ordine di priorità i valori chiave, identificare un ventaglio di soluzioni, studiare attentamente vantaggi, svantaggi e compromessi tra le tante scelte possibili e infine raggiungere la decisione migliore».
Il segno più evidente di quanto si sta raccontando tra i velluti del Teatro Carignano rimbalza sui porfidi della piazza. Le persone che guardano al maxischermo cominciano a discuterne, a dialogare.

Per Giancarlo Bosetti, direttore di Reset e moderatore del dibattito, basta questo a decretare il successo: «L’ideale di una cittadinanza che discute con competenza è lontano dalla democrazia reale. La democrazia deliberativa cerca di migliorare le conoscenze dell’opinione pubblica e alzare la qualità del dibattito».

Teoria e prassi si mescolano, per la soddisfazione di Amato: «Quando la politica si fa comunicazione e i cittadini diventano tifosi, allora la rappresentazione non può che essere quella che leggiamo sui giornali. Ma il pensiero e i dilemmi dell’uomo non possono certo ridursi alla polemica quotidiana. Le persone hanno bisogno di capire, di conoscere, d’imparare. Per dare un giudizio, che si riflette nel voto, nella militanza, o in altro, in modo più cosciente». Nel mondo esempi di democrazia deliberativa ce ne sono moltissimi, dagli Stati Uniti all’Australia. In Italia ci sono esperimenti in Lazio e in Toscana. E a Torino, evidentemente. A partire da questa piazza.

Marx-Stuart Mill, un duello all’ultimo bicchiere

http://www.lastampa.it/Torino/cmsSezioni/biennaledemocrazia/200904articoli/10295girata.asp

Democrazia rappresentativa o partecipativa?
Un dialogo immaginario tra i due pensatori
PAUL GINSBORG
Terza giornata della Biennale Democrazia, che prosegue fino a domenica a Torino. In questa pagina anticipiamo uno stralcio del testo che Paul Ginsborg ha preparato per dopodomani.

MILL: «Grazie di aver accettato il mio invito. È un onore per me».
MARX: «L’onore è tutto mio. L’oggetto della nostra conversazione sarà la democrazia, vero?».
MILL: «Proprio così. E se me lo consente andrò io per primo a illustrare la mia tesi. Sono un convinto fautore del governo rappresentativo. In definitiva nulla è più auspicabile dell’ammissione di tutti ad avere parte attiva al potere sovrano dello Stato. Ma poiché in una comunità che ecceda le dimensioni del piccolo centro urbano è impossibile che tutti partecipino in prima persona se non in misura assai ridotta all’attività pubblica, ne consegue che il modello ideale del governo perfetto deve essere rappresentativo. I parlamenti delle nostre nazioni devono fondarsi, per quanto possibile, su una rigida rappresentanza proporzionale, così che la totalità delle opinioni dei cittadini, e in particolare quelle delle minoranze, trovino voce in seno alle istituzioni del paese. Esiste, e in questo mi trovo d’accordo con Monsieur De Tocqueville quando scrive della giovane democrazia americana, esiste, dicevo, il grave rischio che si instauri una nuova tirannia, quella della maggioranza parlamentare. Il parlamento ha il dovere di essere al contempo il Comitato di protesta della nazione e il suo Congresso di opinioni, un ampio consesso in cui non solo l’opinione generale della nazione, ma quella di ogni sua componente, e per quanto è possibile di ogni illustre individuo che vi risieda, può propagarsi alla luce del sole e stimolare il dibattito \».
MARX: «Si è mai visto un parlamento borghese che somigli vagamente a questa idea? È un’ipotesi utopistica».
MILL: «Detto da lei, caro dottor Marx, lo prendo come un complimento. Ma se me lo consente vorrei aggiungere due altre riflessioni. La prima è che le donne dovrebbero votare per questo parlamento al pari degli uomini. \ Il secondo principio è che il passaggio del suffragio, dalla base attuale ristretta al suffragio universale esteso a tutti gli uomini e le donne adulti, dovrebbe avvenire per gradi. \ Tutti devono votare, se non oggi, in un futuro non troppo lontano. Ai nostri rappresentanti in parlamento spetta il compito di discutere e deliberare \. Ma l’azione - il governo e la gestione del paese - devono essere sempre opera di una piccola élite responsabile. La direzione effettiva della cosa pubblica dev’essere affidata a un’élite non eletta - un ristretto numero di uomini illustri, qualificati, preparati da una educazione e da una esperienza particolari, personalmente responsabili di fronte alla nazione. In poche parole questa è la mia visione della moderna democrazia».
MARX: «Siamo lontani, Mr. Mill. \ A mio giudizio la democrazia parlamentare come l’ha appena descritta è un’impostura. Non è che il sofisma dello Stato politico. Lei reputa la democrazia un sistema meramente politico sganciato dalla sfera economica. Ma non può esistere vera democrazia finché le due sfere - economica e politica - non si intersecano in modo che l’individuo mantenga in entrambe gli stessi diritti e lo stesso potere. Vediamo come agisce l’elettore nel suo sistema. Per un giorno - no, nemmeno, per un attimo - indossa la sua “pelle del leone” e va alle urne. Per un momento è uguale a tutti gli altri uomini, a tutti i cittadini di una determinata nazione. Ma è una condizione effimera. Subito dopo torna alla sua vera essenza, torna alla sua vera identità che non è quella politica, torna un semplice proletario, o contadino, o piccolo artigiano o ricco capitalista. Il vero potere resta nelle mani di quest’ultima classe, quella capitalista, e lo Stato non è altro che un comitato che gestisce gli affari di tutta la borghesia. \ Perché le cose cambino davvero deve avvenire una trasformazione rivoluzionaria che conduca alla democrazia economica nonché politica».
MILL: «Avrà forse notato che nella terza edizione del mio Principi di economia politica, quella del 1852, ho inserito un passaggio sulle cooperative dei lavoratori, considerandole l’auspicabile futura forma di organizzazione della produzione industriale. È un passo verso l’idea di una redistribuzione finale della proprietà su base più equa e a vantaggio delle classi lavoratici».
MARX: «Sì, è interessante, ma non basta. Tra noi c’è un abisso. Lei è un grande ammiratore di Atene, ma è convinto che nella società moderna l’unica possibile democrazia sia quella rappresentativa. A mio giudizio la democrazia partecipativa è una forma superiore di democrazia, altamente realizzabile. Sotto questo aspetto la Comune di Parigi del 1871, quella breve insurrezione radicale che ha travolto la capitale francese nel periodo immediatamente successivo alla guerra franco-prussiana, costituisce l’embrione di un nuovo, più avanzato sistema di organizzazione politica. La Comune secondo me fornisce a una repubblica moderna la base di istituzioni realmente democratiche. È la forma politica finalmente scoperta nel cui ambito si può sviluppare l’emancipazione economica della classe operaia. Il potere viene decentralizzato, i cittadini partecipano attivamente al processo decisionale, i delegati hanno retribuzioni pari al salario degli operai e possono essere rimossi dall’incarico dai loro elettori, una milizia popolare si sostituisce all’esercito ecc. Ecco il modo in cui la Comune di Parigi è la storica dimostrazione che la democrazia diretta, lungi dall’essere attuabile solo in un piccolo centro, come sostiene lei, può essere realizzata in una grande città, e il modello parigino avrebbe potuto essere imitato in una nuova Francia federalista. Nella Comune di Parigi la democrazia economica, è vero, non ha avuto compiuta realizzazione ma la sfera politica, quella sì, è stata avvicinata ai bisogni e al controllo della popolazione nel suo complesso. I comunardi non hanno avuto tempo di stabilire cosa fosse necessario alla sopravvivenza della Comune - una vera dittatura del proletariato, cioè il dominio di classe democratico della stragrande maggioranza della popolazione. Questa dittatura in sé non rappresenta altro che una fase di transizione verso l’abolizione di tutte le classi e una società senza proprietà privata.

