martedì 27 gennaio 2009

Motorola e Reply

Non è più tempo di sovvenzionare chi, almeno dal dopoguerra ad oggi, ha fatto degli aiuti di stato la sua regola di mercato (come si dice: privatizzando gli utili e socializzando le perdite). A chi sostiene il contrario dico che esistono esempi da seguire e sono di ottimo auspicio. Sono anche una risposta concreta a chi crede che esista e debba esistere una monocultura cittadina.
Questa sottocultura ha prodotto e produce danni non solo a Torino e non solo nell'auto.
E questo post lo etichetto con "politica". Che altro, se no?

Motorola dice sì a Reply. Congelati i licenziamenti


http://torino.repubblica.it/dettaglio/Motorola-dice-si-a-Reply-Congelati-i-licenziamenti/1581376

Via libera anche dal sindacato. Decisivi i contributi del governo e della Regione
di Stefano Parola

Sarà Reply a farsi carico degli oltre trecento dipendenti Motorola. L´accordo di massima tra la società di software torinese e l´americana dei telefonini è stato raggiunto ieri mattina e la firma è prevista per oggi. E in tarda serata è arrivata anche l´intesa con il sindacato. Cruciale il ruolo delle istituzioni, Regione in testa: da un lato garantiranno un pacchetto di circa 25 milioni per la società acquirente, dall´altro si impegneranno per trovare un posto di lavoro ai dipendenti del centro che non dovessero rientrare nel nuovo piano industriale.

La Reply è così riuscita a battere sul tempo la concorrenza dell´altra società interessata, la triestina Telit. Uno dei nodi della trattativa era l´aiuto economico offerto dalle istituzioni e in effetti l´assessore regionale all´Industria Andrea Bairati ha potuto presentare un pacchetto allettante. Si parla di circa 25 milioni, di cui 10 provenienti dalle casse della Regione stessa. Il resto verrà messo sul piatto dal ministero dello Sviluppo economico, che, come ha annunciato il suo titolare Claudio Scajola, «sosterrà con un massimo di 15 milioni il centro ricerche Motorola», perché «è giusto far di tutto per garantire la sopravvivenza di questo punto di eccellenza in Italia».

I 25 milioni delle istituzioni vanno così a sommarsi alla cifra di circa 15 milioni lasciata in "dote" dal big americano dei telefonini. Dopo questa intesa, Reply ha poi incassato anche l´ok dei sindacati. L´ipotesi di accordo è arrivata in tarda serata, sotto la regia dell´assessore Bairati e del vicesindaco di Torino Tom Dealessandri. Prevede prima di tutto il "congelamento" delle lettere di licenziamento da parte di Motorola. E poi che la società torinese assuma tutti i dipendenti entro fine febbraio, alle stesse condizioni economiche e normative di prima. Dopodiché gli ingegneri ormai ex-Motorola verranno messi per tre mesi in cassa e verranno suddivisi in gruppi di lavoro in base alle proprie competenze. Ciascun team getterà le basi per progetti di ricerca che Reply dovrà poi rendere operativi.

In caso contrario, Regione e Comune faranno di tutto per ricollocare i lavoratori non produttivi in altre aziende torinesi del settore. Se non dovesse funzionare neppure questa soluzione? «Il dipendente verrà messo in mobilità e si vedrà offrire l´incentivo lasciato come buonuscita da Motorola», spiega Cosimo Lavolta della Uiltucs, che definisce l´accordo «assolutamente positivo». Per il momento sono soddisfatti anche l´assessore Bairati, che parla di «buona intesa, coerente con il programma della Regione», e il vicesindaco Dealessandri, che spiega che «l´accordo, quando verrà firmato, sarà un risultato importante per lavoratori e territorio».

Ora per giungere a un lieto fine della vicenda mancano soltanto due approvazioni, attese entrambe per domattina: una dovrà darla il consiglio d´amministrazione di Reply, l´altra l´assemblea dei dipendenti di Motorola.
(27 gennaio 2009)

Piattaforma della sinistra europea

http://www.rifondazioneperlasinistra.it/images/pdf/piattaforma_della_sinistra_europea.pdf

L'onda di Obama travolgerà Berlusconi

http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2009/mese/01/articolo/289/?tx_ttnews[backPid]=16&cHash=6c3e3a964e

Per quanto si affanni a seminare ottimismo e a ingiungere consumismo, a promettere sfracelli sulla giustizia e a costruirsi pioli per il Quirinale, a tenersi incollati Fini e Bossi e a emettere decreti legge, Silvio Berlusconi appare ormai un uomo di governo e un capo politico fuori dal tempo e dalla storia. E per quanto possa sembrare una fantasticheria dirlo a fronte della nuda realtà dei numeri del parlamento e dei sondaggi, il suo astro appare destinato a tramontare nella svolta politica, geopolitica e culturale provocata dall'elezione di Barack Obama.
Berlusconi è stato un fenomeno prettamente italiano, radicato nella modernizzazione degli anni 80, concimato da una più lunga storia di cittadinanza debole e di «uomini forti» al comando, sbocciato nella crisi del sistema politico degli anni 90, alimentato dal consenso di un immaginario sociale ricalcato su di lui dalle sue tv. Tuttavia, non è stato solo un fenomeno italiano: ha anticipato tendenze più larghe, o le ha imitate o ne ha risentito.
Leadership mediatica, personalizzazione della politica, svuotamento e deformazione della democrazia (attacco allo stato di diritto, de-costituzionalizzazione, rafforzamento dell'esecutivo e indebolimento del parlamento e della rappresentanza), retorica dell'antipolitica, concezione imprenditoriale dello stato, della società e della «riuscita» individuale, alleanza con i teo-con e con le ossessioni identitarie a sfondo razzista: questi ingredienti della ricetta berlusconiana sono stati gli stessi dell'era ispirata, negli Usa e dagli Usa in tutto il mondo, dal neoliberismo e dal neoconservatorismo.
Con l'elezione di Obama questo contesto internazionale, questa onda che ha disegnato il profilo di un'epoca, sono finiti. Ed è questa fine che consegna alla sua fine anche Silvio Berlusconi e la sua «impresa» politica, come se una nuova reazione chimica rivelasse improvvisamente l'obolescenza e le rughe del materiale plastico di cui è fatto. Non si tratta di attribuire alla nuova presidenza americana un effetto immediato di trascinamento dei nostri equilibri politici, e di immaginare per domani mattina un impossibile ribaltone della maggioranza di governo qui in Italia. Una fine può essere lenta, travestirsi di livida potenza, combinare molti guai. E nemmeno la prevedibile erosione di consensi che a Berlusconi verrà dal dispiegarsi nei prossimi mesi della crisi economica autorizza l'opposizione a mettersi nella passiva attesa di una automatica alternanza di governo. Si tratta di percepire, registrare e interpretare questo cambiamento dell'epoca, questo smottamento di egemonia, questa nuova energia. E di reinventarsi un'alternativa politica, sociale e etica in questo «dopo» in cui siamo già sospinti. Quando un'epoca finisce, travolge nella sua fine i vincenti, ma anche i perdenti se restano attaccati a ciò che in quell'epoca sono stati. Ne può derivare una catastrofe o una rinascita. Prima l'immaginazione che non è al potere comincerà a realizzerà che l'incubo è finito, a smettere di tenere in vita i propri spettri o più banalmente di continuare a occuparsi del caso Villari, a far vivere nelle maglie di un presente ancora afferrato dal passato le possibilità del futuro, prima si chiarirà se c'è una catastrofe o una rinascita ad aspettarci dietro l'angolo.

Un nuovo inizio, un nuovo partire

http://www.nichivendola.it/it/srv/homepage/un-altro-partire-2.html

Un nuovo inizio, un nuovo partire

Autore: Nichi

Intervento introduttivo di Nichi Vendola al Seminario nazionale di Rifondazione per la Sinistra - 24 e 25 Gennaio, Chianciano