domenica 19 aprile 2009

Interpretare e agire nella crisi strutturale e sistemica

http://www.granma.cu/italiano/2009/abril/juev9/vasapallo.html

Con la “cassetta degli attrezzi” di Marx

Luciano Vasapollo *

1. Le attuali politiche economiche neoliberiste , a partire da quelle del Keynesismo militare realizzate nell’economia di guerra prima-durante-dopo gli eventi delle guerre guerreggiate, sono un tentativo del capitale di risolvere, meglio di nascondere, la grande crisi di accumulazione a carattere ormai strutturale che si presenta con tutta la sua forza già dagli anni ’70, determinando così la struttura e le dinamiche anche dell’attuale modo di presentarsi della competizione globale tra imprese, tra paesi e tra blocchi geoeconomici e geopolitica, cioè tra poli imperialisti . Mentre fino agli ’70 Keynes e la pianificazione economica hanno influenzato l’economia, dagli anni ’80 e ’90 il monetarismo e tutto l’impianto neoliberista hanno dominato il mondo governandolo con “il mercato senza vincoli” .
Nel tentativo, impossibile, vista la sua natura strutturale, di uscire dalla crisi che si protrae ormai da oltre 35 anni, più concretamente di non voler prendere atto e fare i conti con le vere cause sistemiche, i capitalismi internazionali hanno usato la finanza in maniera sovrastrutturale ma anche sostitutiva in chiave speculativa per supplire alle forti difficoltà dei processi di accumulazione del capitale. In questo senso si è giunti ad una prevalenza e autonomizzazione, fino ad un vero dominio dei processi della finanza speculativa proprio per tentare di recuperare l’insufficiente produzione di plusvalore in relazione alla sovrapproduzione di merci e di capitali, o meglio alle loro relazioni di valorizzazione con una significativa crisi di accumulazione del capitale internazionale.
E’ con il neoliberismo in particolare da fine degli anni ’70 che nella politica economica assume un peso determinante il settore finanziario e i processi speculativi attraverso la deregolamentazione finanziaria, voluta dia governi Reagan e Tatcher ,che ha eliminato ogni restrizione ai movimenti del capitale, in particolare di quello fittizio, realizzando in questo caso si la globalizzazione ma non la globalizzazione delle economie in generale ma semplicemente la globalizzazione finanziaria. Sono state così abbattute le riserve bancarie di garanzia , si sono moltiplicati i paradisi fiscali, si è permessa la proliferazione della finanza creativa e della possibilità di scommettere in Borsa non solo sui flussi degli strumenti finanziari ma anche sulle materie prime, sui tassi di cambio, sugli alimenti generando speculazioni per permettere il guadagno facile , cioè la rendita speculativa,, e quindi la determinazione dei prezzi con superprofitti su petrolio, grano, mais,disinteressandosi completamente del fatto che tali guadagni significassero poi fame, miseria e distruzione per interi continenti.
In tal modo si trasferisce inoltre possibilità di investimento nell’economia reale in facile e apparentemente più redditizio collocamento speculativo finanziario , distruggendo volutamente in tal modo il capitale in eccesso a fini produttivi.
L’economia dominante, e in generale quella ortodossa e convenzionale, compresa l’impostazione keynesiana, assume la crisi come evento anomalo e eccezionale, non solo per la rarità della frequenza ipotizzata ma perché si suppone un modello macroeconomico di equilibrio, e quindi, un sistema supposto regolare e prevedibile sia nei comportamenti degli operatori economici sia appunto, negli stessi assetti sistemici. All’interno di tale logica si suppone, altresì, una netta separazione fra l’economia reale e l’economia finanziaria; conseguenza di ciò è che la crisi finanziaria avrebbe una sua dinamica da cui ne conseguirebbe una eventuale crisi dei fondamentali dell’economia, così come voluti e imposti dalle leggi del modo di produzione capitalista.
A tale impostazione spesso si rifanno anche molti economisti che si autodefiniscono marxisti e che hanno ormai da tempo abbandonato la “cassetta degli attrezzi marxiana” per portare avanti quella operazione teoricamente infondata, ma politicamente pagante alla cosiddetta sinistra radicale, di conciliare Marx e Keynes. Così però si elogia come una sorta di oppositore di sistema, soltanto Keynes, sia esso, a secondo delle necessità utilizzato attraverso le ricette del keynesismo a carattere più o meno sociale, o del keynesismo militare e le altre sue possibili varianti del sostenimento del sistema impresa. In tal modo si arriva a confondere le riforme di struttura con il rifomismo, nella migliore delle ipotesi, la strategia con la tattica, arrivando all’inverso a trattare la tattica come strategia, sia sul piano politico-economico sia direttamente sul piano più strettamente politico, abbandonando cioè la strategia politica chiave e ultima del conflitto di classe che deve da subito e sempre porsi sul terreno del superamento del modo di produzione capitalista e su percorsi di costruzione del socialismo.
E allora basta con gli imbrogli , ed esplicitiamo, chiaramente, come abbiamo sempre fatto, perché la fede in Keynes è semplicemente la dimostrazione della subalternità della sinistra anche radicale alle idee della democrazia politica ed economica imposta dal modo di produzione capitalista e le ipotizzate soluzioni della crisi sono tutte compatibili alla riproduzione e continuazione del sistema capitalista stesso.
2. Spieghiamoci meglio e facciamo riferimento a nostri scritti ( si veda tra gli ultimi Vasapollo L. “Trattato di Economia Applicata. Analisi Critica della Mondializzazione Capitalista”; Jaca Book , Milano, marzo 2007) , e per dir la verità di pochi altri come ad esempio Gianfranco Pala, Mino Carchedi e Maurizio Donato, in cui andiamo dicendo da oltre quindici anni il perché la globalizzazione è l’attuale fase della mondializzazione capitalista e quindi il modo di presentarsi dell’imperialismo, e marxianamente che la “normalità” della crisi ha assunto tutti i caratteri ,ormai da oltre 35 anni di crisi strutturale di accumulazione e valorizzazione del capitale.