“A distanza di pochi mesi noi torniamo a Chianciano, nel luogo in cui la storia di Rifondazione comunista è precipitata dentro un buco nero. Nel breve intervallo di tempo che ci separa dal luglio afoso del congresso del Prc, il mondo ha conosciuto straordinari cambiamenti, un vero passaggio d’epoca ha liquidato tante leggende e superstizioni ideologiche che hanno innervato il racconto egemonico della globalizzazione liberista, si è rotto il livido mappamondo che ruotava sull’asse della teocrazia finanziaria e della guerra infinita, sono esplose in forme spettacolari contraddizioni che dicono di una crisi strutturale del nostro ambiente sociale e del nostro ambiente naturale. Ma, a dispetto di questo vorticoso accumulo di punti di crisi e di accelerazioni della storia umana, tutti noi siamo rimasti come immobili, risucchiati nel gorgo della contesa intestina, prigionieri della deriva populistica e identitaria del nostro partito, sgomenti per la torsione vetero-comunista di una vicenda, quale quella di Rifondazione, che fin dall’inizio e fin dal suo stesso nome si era presentata ed era cresciuta come un cantiere di revisioni culturali e di innovazioni politiche. Siamo stati comunisti non per un bisogno di fedeltà al passato, ma per un bisogno di libertà del presente e del futuro. Siamo comunisti non per replicare, nei secoli dei secoli, una storia codificata, una liturgia monotona, una forma statica che contiene una verità rivelata: ma per liberarci dai fantasmi e dai feticci di un mondo che strumentalizza la vita, mercifica il lavoro, distrugge la socialità. Chi pensa che il comunismo sia una declamazione, un percorso provvidenziale che va solo ripulito dalle ombre dell’eclettismo e del revisionismo, chi lo custodisce come una reliquia e lo offre alla oscura modernità in cui viviamo come una talismano politico, chi lo annuncia come una fede e lo vende a buon prezzo come il pane da spezzare insieme per esorcizzare la paura della crisi: chi fa così merita certamente rispetto, ma agisce la politica come fuoriuscita dalla realtà e come rinuncia alla trasformazione dello stato delle cose. E noi che vogliamo emendarci dalla pratica dell’anatema e del disprezzo, oggi dobbiamo disarmare parole e sentimenti con cui attraversiamo la scena pubblica, anche per evitare che la nitidezza di una battaglia politico-culturale (quella contro il dogmatismo, il settarismo e il minoritarismo) possa essere confusa con una questione di risentimenti e di rendiconti interni al ceto separato della politica. Quel prototipo di comunismo settario e autocelebrativo è stato più volte sconfitto e ridotto alla più insignificante marginalità. Già al tempo delle “Tesi di Lione” e della lotta aspra al bordighismo, ma poi in tutta la titanica fatica dei “quaderni del carcere”, Gramsci restituisce un’immagine del comunismo aliena da qualsivoglia conformismo dogmatico: non una scolastica, non una precettistica, non un catechismo, insomma non un calco ideologico a cui piegare la realtà, ma una ricerca libera e gigantesca sulle radici storiche della sconfitta della rivoluzione in Occidente. Il comunismo come sviluppo di una domanda piuttosto che come reiterazione ossessiva di una risposta preconfezionata. Il comunismo come ricerca e movimento reale piuttosto che come farmacopea o invocazione dottrinaria. E nell’immaginare il Partito come “intellettuale collettivo” - e dunque come soggetto vocato a rompere la separatezza tra “autonomia del politico” e “autonomia del sociale” - gli affidava il compito di essere il “moderno Principe” che promuove la “riforma morale e intellettuale” del Paese: il Principe del Machiavelli era il soggetto politico e istituzionale che cercava con estrema spregiudicatezza di sconfiggere la logica feudale della centrifugazione in tante “piccole patrie” fondate su pretese araldiche o su sussulti localistici, il promotore di un processo di costituzione di un nucleo di moderna statualità fatta di un processo di unificazione territoriale e di omogeneizzazione culturale. Il moderno Principe gramsciano cammina su una grande frattura storico-sociale, quella “questione meridionale” che spiega la natura del capitalismo nostrano e evoca la “debolezza egemonica” della borghesia italiana già al tempo del Risorgimento. In questa prospettiva il partito non è davvero un fine, né tanto meno un predicatore ideologico o una enclave di “uomini nuovi”, bensì è una rete intelligente di lotte ed esperienze che ha senso in quanto organizza, nella società e nei luoghi in cui si produce società, la critica corale delle culture che mistificano e inibiscono la spinta sociale al cambiamento. E, dentro questo fuoco, il partito tesse la tela di un blocco sociale alternativo alla coalizione dominante, alternativo a quella alleanza di ceti speculativi e parassitari che sarà il letto in cui scorrerà il fiume del fascismo. Più tardi, dopo il tempo della clandestinità e della prigionia e dell’esilio, sarà il “partito nuovo” togliattiano a bruciare i residui di una concezione avanguardistico-pedagogica del partito, sarà quella la stagione dell’aderire ad ogni piega della società, e cioè della costruzione plurale e unitaria di movimenti sociali di massa che, nella moderna città industriale come nell’arcaica campagna del latifondo, potessero intrecciare il percorso emancipativo con l’educazione civile alle virtù della libertà. In quella parabola straordinaria, classe e popolo, anticapitalismo e democrazia, sono concetti che vivono in un equilibrio creativo, non dentro architetture ideologiche asfittiche ma come nodi della storia, della società e della vita, nodi da sciogliere nell’agire politico, e in un agire che era innanzitutto pensiero, analisi dei processi materiali, consapevolezza culturale della storia nazionale, orizzonte europeo ed internazionalista del proprio progetto politico. Anche la stampa comunista verrà concepita e governata come una rete di intelligenze e di esperienze intellettuali originali, come lo sviluppo di laboratori e di officine delle idee. Nell’Unità togliattiana si formeranno intere generazioni di giornalisti di razza, non leve di velinari e di agit prop, ma grandi penne del giornalismo d’inchiesta, del giornalismo colto e militante. Sono storie note, quelle che hanno fatto del Partito Comunista Italiano il protagonista fascinoso e popolare di una doppia anomalia: anomalia di un Paese così vitalmente segnato nel suo sviluppo democratico dal ruolo e dall’autorevolezza dei comunisti italiani, anomalia di un partito che si liberava progressivamente della soggezione al campo e alle mitologie dell’Unione Sovietica. Il Pci fu il punto più alto di espansione egemonica della sinistra in Occidente, e fu allo stesso tempo il punto più importante di autocritica del comunismo novecentesco. Fino alle parole nitide e per certi versi definitive di Enrico Berlinguer a proposito di “esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”. Questa vicenda, che ovviamente fu arricchita (ma spesso anche impoverita) dalle esperienze delle sinistre critiche e dei gruppi extra-parlamentari, non può che essere il nostro punto di partenza: e infatti di lì partimmo per reagire alla prospettiva della liquidazione del Pci dopo la svolta della Bolognina. Non per revisionare le revisioni, non per abiurare dalle abiure, ma per dire di una cultura politica che era comunista nella misura in cui faceva della lotta contro ogni principio totalitario e contro ogni pratica di alienazione la propria ragione di vita. Noi difendemmo il Pci perché consideravamo ingiusto seppellirlo sotto le macerie del Muro di Berlino: ma non stavamo difendendo quel maledetto muro, la sua monumentale vergogna, il suo recintare sotto un controllo ferreo e cupo “le vite degli altri” (per citare il titolo di un bellissimo e doloroso film sulla Germania Est). Noi difendemmo il partito che, dentro un processo lungo e complesso, aveva segnato la rottura del “campo” comunista, che aveva con quello strappo dall’Urss riaperto e non chiuso la “questione comunista” come critica del modello di sviluppo e denuncia della società bi-fronte dello spreco e della penuria. Il socialismo reale, che pure a noi appariva così clamorosamente irreale, si era schiantato, squagliato rapidamente come neve al sole, e il mappamondo aveva perduto uno dei suoi punti cardinali, l’Est. Quel mondo era crepato non per un eccesso di comunismo, ma per un clamoroso deficit di comunismo: perché era una costellazione di regimi autocratici, perché le libertà fondamentali erano conculcate, perché il circuito dell’informazione era dominato dalla pratica della censura e dalla pedagogia della menzogna, perché il dissenso significava rovina e morte, perché il lavoro era alienato e alienante, l’economia dominata dai burocrati, la promessa della “socializzazione dei mezzi di produzione” fraintesa e confusa con quello che l’estrema sinistra chiamò il “capitalismo monopolistico di Stato” che aveva ridotto ad una cifra grottesca i sogni dell’Ottobre. Dentro questo solco ha camminato la nostra Rifondazione, fino all’approdo teoricamente e politicamente più impegnativo: quello dell’assunzione del paradigma della nonviolenza. Un salto anche di linguaggio, l’ingresso in un universo semantico e simbolico ricco e stimolante: non la rinuncia alla critica di classe, ma il suo esodo dalle antiche mitologie della conquista del Palazzo d’Inverno, la sua capacità di contaminarsi con la critica radicale dei meccanismi di produzione della violenza e della violenza che si fa potere: la critica del patriarcato e del vocabolario maschile che nomina ed eternizza un mondo mutilato della libertà femminile; la critica di un modello di crescita economica che usa la biosfera come una discarica, che dissipa ogni giorno un segmento di quel patrimonio di biodiversità e di multiculturalità che costituisce la ricchezza della vita e il senso della vita. La viva vita, non quella ideologizzata da molti pulpiti più o meno sinceri. La vita vera di cui dobbiamo garantire, per tutti e per ciascuno, per tutte e per ciascuna, l’assoluta inviolabilità, la sua irriducibilità, per chiunque, a corpo contundente, a strumento, a oggetto, a cosa da usare e di cui abusare: quanti album di foto sui corpi dei nemici uccisi, uccisi e poi straziati, straziati ed esibiti come trofei, ci sono nei depositi remoti della nostra psicologia sociale? Quanto bisogno, ancora oggi, tutti noi abbiamo di dotarci di un nemico capace di darci identità, e più lo odiamo più sentiamo di possedere consistenza? e ucciderlo simbolicamente e spesso anche materialmente coincide con la nostra massima auto-affermazione: negare la vita a chi è il mio altrove, mi dà la tranquillità di stare dove sto e di essere ciò che sono. Se uccido un infedele dimostro quanto sia cruciale coltivare fedeltà. E dunque la vita: non il terreno di un dominio etico-ideologico ma la vita determinata delle persone vive. Non l’imperio sulla giurisdizione della vita, sul chi decide del suo inizio e della sua fine, con questa finta morale che è confessionale e si camuffa da morale naturale: cosa ci sia di naturale nell’accanimento neppure terapeutico sul corpo-simbolo di Eluana è difficile dirlo, così come è difficile capire dove sia emigrata la coscienza laica di un Paese in cui bisogna aprire una contesa politica per eseguire una sentenza inappellabile pronunciata da una corte suprema, così come è difficile capire dove sia precipitata quella pietas cristiana che pare soppiantata da un “magistero della paura” che riporta la Chiesa a prima del Concilio e che piuttosto che annunciare una “buona novella” si specializza negli anatemi contro l’umanità peccatrice.