Da quando Marx parlò per la prima volta di crisi economiche del sistema capitalista forse se ne sono realizzate oltre cento, ma con caratteristiche diverse, con più o meno grandi decelerazioni della crescita quantitativa, con più o meno grandi distruzioni di forza lavoro con disoccupazione e precarietà, con più o meno grandi distruzioni del capitale, in particolare da quando la finanziarizzazione ha assunto una importanza sempre più centrale. E’ proprio con tale ruolo centrale della finanza le crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo esplodono in una forma non prevista ai tempi di Marx ,poiché lo scoppio delle bolle finanziarie nel danneggiare le possibilità di credito all’investimento e al consumo provocano maggiormente significativi crolli della domanda reale che possono sfociare, come nella crisi attuale, in determinanti strutturali e sistemiche.
L’economia reale considerata efficiente e in equilibrio non può essere separata dall’economia finanziaria poiché il capitale finanziario e il capitale cosiddetto produttivo trovano unità nelle multinazionali, nelle holding, nelle interconnessioni fra sistemi industriali, e delle imprese di produzione di beni e servizi in generale, e sistema bancario, società finanziarie e assicurative . L’imperialismo è il frutto della “combinazione”, della “simbiosi” (è un’idea di Bucharin) del capitale bancario e di quello industriale.
3. Oltre all’innovazione di processo e di prodotto è chiaro anche che un’immissione di attività finanziarie, e quindi il poter acquisire da parte degli imprenditori capitali materiali, immateriali e beni e servizi intermedi attraverso l’indebitamento, fanno si che anche in questo caso si realizzi sovrapproduzione di capitali e, tramite il debito estero, fondamentale nell’attività di import-export si realizzi al contempo una sovrapproduzione di merci. Le dimensioni raggiunte dai complessi imprenditoriali multi(trans)nazionali sono enormi.
Nonostante questo “volume di fuoco”, le imprese transnazionali non riescono sempre a fare fronte, a mezzo di “autofinanziamento”, alle enormi spese di investimenti e costi cui sono sottoposti: per lo più devono ricorrere a “fonti esterne” di finanziamento. Immancabilmente trovano il potere finanziario pronto a concedere prestiti “interessati” di medio-lungo periodo. Le banche, ma oggi anche le assicurazioni e i cosiddetti “investitori istituzionali” (Fondi Pensione, Fondi Investimento), sono degli enormi “forzieri” di denaro non investito. Hanno la necessità di “far fruttare” la propria liquidità e per farlo, oltre alla speculazione borsistica di vario tipo (che non crea ricchezza, ma al meglio può essere considerata un “gioco a somma zero”, dove chi perde cede ad un altro la proprio quota di ricchezza complessiva “giocata” nei mercati dei titoli e monetari di tutto il mondo, ma senza appunto creare nulla di nuovo), possono investirli nel settore produttivo per valorizzare la propria massa di denaro che altrimenti resterebbe capitale non valorizzato in termini di accumulazione.
La funzione principale del sistema bancario-finanziario è proprio quella di rendere disponibile al capitale , attraverso il sistema del credito e finanziario ,una somma enorme di denaro che sarebbe non valorizzabile ed utilizzarlo per estendere il proprio potere su scala mondiale tramite investimenti diretti esteri, partecipazioni e finanziamenti innumerevoli.
Quindi , quella finanziaria e produttiva sono semplicemente due funzioni del capitale che sempre più spesso convivono nello stesso operatore economico anche nella commistione fra attività tecnico-materiali e attività di speculazione finanziaria, in particolare in questi ultimi 25 anni con la deregolamentazione del sistema finanziario e con l’utilizzo dei cosiddetti strumenti della finanza allegra e creativa.
4. La via di uscita per la gestione della crisi è sembrata essere solo quella di marciare attraverso la finanziarizzazione e secondo i parametri del sostenimento della domanda e del dominio capitalistico in una sorta di "maccartismo globalizzato" e di una nuova fase keynesiana. Cioè sviluppare ancora una volta un keynesismo militare come tentativo di risolvere, o almeno gestire, la crisi.
Non è un caso che si guardi al passato, quando ad esempio la crisi economica di fine ’800 trova la sua soluzione nella prima guerra mondiale successiva alla “belle epoque” e chiudendo la fase dell’imperialismo inglese. La crisi dei primi anni ’20 trova la sua manifestazione più evidente nello scoppio della bolla finanziaria del ’29 che colpisce le capacità di credito e fa precipitare la domanda reale, e non viene certo risolta semplicemente con il New deal nel 1933 ma trova soluzione definitiva con la seconda guerra mondiale , quando si chiude l’era del predominio tedesco anche attraverso la sua esplicitazione politico-economica del nazismo; si apre così la fase di ricostruzione del dopoguerra che mette al centro il potere politico ed economico degli Stati Uniti.