La viva vita, insomma. Quella che ci interroga senza sosta, dopo Auschwitz e Hiroshima, dopo l’organizzazione scientifica dell’industria dello sterminio di massa, dopo i virtuosismi burocratici delle deportazioni e delle rieducazioni, dopo i gulag e le fosse comuni, dopo le guerre calde e quella fredda, dopo le guerre a bassa intensità e le macellerie sudamericane, dopo le guerre etniche e quelle religiose e quelle tribali e quelle telecomandate come videogames, dopo gli hotel Ruanda; e ora, durante questa lunga lenta oscena strage di Gaza, qui dentro il crinale più melmoso, dentro l’orizzonte di onnipotenza e nichilismo che è stato battezzato “guerra infinita”, la vita vera che ci chiede pensieri e vocaboli impegnativi ed inauditi che possano ergersi come una soglia fondatrice della civiltà futura, come il cimento di tutta la politica e di tutte le culture chiamate a disegnare le mappe di un mondo nuovo. La vita altrui che è il paradigma del limite nostro, violando il quale romperemmo il senso stesso della nostra vita e di tutta la vita.
E se questi sono i compiti, se questa è la semina a cui dobbiamo dedicare il nostro impegno, se queste sono le sfide su cui ridefinire il senso e il modo dell’agire politico, a che vale resistere in una trincea che sentiamo arretrata, persistere in una appartenenza che ci appare vieppiù fuori luogo e fuori tempo? Se questo è il cimento che più ci intriga e più ci motiva, come possiamo mettere tra parentesi la piccola storia ignobile del processo sommario e della condanna di un collettivo redazionale e di un direttore che hanno fatto di Liberazione un giornale vivo, un luogo della libertà e delle idee, piuttosto che un morto repertorio della linea del gruppo dirigente del Partito? Sansonetti non era comunista al punto giusto oppure non lo era affatto? E allora? Era stato indicato lui, dopo l’esperienza formidabile e altrettanto libera del nostro caro indimenticabile Sandro Curzi, proprio per questo: perché Liberazione non fosse uno specchio del partito, ma una finestra aperta sul mondo. E questa vicenda evoca troppe ombre di una storia antica e dice di un corto-circuito dentro la nostra comunità politica: non si è rotta solo la politica, è andata in pezzi la comunità. Allora occorreva davvero tornare a Cianciano per rimuovere il blocco, per trarre le conseguenze, per uscire dalla paralisi. Proprio perché l’altra sinistra, quella mirata al centro, sembra persa nei propri contorcimenti tattici, incapace di un pensiero che non sia subalterno al piano inclinato del governare in sintonia esibita con i poteri forti, proprio perché il veltronismo si presenta ormai come un mix compiuto di radicalismo etico e di moderatismo sociale che pratica la prospettiva di una “alternanza senza alternativa”, proprio per queste ragioni non possiamo condividere una linea politica che insegue la retorica del sociale (”in basso a sinistra”), del sociale assunto come luogo della salvezza e della rigenerazione, una sorta di Periferia planetaria in cui dare domicilio e protezione all’innocenza dell’ideologia. Le due sinistre oggi sembrano convergere in un unico destino: quello di estinguere le proprie ragioni sociali e la propria missione politica, chi sull’altare del governo, chi nella polvere dell’opposizione; il cupo destino di una sinistra che non è più capace di autonomia intellettuale e di distinzione morale, che fatica persino a comunicare le parole-chiave del proprio vocabolario, che certo ha smarrito interi patrimoni di quel principio-speranza che fa della politica una leva di impegno civile e di passione collettiva. L’Amarcord della sinistra mi intriga e mi serve, ma a condizione di non pensare a pratiche di riesumazione. Non ci sono resurrezioni in politica, ma solo nuovi parti, un nuovo partire piuttosto che un nuovo partito, un processo piuttosto che una sigla, una nuova casa in cui la sinistra delle libertà possa ospitare comunità di popolo e non elites di presunte avanguardie. Perchè il senso della sinistra sta tutto nella capacità di prefigurare e costruire il cambiamento: che non è una vaga aspirazione letteraria della coscienza del cittadino astrattamente inteso. Ma è la critica pratica di un economicismo che aliena nel processo produttivo tanta umanità, la riduce al rango di “costo del lavoro” e la soffoca nella dimensione generale del precariato. Il cambiamento o morde la polpa dei “rapporti di produzione” oppure è semplicemente un giro di valzer nel tempo libero. Qui c’è, tutto intero e profondo, il discrimine tra destra e sinistra. Il cambiamento è il rovesciamento materiale e culturale dell’egemonia liberista che ha segnato lo stile del processo di mondializzazione e di finanziarizzazione dell’economia. Per questo il Partito Democratico non ha una lettura critica delle ragioni della crisi vorticosa dei mercati finanziari internazionali, osserva l’avanzare delle nubi nere della crisi e della recessione come se fosse un fenomeno meteorologico, una calamità naturale, e non piuttosto la logica conseguenza di una filosofia economica che ha assoggettato la politica e introdotto la storia umana nel ciclo della “produzione di denaro a mezzo di denaro”, un tempo di svalorizzazione del lavoro e di enfatizzazione della ricchezza che si riproduce per partenogenesi, un tempo in cui, a destra come a sinistra, la modernità del mercato è divenuta l’unico regolatore sociale e il cuore della discussione politica. E gli slogan liberisti hanno fatto breccia a sinistra, fino a divenire - incredibilmente - sinonimi di riformismo. E il centro-sinistra ha fatto una critica più di forma che di sostanza al partito mondiale del liberismo: non contestarne l’impianto, ma attenuarne gli effetti sociali, ridurne i danni ambientali, censurarne gli eccessi. Da troppi anni in Italia, ma non solo, più si scivola a destra e più ci si identifica come riformisti, fino al punto che nella larga opinione pubblica, e per diverse volte, il più innovatore e il più riformista di tutti è apparso Silvio Berlusconi. Ma quando il centro-sinistra ha strappato, e per un pelo, il governo alle destre, non è stato in grado di indicare una visione generale, né di segnare una significativa inversione di tendenza rispetto a quella egemonia liberista che pure aveva conosciuto la straordinaria opposizione dei movimenti altermondialisti e della corale mobilitazione pacifista: il governo Prodi non ha provato neanche a mutare l’ordine del discorso di una realpolitik che chiedeva ottusamente continuità con Mastricht, non ha inteso quale fosse l’acutezza di una crisi sociale che investiva largamente anche il ceto medio, non ha annusato l’umore popolare di crescente insofferenza per le beghe di Palazzo che esponevano un centro-sinistra senza maggioranza in uno dei due rami del Parlamento a uno stress continuo e sfibrante. L’icona della casta sigillò la caduta verticale di consenso che fece scivolare il governo verso la crisi e il centro-sinistra verso il proprio capolinea, con la conseguente sconfitta elettorale di Veltroni e la scomparsa dalle istituzioni della sinistra. Un governo senza profilo e senza collante era per Rifondazione la prova dell’impossibile: non fuggire dalle proprie responsabilità, accettare la sfida e l’occasione del governo, ma essere efficaci nel proporre una mediazione con il punto di vista della sinistra di alternativa. Avevamo il dovere di essere efficaci: che questo fosse possibile è un altro discorso. Ma che questo fosse atteso, e non solo dai nostri militanti, è evidente. La nostra inefficacia ci ha omologati al resto del centro-sinistra in un giudizio che per noi è stato inappellabile e oltremodo severo. E non ci ha salvato quel simbolo pure salvifico dell’arcobaleno, perché era solo un segno grafico e non un sogno collettivo, era un cartello elettorale e non un laboratorio della società, perché era un accordo di stati maggiori e non un patto costruito con pezzi di mondo del lavoro e di giovani generazioni, e anche perché nella sua sfortunata selezione di rappresentanza istituzionale l’arcobaleno non ebbe il coraggio di praticare la consultazione dei territori e della società civile: anche organizzando quelle primarie che debbono divenire uno dei modi ordinari di funzionamento della sinistra. Insomma lì ci siamo fratturati le ossa e abbiamo visto sfumare la speranze che in quelle elezioni potesse cominciare una storia nuova piuttosto che chiudersi una storia vecchia. Invece si chiuse la storia vecchia. In una sola volta pagammo tutti i conti in sospeso. I conti di una sconfitta la cui gestazione dura da almeno un ventennio, la cui proporzione non è semplicemente quella elettorale, la cui spiegazione non può essere infantilmente ridotta all’aver contratto il virus del governo o all’aver assunto alcuni tratti della fisiognomica della casta. La sconfitta è nella distanza dai pensieri e dai sentimenti di quella coscienza generale che, nella crisi delle organizzazioni collettive e nella crisi degli apparati formativi, si educa alla cattedra televisiva della vita e della morte in diretta. Quella cattedra ci educa ad essere capitalisti dell’anima, protagonisti o spettatori di una fiction permanente che ha abolito quei tre tempi del presente (il passato del presente, il presente del presente, il futuro del presente) che Alessandro Natta mutuava da Sant’Agostino. Oggi noi viviamo in un presente senza tempo, senza scansione storica, senza spessore cronologico: quando noi parliamo del Novecento, alludendo a questioni cruciali che hanno animato immense speranze o che hanno generato immani tragedie, parliamo di un tempo che ha il suo spessore e il suo deposito di senso. Ma a chi stiamo parlando? Chi ci capisce? La comunicazione veloce, il tempo reale di scambio comunicativo nella comunità virtuale di Internet, ha come certificato l’avvenuta frammentazione del tempo, la sua polverizzazione, la sua esposizione alle intemperie del contingente. I morti sul lavoro sono cronaca nera, una colonnina tra le altre nelle statistiche ufficiali: non sono una sequenza, non sono un tempo significante, non vediamo più la strage come un nodo da tagliare con la lama del diritto alla vita. La morte è contemplata, come il licenziamento. Sono leggi metafisiche dell’economia. Oppure che cos’è il tempo di chi è appeso ad un contratto a progetto, per chi è interinale, per chi veste uno dei tanti abiti con cui nascondiamo quel gigantesco ricatto che pesa sui giovani e che rompe il loro tempo di vita, quel ricatto che è la precarietà, il contratto a tempo determinato, cioè a tempo ferito e svuotato di senso del futuro? Oppure in che tempo, o su che canale tv, avviene la tempesta di proiettili e fosforo che spezzano il cuore della Palestina? Perché questa avara reazione all’assedio di Gaza? Eppure lì non va in onda un vecchio film in bianco e nero, lì l’ansia di pace ruzzola in uno dei tanti precipizi in cui l’avventurismo americano, coprendo la destra israeliana, ha portato la geo-politica medio-orientale. Le diplomazie dal basso e le voci del popolo pacifista faticano a ritrovare una scena pubblica, la pace ha perso i suoi profeti e i costruttori di pace sembrano decimati dalla cultura bellicista che torna ciclicamente a offrirsi come garanzia di stabilità degli equilibri mondiali. La questione palestinese resta il più incandescente banco di prova per tutte le leadership mondiali. Ora è il tempo di ridare agibilità politica e inesplorate latitudini culturali alla pace, al suo progetto di giustizia sociale e al suo orizzonte antropologico. E non esiste compito più congeniale alla sinistra del futuro che quello di essere annunciatrice e costruttrice di pace. Lavorando a costruire memoria, per poter esercitare discernimento. Continuando ad interrogare le ombre del passato, anche per poter prefigurare nuove aurore. Non dimenticando mai ciò che è stato, l’orrore del dio che è morto ad Auschwitz, il dolore di un popolo condotto al macello come un agnello sacrificale. Ecco, la sinistra ha bisogno di ritrovare il tempo perduto, nel senso che non può non sentirsi implicata dal cambiamento, non può non cambiare lei stessa, non può vivere galleggiando nella stratosfera dei propri voli passati, la sinistra ha bisogno di ossigeno, ha bisogno di una strumentazione ottica complessa e sofisticata: un po’ telescopio, un po’ microscopio, un po’ caleidoscopio. La sinistra ha bisogno di mettersi in gioco evitando di mitizzare la destra ma cercando piuttosto di conoscerne apparati di potere, sistemi di comunicazione, produzione di simboli e produzione di senso comune. Non pensare che l’invettiva possa surrogare l’analisi dell’avversario, non personalizzare la contesa politica, non demonizzare chi incarna la leadership della destra: sono avvertenze che dovrebbero liberarci dalla tentazione di cavarcela con battute da talk-show. Berlusconi è l’espressione di una radicale riforma del sistema politico e di un capovolgimento della cultura generale del Paese: il cui patriottismo si sposta progressivamente dal terreno storico e civile dell’antifascismo fino a scivolare nel terreno ideologico e melmoso dell’anticomunismo. E il Cavaliere di Arcore incarna anche il mutamento di paradigma di una costituzione materiale che al primato del lavoro (sancito dal primo articolo della Carta costituzionale) sostituisce il primato dell’impresa. Eccola dunque la destra. Quella che ha scelto il profitto mercantile come baricentro della propria strategia, ha teorizzato e quindi praticato la radicale precarizzazione del mercato del lavoro, ha detassato i patrimoni e la ricchezza, ha operato una poderosa opera di riorientamento culturale della società italiana a partire dalla criminalizzazione delle povertà e delle marginalità. La destra che ha avviato una vera bonifica giustizialista contro mendicanti e lavavetri, contro gli stranieri in condizione di clandestinità, contro prostitute e trans, contro i graffitari e contro i centri sociali. “Sorvegliare e punire” sono i verbi della macchina di controllo sociale sugli esuberi della globalizzazione: e già la coazione disciplinare comincia a mirare al cuore di un’intera civiltà del diritto: quella del diritto al lavoro, del diritto di sciopero, del diritto al dissenso. La destra evoca i fantasmi che turbano i sonni del piccolo-borghese planetario: la paura di perdere reddito e sicurezza, la paura di cedere porzioni di sovranità a chi abbiamo perfino nominato “extra-comunitario”. E contro ciò che ci minaccia la tasca o anche semplicemente lo sguardo calerà la scure di quella “dura lex” che ha riti sbrigativi e pene esemplari. Ma per compensare questa torsione di classismo giustizialista la coalizione di governo costruisce, dentro un processo di piccole e grandi riforme, la blindatura garantista della classe dominante: i cui reati svaniranno nei nuovi codici e nei processi verranno prescritti per decadenza dei termini. Il terreno securitario serve a stringere le maglie del controllo sociale e a metabolizzare un progressivo cedimento al lessico razzista e xenofobo. L’omofobia viene alimentata da una porzione delle gerarchie ecclesiastiche, viene esercitata per strada con mirate spedizioni punitive, viene sdoganata persino al festival di Sanremo. L’islamofobia è nella propaganda quotidiana del partito nordista. L’antisemitismo torna a guadagnare la sua ribalta fatta di violenza e vigliaccheria. Una bravata di giovani annoiati può costare la vita ad un povero barbone, che nel sonno dei poveri non percepisce l’umido della benzina con cui lo stanno inzuppando prima di dargli fuoco, prima di bruciare una concreta esistenza, una vita viva, così per gioco, per sentire l’adrenalina che sale mentre quel sacco sporco di umanità strepita e arde. Ma noi viviamo un’epoca in cui si accetta l’idea della social card come se fosse una politica anticiclica: il bancomat della carità serve solo a dire di una propensione compassionevole che deve accompagnare quella ferocia classista di chi al lavoratori del Pubblico impiego o ai metalmeccanici offre spiccioli, riduzione di diritti, rischi di espulsione. E mentre Tremonti ci spiega, con cipiglio accademico, che questa è una crisi finanziaria che si risolve solo con strumenti finanziari, non ci accorgiamo che ci sta dicendo che l’unico keynesismo è quello per i ricchi, ai quali si è tolta persino l’unica tassa “federalista” esistente (cioè l’Ici), mentre gli altri si arrangino. La crisi industriale blocca produzioni in settori decisivi, migliaia di lavoratori vanno in cassa integrazione, c’è un universo intero che rischia un drammatico smottamento, dilaga la paura della povertà: e allora chi paga la crisi, chi paga gli ammortizzatori sociali? E’ chiaro e semplice, può pagare il Sud. Siamo ben dentro la fase storica della rivalsa nordista, tanti amministratori locali del centro-sinistra scavalcano la Lega in quanto a declamazioni in chiave padana, il cervello economico e politico del potere oggi è tutto a Nord, inoltre all’insorgere della “questione settentrionale” il Sud ha cominciato a perdere progressivamente l’uso della parola. La “questione meridionale” si è auto-esiliata in qualche studio specialistico, ha ceduto alla forza narrativa di chi riduce il Mezzogiorno ad una patologia della nazione, il Sud è stato interamente iscritto nella rubrica della politica e del giornalismo nazionali alla voce “Gomorra”. Una caricatura che diviene un alibi. Il Sud dei talenti e dell’indignazione civile, il Sud di Roberto Saviano e dei ragazzi di Locri, il Sud del talento e della legalità, il Sud dell’innovazione e della creatività: tutto questo scompare. Così oggi il governo propone di usare, come provvista finanziaria per pagare il biglietto della crisi, le risorse del Fas e quelle del Fondo sociale europeo: sono le due gambe su cui cammina quasi per intero l’economia meridionale. Sono risorse indispensabili, in aree con disoccupazione a due cifre, anche per resistere all’urto della crisi economica che arriva. Siamo al rovesciamento di un compito generale che le classi dirigenti democratiche si sono sempre affidate: fare dello sviluppo e della modernità del Sud il terreno della compiuta unificazione della storia nazionale, puntare sul Sud come crocevia di civiltà, come congiunzione di Europa e Mediterraneo, come Occidente in seminato di Oriente. La destra propone una gigantesca redistribuzione delle risorse dai territori più poveri a quelli più ricchi, dai ceti sociali più disagiati ai ceti più privilegiati, considerando parassitaria la “spesa sociale” e ridisegnando il Welfare come filantropia di Stato piuttosto che come organizzazione delle protezioni e dei diritti sociali. Per questo noi dobbiamo aprire una questione generale sul futuro del Sud, in una stagione in cui l’esplosione di una crisi morale delle classi dirigenti del centro-sinistra soprattutto nel Mezzogiorno sembra sconsigliare qualunque giudizio equanime ed articolato su un territorio abitato da venti milioni di italiani: dobbiamo portare il Sud all’opposizione delle destre. Dobbiamo aprire una contraddizione ciclopica dentro il PD, che non riesce ad essere il catalizzatore e neppure il protagonista di una opposizione visibile e credibile a Berlusconi: ma non a causa della febbre alta della sua polemica intestina, quanto a causa della sua lettura della fase, del suo giudizio sul governo in carica, della sua strategia emendativa che supplisce al vuoto di idee forti di alternativa al berlusconismo. Il PD oggi è prigioniero del proprio leghismo, non riesce a intendere quale sia la portata dell’assalto alle casse del Sud, non ingaggia su questa una battaglia campale. La rottura dell’unità sindacale e la paurosa deriva governista e corporativa di una parte del sindacato porta il partito veltroniano ad una sorta di neutralità, per la prima volta la Cgil viene lasciata sola anche nello sciopero generale del 12 dicembre, così come nell’aspra contesa per i rinnovi contrattuali. Eppure l’assalto alla Cgil è già cominciato, è lo scalpo più prezioso che la destrapossa desiderare, perché quel sindacato è portatore di un’istanza generale di emancipazione e di giustizia. E questo assedio è organico al tentativo di dare un colpo definitivo alla contrattazione collettiva nazionale, a ciò che ancora protegge un’idea di mondo del lavoro e una storia di civiltà del lavoro. La contro-riforma della scuola e dell’Università sono stati pezzi pregiati di questa opera di sradicamento di una cultura della “res publica” che nel lavoro e nella formazione indicava il “bene comune” fondamentale della democrazia repubblicana. La scuola va re-impacchettata nelle regole di una austerità ottocentesca, con tanto di grembiulini e voti di condotta, va capovolta rispetto alle ambizioni pedagogiche di chi la immagina come palestra di libertà e di pensiero critico, un contro-68 è il programma esplicito della ministra Gelmini. Siamo alla perfetta antitesi di ciò che apprendemmo leggendo la “Lettera ad una professoressa” di don Lorenzo Milani. Qualcuno vuole fondare un’idea degli apparati formativi e una figurazione della società sui