In questi ultimi anni gli Stati Uniti sono tornati ad avere una quota intorno ad oltre un quarto del PIL globale, grazie alle spese militari. Gli USA sono consapevoli che senza egemonia militare non potrebbero imporre al mondo il finanziamento dei loro deficit, che gli consente di mantenere la loro posizione-guida anche in campo economico ma in maniera del tutto artificiale, fittizia, senza alcuno stabile e strutturale retroterra in alcun fondamentale macroeconomico.
Mentre gli altri poli geoeconomici, rappresentati dal Giappone, o meglio dalla variabile asiatica, e dall’UE, infatti hanno privilegiato un avanzamento nel campo economico, gli USA, invece, sono sottoposti a pressioni dovute alle scelte di investimenti militari che portano ad accrescere sempre di più il rapporto tra spesa militare e PIL; questo perché solo attraverso l’economia di guerra gli USA sperano di uscire da una crisi di accumulazione senza precedenti. E non si dimentichi che la crescita del PIL degli USA è stata sostenuta per oltre i due terzi dall’economia di guerra. Una diminuzione delle spese militari negli USA comporterebbe oggi una profonda e ancora più acuta crisi dell’intero sistema economico americano e aggraverebbe la già sistemica e violenta crisi economica, arrivando a livelli forse peggiori di quella del ’29 (crisi risolta anche allora con la crescita degli armamenti nel corso della seconda guerra mondiale e anche dopo).
Se con la guerra all’Iraq si manifesta in tutta la sua complessità la competizione globale questa era esplosa già con l’avvento dell’euro, togliendo il monopolio al dollaro nelle relazioni internazionali, con forte capacità attrattiva dei capitali internazionali e con l’inglobamento dei mercati dell’Est europeo e tendenzialmente con la forte ambizione espansionistica nell’Eurasia allargata.
Pertanto, la competizione globale rappresenta il nuovo sistema di sfruttamento tecnologico, scientifico, economico e sociale su scala mondiale, che evidenzia il modo attuale di presentarsi della divisione internazionale del lavoro e le diseguaglianze tra le classi, in un ambito di conflitti interimperialistici economico-finanziari-commerciali e guerreggiati.
5. Per realizzare dalla produzione il plusvalore, in particolare in una situazione di competizione globale fra imprese e fra aree valutarie, monetarie e produttive, è chiaro che, attraverso le dinamiche di innovazione di processo e di prodotto, si può sopravvivere in termini concorrenziali,realizzando quantità maggiori di prodotto con meno lavoro rispetto alle tecnologie precedenti e andando sul mercato anche a prezzi più bassi e ottenendo più bassi saggi di profitto.
Tale riduzione del saggio di profitto a causa di una sovrapproduzione di capitali può essere contrastata svalutando o distruggendo il capitale in eccesso, accettando di diminuire il plusvalore in modo da ripristinare il “gradito” saggio di profitto. In questo senso nascono settori di produzione del tutto nuovi, nuovi modi di fornire servizi finanziari, nuovi mercati e, principalmente, processi economico-produttivi caratterizzati da tassi molto più elevati di innovazione commerciale, tecnologia e organizzativa. L’accelerazione del ciclo di produzione implica una parallela accelerazione negli scambi e nel consumo.
La maggiore produttività del lavoro e del capitale insita ai processi di innovazione tecnologica riduce il lavoro necessario medio sociale per realizzare il singolo prodotto, e quindi in termini marxiani ne riduce il valore. Tali processi aumentano quindi la presenza del capitale fisso nel ciclo produttivo e riducono il tempo di lavoro necessario, quindi il capitale variabile, che anche se dovesse crescere in termini assoluti si riduce ovviamente in termini relativi rispetto al capitale costante o fisso.
La ristrutturazione d’impresa e la riconversione dei cicli e dei modelli produttivi, con gli intensi processi di terziarizzazione a causa di una deindustrializzazione imposta dai “nuovi assetti anticrisi” portano allo sviluppo del cosiddetto postfordismo. Un tentativo di superare la crisi attraverso la scomposizione della classe operaia che vive in quelle aree e settori più avanzati, maggiormente incentrati in fasi di produzione ad alto valore aggiunto, con forte presenza di diverse tipologie di servizi e in ambienti economico-produttivi fortemente terziarizzati, con uso massiccio del capitale intangibile e messa diretta a produzione delle risorse legate ai processi comunicativi. Si ha così una particolare realizzazione di dinamiche di accumulazione flessibile caratterizzate anche fortemente dal capitale immateriale che muta la stessa struttura produttiva di mercato e sociale.