pilastri di cemento armato di una sorta di “pedagogia della paura”, una disciplina generale che rimbalza dalla scuola al lavoro, dal tempo libero all’organizzazione urbana: e che si accompagna a quella che potremmo definire educazione tecnica e spirituale alla precarietà. Affinché la scuola educhi alla paura, il lavoro somministri precarietà, la vita privata e quella sociale si srotolino come narrazioni di persone subordinate alla signoria della produzione. A questo disegno ha saputo reagire una nuova generazione, la prima generazione compiutamente esiliata dalla civiltà novecentesca (a partire ad esempio dalla generale aspettativa di una vita lavorativa precaria), un nuovo movimento studentesco ha segnato la società e ha spaventato la politica riuscendo con intelligenza a evitare la tenaglia della violenza e della criminalizzazione: come a dire che proprio lì, in quella fabbrica speciale in cui si fabbrica la riproduzione sociale, proprio nel luogo di apprendimento dei saperi e del sapere sociale, lì cova una contraddizione irriducibile dello sviluppo capitalistico: la contraddizione tra domanda di senso e di libertà, che vive in modo naturale nei processi di scolarizzazione, e la mercificazione della vita e del lavoro. La questione sociale e le giovani generazioni propongono una lettura unitaria dello sviluppo e della crisi della globalizzazione. La rivolta della gioventù greca e la straordinaria mobilitazione contro la riforma pensionistica della destra francese dicono di quanto l’aggressione ai diritti sociali abbia tratti comuni in gran parte del vecchio continente. La lotta dovrebbe, come ci ha insegnato la pratica dei Social Forum, svolgersi su una scena sovra-nazionale. A cominciare dalla messa in campo di proposte di politica anti-recessiva e anti-ciclica che rappresentino anche una forma di demistificazione della natura reale delle manovre anti-crisi di tanti governi, a partire dal nostro: e nel nostro la neo-teologia di Tremonti cerca di interpretare la crisi come una cabala, come un episodio del Caso o del Kaos, o come un epifenomeno del male, e a fronte del marasma economico finanziario propone un ripristino dall’alto dei valori tradizionali. Insomma, solo “Dio, Patria e famiglia” ci salveranno, e il Tremonti ratzingeriano appare come l’ultimo epidono della saga western di Bush. Noi dobbiamo interrogare la destra e il Paese sulla necessità strategica di un “Piano per il lavoro”, un progetto ambizioso e straordinario di implementazione dell’occupazione puntando sulla promozione della qualità ambientale, a partire dalle bonifiche fino al disinquinamento dei corsi d’acqua, dalla protezione delle coste e delle falde fino alla raccolta differenziata spinta dei rifiuti urbani. E ancora puntando sulle energie alternative e sulla produzione di quei beni immateriali, nella cultura nella comunicazione e nei servizi, che possono consentirci di coniugare ricchezza economica e ricchezza sociale, ricchezza delle quantità e ricchezza delle qualità, incrementi di sviluppo e diffusione del benessere sociale. Ma dobbiamo sapere che la destra vuole usare la crisi economica come alibi per rinviare i conti con il carattere dirimente e ultimativo della crisi ambientale. Qui dobbiamo reagire, ora è il momento di una riconversione culturale che deve investire le forme del produrre, del consumare, del vivere associato. Ora è il momento di andare all’assalto dei veleni che assediano le nostre vite: dalle polveri sottili che abitano anche i polmoni dei nostri bambini al mercurio che nuota nei nostri mari, dall’amianto che continua a uccidere di mesotelioma pleurico fino a quella diossina che la proprio la Puglia, che è la mia terra, ha voluto con una rivoluzionaria legge regionale sottoporre a vincoli seri e scientificamente fondati.
Abbiamo dinanzi diversi passaggi elettorali. Il primo dei quali riguarda la Sardegna, regione nella quale i nostri compagni hanno saputo accompagnare con intelligenza e stimolare in modo creativo l’esperienza innovativa della presidenza Soru: che ha interpretato l’autonomismo sardo come una prospettiva europea e non come ripiegamento e chiusura, e che ha difeso la bellezza e la ricchezza della sua natura e dei suoi delicatissimi eco-sistemi dando una lezione di dignità e di moralità ad un Paese che ha fatto anche del patrimonio dello Stato una S.P.A. Nelle città e nelle province in cui si vota è necessario sviluppare il massimo sforzo unitario della sinistra, di una nuova sinistra capace di guardare anche le radici di una crisi delle grandi città che è anche crisi nei nostri modelli amministrativi. Il riformismo municipale mostra le corde, si tratta di tornare ad avere una lettura critica dello sviluppo cittadino e metropolitano, ma poi si tratta di realizzare un progetto globale di riqualificazione delle periferie e di rigenerazione urbana. Ma nel governo dei territori deve tornare con forza, come sfida della democrazia partecipata e della cittadinanza attiva, la “questione morale”: depurata dalle scorie della giustizia-spettacolo e da quella retorica qualunquista che nella generalizzazione della denuncia finisce per mortificare gli onesti piuttosto che stigmatizzare i corrotti, bonificata da pulsioni da far west, essa vive come rottura della barriera architettonica e sociale che separa, tavolta in modo feroce, i pubblici poteri dalle domande della vita quotidiana. Vive di trasparenza di tutti i procedimenti amministrativi, vive di drastica semplificazione burocratica, vive di circolazione delle informazioni, vive di controllo organizzato sulle decisioni di governo, vive di netta separazione tra politica e affari, vive di responsabilità condivise e di qualità delle classi dirigenti. E poi c’è la consultazione per il rinnovo del Parlamento Europeo: innanzitutto una occasione per fare il punto sul processo di allargamento dell’Unione, per tracciare un bilancio sul ruolo politico dell’Europa nello scacchiere internazionale, ma anche una occasione decisiva per sottolineare gli impegni mancati, le pagine bianche, i peccati di omissione di una Europa incapace di autonomia dagli Stati Uniti e povera di iniziativa politico-diplomatica come si è visto nei giorni della guerra a Gaza. Per noi anche uno stimolo a rinsaldare la presenza dentro “Sinistra europea” e forse la costruzione di una tappa nel processo di avvicinamento alla costituente del nuovo soggetto della sinistra. Che ci sia, in questa contesa, una sinistra unitaria, un pezzo di un cammino assai più lungo e complesso, può essere un fatto nuovo per il popolo della sinistra: naturalmente sappiamo che continua il lavoro bipartisan per introdurre un robusto sbarramento elettorale: serve a compiere il lavoro sporco, è la proiezione di quello sbarramento sociale che vuole marginalizzare le culture critiche e le alternative di società. A condizione che non sia la confezione di un partitino, ma solo un passaggio in una traiettoria di accumulo di forze e di esperienze. A condizione che non appaia, così come fu per l’arcobaleno, un patto di vertice e un manufatto del politicismo dei ceti politici. Serve che tutti e tutte ci facciamo carico, nel dare avvio al movimento per la sinistra, di una domanda di partecipazione diretta alle decisioni della politica, della nostra politica. La democrazia per noi non può essere né apparire una questione procedurale. Proviamo a sfidare noi stessi, a dire che nella rete che stiamo per tessere varrà sempre e comunque il principio di “una testa un voto”, che le primarie possono essere la regola e non l’eccezione della vita interna, che si vota non per finta ma per davvero. E che la democrazia è attraversamento dei territori, radicamento nei territorio, interrelazioni tra territori. Io penso ad una sinistra federale, a cantieri aperti, plurali, curiosi, includenti, che abitino nei territori. Penso ad una sinistra capace di presentarsi come una profezia laica, l’annuncio di tempi nuovi. Obama ha già cambiato il mondo, perché ha introdotto nell’immagine di politica che comunica, la suggestione ontologica del cambiamento, perché nel più ufficiale dei suoi discorsi si è sentito il congedo liberatorio dall’epoca dell’America texana delle sette evangeliche e dei petrolieri, dei gangster della speculazione borsistica e della bolla immobiliare, perché ha nominato la violenza razzista del mondo in cui è nato e cresciuto, perché ha esibito con naturalezza le prerogative di una democrazia che rifiuta qualsiasi torsione confessionale, perché ha delineato un intervento pubblico che mira a salvare l’economia reale piuttosto che la finanza creativa che ha ubriacato il mondo. Insomma, che la politica torni a essere pensiero, conoscenza, inchiesta, passione condivisa, reciproco affidamento, indignazione civile, prefigurazione di un mondo liberato.
Io le cose che ho detto, con sincerità e poca organicità, le ho dette per offrire una spiegazione del mio congedo dal mio partito. Non provo acrimonia verso Ferrero e il suo gruppo dirigente. Sono sereno perché faccio ciò che sento sia giusto fare. Rifondazione è stata la mia casa e questo addio non è un partire indolore. Voglio augurare ogni successo al mio ex partito. E a noi, a quelli di noi che condivideranno la mia scelta, voglio dire che non dobbiamo sentirci avversari di Rifondazione. E soprattutto ai compagni e alle compagne della nostra area che scelgono di continuare la propria lotta dentro al partito voglio esprimere gratitudine: per aver condiviso una bella battaglia, e perché sono certo che continueranno a battersi perché nasca una sinistra nuova. Una sinistra del lavoro e delle libertà. Che ingaggi un molecolare corpo a corpo contro la paura e contro la solitudine. Che ritrovi l’ago e il filo con cui cucire nuovi legami sociali, pezzi di comunità, movimenti che fanno politica coinvolgendo e accogliendo. Una politica che allunga i propri pensieri oltre lo spazio del presente. Una politica che ci aiuti a spartire il dolore e la gioia, che ci rispetti nella nostra fragilità e nella nostra unicità, che non ci trasformi in giudici sommari e in boia delle diversità, che non sia pensata e gestita al maschile, che non accetti barriere gerarchiche, che non escluda chi è diversamente abile, che non giudichi nessuno per la sua fede o per il suo orientamento sessuale, che non cerchi nemici. Una politica gentile, capace di ascoltare l’avversario, forte solo delle proprie idee e non forte di servizi d’ordine, una politica che cerca le persone in carne e ossa piuttosto che cercare il pubblico. Una politica che apre la questione della libertà in ogni millimetro di organizzazione sociale, a partire dal luogo di lavoro. Una politica che annuncia non il nostro primato ideologico ma il nostro amore per la terra e per la vita, che annuncia speranza, che si fa popolo, che ci dà il coraggio di osare una nuova avventura, un nuovo inizio, un altro partire. Auguri a tutti e a tutte.”

domenica 25 gennaio 2009

Inizia l'era Obama

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=8587

domenica 18 gennaio 2009

Il monologo di Pericle

In questo brano di Tucidide . tratto da “La guerra del Peloponneso”, è racchiuso e descritto il concetto di etica al quale io faccio riferimento.

Siamo all’inizio della guerra del Peloponneso – Atene è al massimo della sua potenza –: alla fine del primo anno Pericle commemora, secondo la tradizione della città, i caduti ateniesi. Tucidide utilizza questa occasione per far comprendere al lettore come gli Ateniesi “vivevano” l’éthos della loro città.
Tucidide, Storie, II

Su Youtube
http://it.youtube.com/watch?v=dHW2YaReTwY


Il brano è qui letto ed interpretato (con qualche “aggiustamento” artistico e politico) da Paolo Rossi.

Censurato in un primo tempo dalla RAI è stato poi mandato in onda grazie a Ballarò.



Monologo di Pericle - V sec A.C.

"Qui ad Atene noi facciamo così.

Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi per questo è detto democrazia.

Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle dispute private ma non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza, quando un cittadino si distingue esso sarà, a preferenza degli altri, chiamato a servire lo stato ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

La libertà di cui godiamo si estende alla vita quotidiana, noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre a fronteggiare qualsiasi pericolo

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private.

Ma in nessun caso si occupa delle pubbliche faccende per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così, ci è stato insegnato a rispettare i magistrati e c'è stato insegnato a rispettare le leggi,e di non dimenticare mai coloro che ricevono offesa; ci è stato insegnato a rispettare anche quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede soltanto nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso.

Un uomo che non si interessa allo stato non lo consideriamo innocuo ma un uomo inutile e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, tutti siamo in grado di giudicarla.

Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.

Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma che la libertà sia solo il frutto del valore

Insomma io proclamo Atene scuola dell’Ellade perché ogni cittadino cresce maturando in se stesso la fiducia in se stesso e la prontezza a fronteggiare qualsiasi evenienza ed è per questo che la nostra città è aperta ed è per questo che noi non cacciamo mai uno straniero.

Qui ad Atene noi facciamo così" .

Credenze e Concili

e quindi.. metto un pò di carne al fuoco


http://it.wikipedia.org/wiki/Cristianesimo


http://www.alateus.it/concil.html

I dieci comandamenti

non uso fare umorismo ma dopo essere finito su questo blog non ho potuto fare a meno di incollare questo pezzo molto esilarante.

A dirla tutta contiene dei concetti che ci farebbero parlare 2000 anni ... ma voglio solo farmi due risate...


http://lapostadipadrejoseph.blogspot.com/2009/01/un-po-di-chiarezza-sui-dieci.html

16 gennaio 2009

Catechistico Joseph,
sono un'assidua osservante dei Dieci Comandamenti imposti all'umanità intera da Nostro Signore Iddio, così come mi sono stati insegnati al catechismo fin da bambina:


Io sono il Signore Dio tuo:
1. Non avrai altro Dio fuori di me.
2. Non nominare il nome di Dio invano.
3. Ricordati di santificare le feste.
4. Onora il padre e la madre.
5. Non uccidere.
6. Non commettere atti impuri.
7. Non rubare.
8. Non dire falsa testimonianza.
9. Non desiderare la donna d’altri.
10. Non desiderare la roba d’altri.

Può immaginare la mia sorpresa quando, leggendo la Bibbia, ed esattamente Esodo 20:2-17, mi sono ritrovata davanti dei comandamenti completamente diversi:

1) Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me.
2) Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
3) Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano; perché il Signore non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.
4) Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa’ tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Dio tuo.
5) Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà.
6) Non uccidere.
7) Non commettere adulterio.
8 ) Non rubare.
9) Non attestare il falso contro il tuo prossimo.
10) Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo.

Come vede le differenze sono sostanziali: il secondo vero comandamento è stato completamente cancellato, e per conservare il numero di 10 è stato sdoppiato l'ultimo. A parte rimarcare la differenza tra adulterio (peccato ben definito) ed atti impuri (che secondo la chiesa può essere qualunque cosa che lei decida possa essere) e tra santificare le feste e santificare il giorno del riposo, ossia il settimo della settimana e non solo le feste comandate, mi preme soffermarmi su un altro punto. Parliamo del secondo comandamento: perchè sia stato cancellato è evidente, se fosse osservato bisognerebbe svuotare tutte le chiese di crocefissi, santi e madonne, che hanno come unico fine l'idolatria. Ho chiesto lumi al mio parroco e lui mi ha detto che in realtà il secondo comandamento è riservato solo agli ebrei. Quando gli ho risposto che Dio dice sempre di parlare a Tutti Gli Uomini , che i comandamenti devono essere orrervati da Tutti Gli Uomini e che condanna duramente chi osa alterare le sue parole (Deuteronomio 4:2, “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla") mi ha contestato che, essendo femmina, non so leggere e non sono qualificata a discutere certi argomenti. Può essere almeno lei esaustivo su una questione che ritengo basilare per ogni bravo cattolico osservante?
Osservantina




Tonna impiccionen,
per kvale motifen tu messa a leccere Pippia? Forse tu Testimonen ti Ceofen? Prafo katoliken, specie se femminen, no lecce Pippia ma lascia ke sia suo parroken a fare per elo, kosì efitare katifa interpretazionen und polemiken sterilen et stupiten kome kvesta. Kome tu sa Pippia fa interpretaten, no fa presa alla letteren, no è mika Fancelo! No è mika parola ti Tio! E ke io sappia interperetazionen ti macisteren katoliken est la più korretten, o kvanto menen la più rettitizien.
Su atulterien noi presa pikola licenzen poetiken perkè kosì noi potere inklutere in pekkaten anke finokkien. Se lasciare komantamento kome era in oricine si potefa punire solo tratitoren ti moglie und mariten, e finokien lipero ti fare kvelo ke fuole kon suo magnifiken korpen... ehm. In kvesto moto noi potere instillaren terroren anke in pimpo ke fa pugnetten, e tu no fuole ke tuo pimpo fa pugnetten, fero?
Per kvanto rikuarta sekonten, noi fife in società ti imacine e prafo katoliken ha pisognen ti fetere imacinen ti Kristen, sua mammen et altri, per esere sikuren ke loro esiste.
Per tutte kveste racionen io può konsigliare te ti risolfere kvestionen, ke no ha racione ti esseren, smetento di leccere Pippia e ta prafa tonnicciolen tu può tornaren in kiesa a paciare piete sankuinolenten ti krocefissen in segno ti sottomissionen. Io pertona te. Rikorta oferta und otto per millen, thanke.

Quella verità su Al Qaeda in Bosnia

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=8558


Quella verità su Al Qaeda in Bosnia che l'Occidente non vuole sentire - 17/01/09
di Simone Santini - da www.clarissa.it

Ha dell'incredibile la vicenda di Ali Hamad, il comandante dell'armata Mujaheddin, la componente islamica dell'esercito bosniaco che combatté durante la guerra civile nella ex Jugoslavia negli anni '90, e che, pur essendosi auto-accusato di terrorismo e stragi, è stato dichiarato innocente dalle autorità di Sarajevo.