La riduzione di lavoro necessario in termini relativi di conseguenza riduce il saggio di profitto del capitale immesso in circolazione nei cicli di produzione , riproduzione. L’aumento di competitività concorrenziale, attraverso le innovazioni di processo e di prodotto, l’aumento del capitale fisso e diminuzione relativa di forza lavoro fa sì che la contraddizione che alimenta la caduta del saggio del profitto tenda a riproporsi su scala allargata e le spinte alla determinazione di una nuova fase della mondializzazione economico-produttiva si tramutino nell’attuale realtà della competizione globale. Ne segue che sempre più grande risulta essere la massa di capitale che non trova sufficiente remunerazione, valorizzazione, nei normali processi produttivi di gestione tipica-caratteristica e si sposta verso la speculazione finanziaria. Questa è infatti una delle caratteristiche che ha assunto l’attuale fase della cosiddetta globalizzazione neoliberista nel tentativo di risolvere la crisi, o meglio prolungarne più possibile l’agonia, nascondendo ciò che fin dagli inizi si intuiva , cioè che che portava in sé caratteri strutturali.
6. Ecco perché parliamo da tempo di crisi strutturale irrisolta fomentata e allargata attraverso la deregulation finanziaria che ha determinato una sorta di dominio del capitale fittizio, ma non una sua esclusività né tanto meno si potrà mai dire che tale forma di capitale sia mai stato elemento fondante o precursore dei processi di accumulazione. E’ chiaro ,come evidenziato più volte da Marx, che ogni crisi si manifesti fenomenicamente come crisi monetario-finanziario ma l’elemento finanziario non è la causa . E ciò vale per l’attuale crisi come per quella del 1929, nelle quali l’elemento finanziario è un effetto e non una causa poiché quest’ ultima è da ricercarsi nella cosiddetta economia reale, quindi negli stessi meccanismi del modo di produzione capitalista.
Si potrebbe a tal proposito in qualche modo fare riferimento alla teoria dei cicli lunghi di Kontratieff che dopo una prima lunga fase espansiva, quella del dopo la seconda guerra mondiale fino ai primi anni ’70 può far individuare un lungo ciclo di crisi appunto dai primi anni ’70 a tutt’oggi; e in questa lunga crisi i capitalismi tentano di recuperare l’assenza di superprofitti soprattutto attraverso la rendita da speculazione finanziaria.
Il potere finanziario si ramifica in tutto il mondo,sempre più spesso superando le limitazioni geografiche nazionali, creando complessi industrial-finanziari di tipo transnazionale,il che comunque non significa che non abbiano una base nazionale o sopranazionale di riferimento per la difesa di ultima istanza dei propri interessi.
Ma la finanziarizzazione dell’economia ha portato non a una soluzione della crisi ma a una bolla finanziaria senza precedenti con un aggravamento della crisi economica generale; la privatizzazione dell’economia non ha portato a soluzioni , tant’è che oggi sia i progressisti, la sinistra, i conservatori ,vogliono tutti ritornare ad un ruolo interventista, regolatore e occupatore dello Stato ;si attua così una forma di keynesismo che non ha soltanto caratteri militari e di sostenimento all’economia di guerra ma anche di forte sostegno alle imprese, alle banche, alle assicurazioni che in questa fase erano destinati a fallire, senza dare, a differenza della fase fordista di crescita alcuno spazio al sostenimento della domanda in spesa sociale. Anche la terza forma di tentativo di uscire dalla crisi attraverso un duro attacco e compressione complessiva del costo del lavoro ,e quindi del salario sociale generale in forma diretta, indiretta e differita, non ha aiutato il capitale ad uscire dalla crisi poiché ha determinato una contrazione del potere di acquisto generale dei salari e quindi ha unito alla crisi di sovrapproduzione i contenuti e gli effetti di una crisi di sottoconsumo.
Risulta chiaro allo stesso tempo che neppure l’economia di guerra sta risolvendo la crisi internazionale che si protrae ormai da circa quaranta anni proprio per il suo carattere strutturale e gli interrogativi sulla fase assumono ormai rilevanza strategica per le sorti dell’umanità. Ad esempio la guerra e l’ipotesi forzata del keynesimo militare sono oggi in grado di risolvere la profonda crisi economica USA, che si associa ad una crisi di egemonia politica culturale e di civiltà? E la crisi è solo americana o siamo in presenza di una crisi a carattere strutturale del capitalismo,come sosteniamo da molto tempo, che nasce proprio nelle contraddizioni dei processi di accumulazione internazionale e nelle modalità quantitative e qualitative di crescita del modo di produzione capitalistico ,così come oggi si presenta nelle sue diverse modalità di espressione dei vari capitalismi?
Nonostante ciò che sostengono le voci ufficiali, anche di sinistra, gli Stati Uniti hanno esaurito la loro funzione di locomotiva economica internazionale e pur tentando in tutte le diverse forme non potranno riavere tale ruolo. A tutto ciò vanno aggiunti fenomeni assolutamente nuovi come la sovrapproduzione da sfruttamento di risorse non rinnovabili a partire dal petrolio, arrivando all’acqua , ai generi alimentari ,realizzando, quindi,contemporaneamente anche crisi ambientale, crisi alimentare, crisi energetica, crisi dello stato di diritto .
E’ quindi crisi sistemica generalizzata che non si può risolvere neppure tramite distruzione di capitale proprio, perché è crisi del sistema del modo di produzione capitalista.