Ali Hamad racconta (1) di essere entrato nella organizzazione Al Qaeda all'età di diciotto anni, e di essere arrivato in Bosnia, via Croazia, nei primi anni '90, entrando in un campo di addestramento da cui sono transitati tutti i maggiori capi dell'organizzazione di Bin Laden. Col grado di colonnello e comandante della milizia mujaheddin, ha combattuto contro serbi e croati, rivelando alle autorità luoghi di fosse comuni, eccidi contro la popolazione civile serba, testimoniando contro i crimini del comandante dell'Esercito bosniaco Rasim Delic, processato all'Aja per strage e crimini di guerra.
Il Tribunale della Bosnia Erzegovina, nonostante tutto, la ha dichiarato innocente, e Hamad dice: "Sono un terrorista, ho fatto tante stragi, ma loro mi vogliono convincere che io non sono tutto quello che dico, che sono innocente".
A Sarajevo si vogliono liberare di questo personaggio che si ostina a voler rivelare verità che nessuno vuol ascoltare. Dopo essere stato sotto controllo per anni da parte del centro per l'immigrazione bosniaco, ora si stanno approntando le carte per il suo rimpatrio in Bahrein. Ma Hamad non ne vuol sapere, e chiede rifugio in Serbia, "sempre che le autorità di quel paese siano interessate ad indagare sui crimini dei mujaheddin" dichiara.
Se la vicenda di Hamad è paradossale, chissà se generata da rimorsi di coscienza o dal disperato tentativo di un uomo, diventato ormai inutile e scomodo, di ritagliarsi ancora un ruolo che possa magari salvargli la vita, le sue verità hanno già trovato nel tempo innumerevoli riscontri. Sono ormai centinaia i documenti, gli articoli, le analisi che ricostruiscono la presenza e le attività di Al Qaeda nei Balcani in quegli anni, in Bosnia prima ed in Kosovo poi.
Fra tutti, vogliamo ricordare due studi, fondamentali per la loro autorevolezza ed accuratezza.
Peter Bergen (2), autore del volume "Osama Bin Laden I Know", è considerato uno dei massimi esperti occidentali di Al Qaeda e Osama Bin Laden. Nel libro rivela come nel 2002 la polizia bosniaca abbia scoperto degli importantissimi documenti nelle città di Sarajevo e Zenica, verbali che addirittura documentano la nascita dell'organizzazione terroristica, le sue strutture portanti, e la cosiddetta "catena d'oro", ovvero i nominativi dei massimi finanziatori. Il materiale, tenuto nascosto all'opinione pubblica fino alle rivelazioni di Bergen, era stato rinvenuto presso gli uffici di una organizzazione umanitaria islamica, denominata BIF (Bosanska Ideala Futura) il cui direttore era Munib Zahiragic, ex imam e soprattutto ex agente dell'AID, i servizi segreti della componente bosniaca musulmana. Questa organizzazione, BIF, altro non era che una derivazione locale di una sorta di multinazionale che assisteva e finanziava attività terroristiche e di intelligence, e le cui principali sedi si trovavano negli Stati Uniti, a Chicago, ed in Arabia Saudita. Anche grazie al ritrovamento dei documenti in Bosnia, il responsabile dell'organizzazione a Chicago, Enaam Ernaout, è stato arrestato dall'FBI per i suoi legami con Al Qaeda ed il finanziamento di alcune strutture paramilitari islamiche, come, appunto, i "Cigni Neri" della Bosnia Herzegovina.
Jürgen Elsässer è un giornalista investigativo tedesco autore del volume "Come la Jihad è arrivata in Europa". Nel suo studio esamina come l'Occidente abbia sponsorizzato il terrorismo islamico nei Balcani e come questo meccanismo sia arrivato poi fino agli attentati dell'11 settembre e oltre.
Dice Elsässer nel corso di una intervista: "Altri libri avevano già sottolineato la presenza nei Balcani di Osama Bin Laden, ma gli autori avevano presentato i combattenti musulmani come nemici dell'occidente. Le informazioni che ho raccolto da molteplici fonti dimostrano che questi jihadisti sono marionette nelle mani dell'Occidente, e non, come si pretende, nemici. [...] Gli attacchi dell'11 settembre sono una conseguenza della politica occidentale negli anni '90, quando la NATO mise in piazza nei Balcani i jihadisti e collaborò con loro. I militanti musulmani che sono stati indicati come responsabili degli attacchi dell'11 settembre facevano parte di questa rete. [...] Ho studiato la figura di Al Zawahiri, il braccio destro di Bin Laden, che era il capo delle operazioni nei Balcani. Agl'inizi degli anni '90 aveva percorso in lungo e in largo gli Stati Uniti in compagnia di un agente dell'US Special Command per raccogliere fondi destinati alla Jihad; l'uomo sapeva perfettamente che la raccolta di fondi era un'attività sostenuta dagli Stati Uniti. [...] La rete terroristica creata dai servizi segreti americano e britannico durante la guerra civile in Bosnia, e più tardi in Kosovo, ha rappresentato un serbatoio di militanti, che troviamo poi implicati negli attacchi di New York, Madrid e Londra. [...] Dopo la fine della guerra in Afghanistan, Osama Bin Laden ha reclutato questi jihadisti militanti. Era il suo lavoro: è stato lui che li ha addestrati, con il parziale sostegno della CIA, e li ha mandati in Bosnia. Gli americani hanno tollerato il legame tra il presidente Izetbegovic e Bin Laden. Due anni più tardi, nel 1994, gli americani hanno cominciato a inviare armi, in un'operazione clandestina comune con l'Iran. Dopo il trattato di Dayton, nel novembre 1995, CIA e Pentagono hanno reclutato i migliori jihadisti che avevano combattuto in Bosnia. [...] Ho analizzato le testimonianze di alcuni jihadisti interrogati dai giudici tedeschi. Hanno dichiarato che dopo il trattato di Dayton, in virtù del quale tutti gli ex combattenti stranieri dovevano lasciare il paese, si erano ritrovati senza soldi e senza un posto dove andare. Quelli che potevano rimanere in Bosnia, perché avevano ricevuto un passaporto bosniaco, erano senza soldi e senza lavoro. Il giorno in cui i reclutatori hanno bussato alle loro porte offrendo uno stipendio di 3.000 dollari al mese per servire l'armata bosniaca, non si sono resi conto di essere in realtà stati reclutati e pagati da emissari della CIA per servire gli Stati Uniti" (3).
Riscrivere la storia dei Balcani negli anni '90 significherebbe fare luce su implicazioni e responsabilità davvero profonde, che l'occidente vuole tenere nascoste alla grande massa dei cittadini. Per questo personaggi come Ali Hamad devono rimanere nell'oscurità ed essere ritenuti innocenti anche quando confessano i propri crimini.

(1) Rinascita Balcanica, 14 gennaio 2009
(2) Osservatorio Balcani, 25 gennaio 2006
(3) Voltaire Net, 15 giugno 2006

L’iPod, il riduttore di comunicazione

http://www.sferapubblica.it/dblog/articolo.asp?articolo=1038

L’iPod, il riduttore di comunicazione: come il lettore Apple incide sull’orientamento politico
Di Stefano Iannaccone (del 18/01/2009 @ 12:06:52, in Tecnoriflessioni - osservazioni sui nuovi media, letto 13 volte)
Salire in metro, cercare un posto, chiacchierare con un vicino: sino a qualche anno fa erano azioni (quasi) consequenziali. Una procedura meccanizzata dai risvolti fondamentali dal punto di vista sociologico. I mezzi di trasporto divenivano, difatti, uno strumento rilevante per la comunicazione interpersonale che, come evidenziano prestigiose ricerche politologiche, ricoprono una funzione considerevole in termini di orientamento di voto, soprattutto in un’epoca di consenso altamente volatile. Tuttavia, tale forma di socializzazione tende ad allentare il livello di incidenza, a causa di un oggetto ormai comune nella nostra società: l’iPod della Apple o in generale il lettore mp3.

Il primo punto di rottura è rappresentato dal radicale mutamento apportato nella fruizione musicale, spiegabile con lo stravolgimento della razionalità nell’ascolto di un cd attraverso l’opzione random. È difficile immaginare che un utente selezioni brani nell’ordine stabilito dall’artista dalla prima all’ultima traccia: si tratta una modifica che in determinati casi (per esempio i concept album) assurge a una ristrutturazione dell’opera immessa sul mercato, modificandone i codici comunicativi insiti nella composizione. Un aspetto che ha richiesto sostanziali variazioni nel mercato discografico con un rafforzamento della vendita on-line di versioni mp3, che hanno smaterializzato il supporto della fonte musicale.

Al di là delle rivoluzioni connesse alla caratteristica propria del lettore, l’osservazione di maggior rilevanza, sotto il profilo della comunicazione, concerne l’influenza esercitata sui rapporti individuali. Il depotenziamento del ruolo socializzatore degli incontri interpersonali incide anche sulla formazione culturale (e politica) dell’individuo. Un’esemplificazione potrebbe essere fornita dalla riduzione delle discussioni “pubbliche casuali” come mezzo di conoscenza delle situazioni altrui e degli eventi in generale. In altre parole: il tipico fenomeno del dibattito su un autobus (o metro o treno) di un evento politico si assottiglia, a causa del maggior utilizzo dell’iPod come compagno di viaggio. Il “superlettore” Apple assume, dunque, un valore simbolico di riduttore della comunicazione e di conseguenza del ruolo degli opinion leader (e di knowledge sharing) nelle relazioni pubbliche. Il prodotto dell’azienda di Cupertino, insomma, si pone come un elemento tecnologico che spinge alla personalizzazione contrapposta alla socializzazione.

Quale informazione





















quando si capirà davvero l'importanza dell'informazione solo allora si potrà agire per ottenerla.



http://www.lsdi.it/2009/01/15/come-ti-manipolo-le-foto/


Come ti manipolo le foto
in Fotogiornalismo
di Redazione | 15 Gennaio 2009







Polemiche e accuse contro il Giornale per una plateale operazione di smontaggio e montaggio di due fotografie sulla sanguinosa campagna militare israeliana nella striscia di Gaxa - L’ AP: ”il contratto che i giornali firmano prevede l’immodificabilità delle immagini, a garanzia del codice etico che l’agenzia si è dato e che si impegna a rispettare”.