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7. Ecco la particolarità di questa crisi che è strutturale e sistemica ,e determina quindi sicuramente la fine del predominio del capitalismo e imperialismo statunitense e allo stesso tempo preannuncia la fase terminale del sistema stesso capitalista, proprio perchè le possibilità di accumulazione reale del sistema hanno raggiunto il loro limite.
E questa crisi può essere più grave di quella del ’29 poiché non è detto che i nuovi paesi competitori emergenti come ad esempio Cina, Russia, India possano compensare il crollo degli USA, proprio perché questi ultimi hanno un notevole peso nel commercio mondiale, nella funzione generale dei mercati finanziari e monetari , e per il fatto che a tutt’oggi continua il signoreggio del dollaro e oltre il sessanta per cento , nonostante le ultime contrazioni, delle riserve monetarie internazionali sono in dollari. Inoltre ,questa crisi ha conseguenze immediate e dirette sui lavoratori in termini di ulteriore aggravio della disoccupazione strutturale, del taglio al costo del lavoro ,oltre che ai diritti, al salario diretto, indiretto e differito anche attraverso la rapina dei Fondi pensione ; crescerà la massa dei nuovi poveri con una forte polarizzazione verso il basso anche da parte dei ceti medi che avranno sempre più intaccato il loro potere d’acquisto e ciò si accompagnerà alle vecchie forme di povertà.
Siamo davanti a un crescente disfacimento di interi gruppi sociali ad un impoverimento di classi sociali che si ritenevano immuni da ogni crisi di sistema. A ciò continua ad accompagnarsi la marginalizzazione di intere regioni del globo con una concorrenza internazionale sempre più intensa e la necessità per il capitale di creare i nuovi confini delle terre di nessuno.
8. E allora bisogna meglio capire la cause e gli effetti sul mondo del lavoro, e del lavoro negato, dell’attuale crisi economica e costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi da subito nella piena autonomia da qualsiasi modello consociativo, concertativo e di cogestione della crisi. Solo così l’autonomia di classe assume il vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma soprattutto da sempre lo stesso sistema di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione capitalistico ;e quindi in tal senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore della crisi ma trovare anche nella crisi gli elementi del rafforzamento della sua soggettività tutta politica.
Sicuramente il capitalismo statunitense potrà restare ancora un attore importante ma si realizzerà la fine di un ciclo politico in cui gli USA non avranno una posizione dominante rispetto ad altri centri di potere come l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, il Brasile, che imporranno, anche se in maniera diversificata, nuove forme di potere politico del capitale, che così come per la natura economica della crisi di cui si è detto in precedenza, entrerà in crisi soltanto se le forze soggettive del movimento operaio e di classe sapranno trasformare la crisi economica e politica in crollo e superamento del sistema di produzione capitalista attraverso processi di costruzione di sistemi di relazioni socialiste.
Ecco perché la nostra analisi non ha a che fare con una visione immediata di fine del capitalismo per “autodistruzione” e quindi in una sorta di teoria del crollismo. Il sistema capitalista troverà ancora delle modalità attuative dei capitalismi per far sopravvivere il modo di produzione capitalista, ma soprattutto perché il passaggio ad un modo di produzione altro, meglio il passaggio alla società socialista , presuppone ovviamente non solo l’esplosione dell’oggettività drammatica in cui si presenta la crisi ma la presenza organizzata della soggettività rivoluzionaria che può indirizzare la classe verso i percorsi reali di superamento del modo di produzione capitalistico.
Le tendenze che abbiamo individuato segnano l’attuale fase del conflitto economico, sociale e del confronto politico e militare nella competizione globale. Le forze del capitale sono organizzate in modo transnazionale, con una borghesia che ha coscienza delle sue funzioni e che si adopera per difendere i suoi interessi, facendo pagare la sua agonia con guerre finanziarie , commerciali , economiche ,sociali , con repressione e guerre militari.
E allora la risposta alla crisi non può avere altro carattere che quello del rafforzamento politico del conflitto di classe internazionale, nelle sue diverse forme di rappresentazione sociale e politica. Un’alternativa mondiale per la trasformazione radicale deve essere un progetto che contenga un significato di classe transnazionale, con da subito una strategia che si muova in un orizzonte capace di determinare processi politici che, anche nei momenti rivendicativi tattici, abbiano sempre chiara la strategia politica per il superamento del modo di produzione capitalista e di costruzione del socialismo (*Univ. “La Sapienza”; Direttore Scientifico Cestes e di Proteo).

Il Premio Ubuntu, del Sudafrica, per Fidel

http://www.granma.cu/italiano/2009/abril/juev16/Premio-Ubuntu.html

Due mani ferme sostengono una sfera di cristallo con la figura del continente africano. Il disegno del trofeo è stato concepito proprio per la consegna al Comandante in Capo Fidel Castro.

Si tratta del Premio Ubuntu, un omaggio del 23 settembre dell’anno scorso Assegnato dal Consiglio Nazionale del Patrimonio Culturale della Repubblica Sudafricana per il leader della Rivoluzione cubana. La notizia è stata resa nota ora a L’Avana

In nome di Fidel, Abel Prieto, membro del Burò Politico del Partito e ministro di Cultura, ha ricevuto il prezioso simbolo portato espressamente nell’Isola da Sonwabile Mancotywa, direttore esecutivo dell’entità sudafricana.

Fidel condivide il prezioso omaggio con altre due grandi personalità politiche: gli ex presidenti del Sudafrica, Nelson Mandela, e dello Zambia, Kenneth Kaunda.

Mancotywa durante la cerimonia di consegna che si è svolta nel Museo delle Arti Decorative, con la presenza di Esteban Lazo, membro del Burò Politico del Partito e vicepresidente del Consiglio di Stato, ha detto che la decisione di premiare il Comandante in Capo è stata unanime e giustamente accolta nel suo paese, per l’opera internazionale, solidale e umanista di Fidel, che incarna le pure fondamenta della filosofia Ubuntu, che si riassume nel concetto zulú umuntu, nigumuntu, nagamuntu (una persona è una persona per via degli altri).

“Fidel, ha sottolineato, è un’impronta indelebile nel presente e nel futuro dei popoli africani”.

Il Sudafrica pochi giorni fa ha decorato Fidel con l’Ordine Oliver Tambo.

Ringraziando a nome di Fidel, Abel Prieto ha richiamato l’attenzione sul fatto che il nord, frivolo e consumista, ha sempre disdegnato le conoscenze delle culture tradizionali dei popoli del sud, che apportano valori etici per cambiare il mondo (Traduzione Granma Int.).

venerdì 17 aprile 2009

Gli Usa lasciano la porta aperta e Pechino sbarca in Sud America

http://www.loccidentale.it/autore/edoardo+ferrazzani/gli+usa+lasciano+la+porta+aperta+e+pechino+sbarca+in+sud+america+.0051952

è datato.. ma interessante.

Quando da segretario di stato Quincy Adams elaborò la sua 'dottrina', offrendola al presidente Usa James Monroe, allora in centro e sud America la partita giocata da Washington era quella di respingere i governi europei e la loro decadente politica coloniale. Favorire un destino democratico per quelle nazioni sorelle che si ispiravano ai principi della guerra d'indipendenza statunitense. “L'America agli americani” insomma, come gridava proprio Monroe. Oggi la partita è un'altra: nel cortile di casa si è affacciata Pechino ridefinendo completamente le geometrie relazionali trans-pacifiche. Dopo aver investito grandi risorse in una penetrazione economica ultra decennale verso il sud-est asiatico, il Medio Oriente e il continente africano, a caccia di forniture energetiche e di mercati su cui piazzare il proprio export, da quasi otto anni la Cina si è rivolta ai governi sud-americani dando il via a una lenta ma intensa relazione.

La prima visita di rilievo di un presidente cinese in America latina risale al 2001 quando Jiang Zemin aprì la strada al suo vice e poi successore Hu Jintao. Il primo viaggio ufficiale di Hu Jintao nel continente sud-americano è del novembre 2004; un tour di due settimane attraverso il Brasile, l'Argentina, il Cile e Cuba. Qualche mese più tardi fu la volta dell'allora vice presidente Zeng in Messico, Peru, Venezuela, Trinidad, Tobago e Giamaica. In un breve periodo le autorità cinesi sono riuscite a passare più tempo in sud America di quanto non abbia fatto il presidente Usa Bush durante tutto il suo primo mandato. Hu Jintao e Zeng portavano con sé una borsa piena di denari e molte promesse. Come quella di portare l'interscambio commerciale tra la Cina e l'America latina alla cifra di 100 miliardi di dollari entro il 2015 e lo stanziamento di risorse finalizzate a progetti infrastrutturali di varia natura.

Una strategia sud-sud, quella cinese, che ruota intorno a pochi ma decisivi principi: offrire relazioni diplomatiche senza obblighi politici, proporsi come il campione del principio di non interferenza negli affari interni e porsi come il difensore dell'integrità territoriale dello stato. Tutto in cambio di materie prime, abbassamento dei dazi, progetti di sviluppo e ricerca. A guardare le cifre degli investimenti diretti cinesi verso l'America latina si è di fronte ad un dato apparentemente irrilevante: al 2005 solo 100 milioni di dollari. Ma i veri investimenti sono altrove. Pochi mesi fa la Chinalco (China Aluminium Corp.) e la canadese Alcoa hanno acquistato una partita nelle attività minerarie sul Rio Tinto spendendo una cifra pari a 14 miliardi di dollari. Il più ingente investimento offshore di una compagnia statale cinese nella sua storia repubblicana.

Vari sono le ragioni che hanno indotto Pechino a una offensiva diplomatica nella regione. L'energia conta e non poco. Oggi Pechino consuma il 9 per cento delle risorse petrolifere mondiali. Nel 2030 si prevede che ne consumerà per il 14 per cento. Pechino già produce petrolio in Perù e Ecuador e sta investendo nel settore energetico in Bolivia, Brasile, Colombia e Venezuela. Ma c'è anche la questione ossessiva del riconoscimento di Taiwan. Dodici dei ventiquattro stati che ancora riconoscono la Repubblica taiwanese, si trovano proprio nella regione caraibica e centro americana. Attirare questi paesi nella propria orbita privando Taipei del suo residuo margine di azione a livello internazionale è strategico per la dirigenza comunista di Pechino.

A Washington si bada attentamente a considerare le possibili conseguenze di un aumento del peso cinese nella regione. Nel 2005 la sottocommissione per l'emisfero occidentale della camera dei rappresentanti, allora a maggioranza repubblicana, si spinse sino a dedicare una sessione proprio alla 'Cina nel cortile di casa'. Ma in fondo l'arrivo di Pechino è anche il sintomo di un male che si chiama disimpegno politico. Se il predominio economico statunitense nell'emisfero occidentale appare incontestabile, testimoniato da un interscambio commerciale di più di 300 miliardi di dollari, il progetto statunitense di riforma per le Americhe è miseramente fallito negli anni novanta con le presidenze Clinton e ancora più manifestamente con il declino della condivisone tra i governi di tutto il continente del cosiddetto Washington consensus, ovvero di quell'insieme di riforme che gli Usa proposero ai paesi americani il cui fallimento ha prodotto fenomeni neo populisti come l'ascesa venezuelana di Chavez, quella di Morales in Bolivia e infine di Lugo in Paraguay.

Oggi, al termine del secondo mandato, Bush può solo portare in dote un misero accordo tariffario con il governo colombiano, piuttosto osteggiato, in verità, sia in campo democratico che repubblicano. Insomma la dottrina della 'porta aperta' nei confronti della Cina ha nei fatti svuotato la 'dottrina Monroe' di una qualsivoglia attualità. Chiunque vincerà le prossime presidenziali negli Usa dovrà rimodulare la propria idea di 'backyard' e predisporre nuovi strumenti capaci di mettere il governo cinese in condizione di dover assumere quel ruolo di maggiore responsabilità che nella area sud americana si sta conquistando a suon di investimenti. Una nuova era si è aperta dunque nel Pacifico, foriera di turbolenze ma anche di grandi opportunità politiche e economiche.