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Non è stata citata la fonte, si è ignorata la didascalia originale, ma, soprattutto, si sono “arricchite” arbitrariamente le fotografie eliminando gli elementi che si riteneva “di disturbo” e aggiungendo elementi estranei alla situazione reale, facendo un’opera di fotomontaggio che attiene all’ illustrazione e non alla cronaca.

E’ la denuncia fatta da ‘‘Fotografia&Informazione” in relazione alla manipolazione di due foto dell’ AP sulla sanguinosa campagna militare israeliana nella striscia di Gaxa compiuta nei gioorni sorsi dal Giornale.

L’ operazione di smontaggio e montaggio ha sollevato nel mondo del fotogiornalismo italiano forti polemiche.

Molto secco l’ intervento di FPA (Fotoreporter professionisti Associati), che mostra naturalmente le foto pubblicate dal quotidiano e gli originali.

”Inizia un nuovo anno ed ecco che il "Giornale" del 31-12-2008 e del 5-1-2009 pubblica 2 foto visibilmente contraffatte.
(…)
Le foto erano pubblicate senza alcun credito e senza nessuna indicazione del tipo "Foto modificata" o "Fotomontaggio".
Noi al contrario citiamo la fonte delle fotografie cioè l’agenzia Associated Press.
Ringraziamo tutti i visitatori del nostro sito e invitiamo i nostri soci a monitorare Il Giornale, e altre testate, per segnalare eventuali manipolazioni”.

Vari i commenti e le denunce arrivate, fra cui quella di Paolo Mancini: ”già che ci siamo segnalo allora anche la foto di una bambina palestinese colpita in ospedale che compare sull’espresso di questa settimana sulla guerra a ghaza. peccato che la foto sia vecchia di due anni e sia relativa al conflitto precedente col libano”.

”Fotografia&Informazione”, da parte sua, sottolinea come l’ operazione sia stata compiuta ”tentando di cammuffarla con didascalie descrittive ma fuorvianti (abitudine sulla quale abbiamo già scritto in un recente speciale). Associated Press (che detiene i diritti delle due foto principali) e LaPresse (che distribuisce in esclusiva per l’Italia il materiale di AP) dichiarano di aver chiesto chiarimenti in merito e specificano: "il contratto che i giornali firmano prevede l’immodificabilità delle immagini, a garanzia del codice etico che l’agenzia si è dato e che si impegna a rispettare".

Secondo il sito la motivazione principale sarebbe stata determinata ”dall’ intento di sostenere e giustificare una delle parti in causa (Israele), necessità che prevale sulla correttezza del racconto dei fatti. Se un redattore si può permettere di manipolare così immagini realizzate da terzi, cosa potrà mai fare chi riporta la realtà solo con le sue parole?”

”Fotografia&Informazione”, inoltre, coglie l’ occasione per denunciarer ancora una volta ”la diffusa brutta abitudine dei giornali italiani di non citare fonti, crediti, autori e di alterare o ignorare le didascalie facilita la considerazione che si tratti di operazioni in qualche modo lecite”.

Ci auguriamo che l’attenzione dei lettori italiani sia sempre più pronta ad accorgersi di queste storture e che la sensibilità e la correttezza degli operatori della comunicazione migliori e diventi garanzia di onestà. Nel frattempo speriamo che siano presi provvedimenti per impedire al Giornale di continuare a fare giornalismo in questo modo”.

Sulla vicenda si muoverà ora l’ Ordine dei giornalisti di Milano, come ha assicurato la sua presidente, Letizia Gonzales.

Una nuova arma a Gaza

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=8547

sabato 17 gennaio 2009

Bring the Inauguration to Your Community

http://www.pic2009.org/page/content/yourinauguration

venerdì 16 gennaio 2009

Economia USA e crisi

http://www.nuvole.it/index.php?option=com_content&view=article&id=317:joseph-halevi&catid=70:numero-35&Itemid=61

Economia USA e crisi

di Joseph Halevi

La dinamica della crisi economica statunitense va affrontata da un punto di vista storico. Contrariamente a quanto di norma si ritiene, tale crisi non è un problema interno degli Stati Uniti propagatosi poi all’esterno, ma è il frutto dei rapporti che si sono sviluppati nel tempo fra gli Usa e il resto del mondo. Il crescente indebitamento estero, che ha alimentato la domanda interna degli Usa a partire dal 1971, è stato l’elemento trainate anche della domanda delle economie industrializzate, in particolare Europa e Giappone e, successivamente, della Cina. La situazione attuale, dunque, non può essere compresa se non si considera l’interesse di tali paesi a dirigere il loro flusso di esportazioni verso gli Stati Uniti.

Questi i concetti economici che stanno alla base della nostra analisi:

- l’accumulazione capitalistica è vincolata dalla domanda e solo occasionalmente dall’offerta di materie prime o di lavoro;

- i prezzi, come insegna la teoria di Paolo Sylos Labini, si formano sulla base dei margini di profitto che le imprese riescono a caricare sui costi grazie al loro potere oligopolistico. Non vi è nessun legame sistematico tra margini di profitto e investimenti produttivi.

Da quanto sopra enunciato discende che non vi sono leggi generali che spiegano l’andamento dell’economia e quindi l’unico approccio possibile è quello storico.

Premettiamo che la crisi attuale non è americana, bensì mondiale. Gli Stati Uniti ne sono il fulcro, semplicemente perché gli altri blocchi e paesi, dall’Unione Europea alla Cina e al Giappone, hanno scientemente incentrato il loro processo di accumulazione capitalistica sul grande paese d’oltre oceano. I tentativi delle classi dirigenti politiche europee di scaricare sugli USA la responsabilità principale della crisi, dopo almeno due decenni di elogi del sistema finanziario americano e della flessibilità del mercato del lavoro (che in pratica ha significato la caduta dei salari), è pura demagogia populista simile a quella che negli anni della Grande Depressione portava gli allora governi d’Italia e di Germania a denunciare le ‘plutocrazie’ anglosassoni.

Il ruolo centrale degli USA nell’economia mondiale è divisibile, dal 1940 in poi, in due fasi1. La prima fase va dal 1940 al 1971 e termina con l’annuncio da parte del Presidente Richard Nixon della fine del cambio fisso tra dollaro e oro e, di conseguenza, del cambio fisso tra il dollaro e le monete dei paesi capitalistici ‘avanzati’. In questa fase l’azione USA a livello mondiale ha un effetto trainante sulle economie capitalistiche avanzate, Europa occidentale e Giappone, e sui paesi di nuova industrializzazione come la Corea del Sud e Taiwan. Lo scontro militare ed economico avviene nei confronti dell’ex-periferia coloniale, in quanto dal Piano Marshall alla ricostruzione dell’economia nipponica, gli USA operano con uno schema in cui il ruolo delle ex colonie e dell’America latina rimane quello, assai incongruente, di fornire simultaneamente materie prime a basso prezzo e funzionare da mercato per i prodotti industriali occidentali. La politica americana viene condotta attraverso la spesa pubblica militare sia in relazione a guerre vere (Corea a Vietnam) sia in relazione alle alleanze politiche (Nato, Giappone, Corea, Taiwan). La massiccia spesa USA genera un enorme effetto moltiplicativo sia sul mercato interno sia nei paesi occidentali. Negli Stati Uniti il periodo fino al 1960 si caratterizza per una crescita del consumo inferiore al prodotto nazionale lordo a causa della grande espansione del complesso oligopolistico militar-industriale. I salari reali tuttavia aumentano grosso modo allo stesso ritmo della produttività, per cui il potere d’acquisto della popolazione si accresce senza creare problemi di indebitamento. Tale trend positivo arriva all’apice nel pieno della guerra del Vietnam grazie alla quale l’industria raggiunge un tasso di utilizzazione della capacità produttiva di oltre il 90%, un limite che non verrà mai più toccato dopo la svolta del 1971. In questo periodo la quota dei salari sul prodotto interno lordo aumenta malgrado il conflitto nel sudest asiatico. Negli anni Sessanta, sebbene lo scambio di merci fosse ampiamente attivo, la bilancia dei pagamenti Usa si deteriora a causa del saldo passivo delle partite invisibili (servizi e trasferimenti). Col regime di cambi fissi allora vigente, squilibri anche piccoli non corretti hanno effetti cumulativi che riducono i margini della politica economica e creano un problema di credibilità per il dollaro, apertamente denunciato da de Gaulle nel 1965. Ne scaturisce la decisione di Nixon di abbandonare Bretton Woods quando alla crisi politica indotta dalla guerra nel Vietnam si aggiunge il passivo della bilancia dei pagamenti.

La svolta del 1971 apre la seconda fase che forse sta terminando con questa crisi e che si contraddistingue per la non cooperazione economica degli USA con l’Europa e il Giappone, mentre questi restano legati a Washington attraverso le esportazioni. I mutamenti avvenuti nel 1971 si concretizzano in una scelta di fondo che unifica politica economica, sistema finanziario e posizione militare degli USA solo con l’elezione di Ronald Reagan nel 1980. La scelta della presidenza Reagan è quella di trasformare il fronte interno nel perno della forza internazionale degli Usa. Viene dunque gettata alle ortiche l’alleanza big business-big unions che aveva contraddistinto il periodo 1940-71 e che era sopravvissuta in maniera anemica nel decennio Nixon-Ford-Carter. Come recentemente ammesso da Paul Volcker, presidente della Banca Federale durante il primo mandato di Reagan, la disinflazione di quel periodo non è il risultato della politica monetaria restrittiva, bensì il prodotto dell’attacco frontale ai sindacati durante la grande crisi occupazionale del 1981-1982. Il ruolo della politica monetaria è quello di riproporre la centralità forte del dollaro sul piano internazionale e di aprire spazi alle grandi imprese oligopolistiche per ristrutturarsi e delocalizzarsi su una base geografica mondiale. Quasi contemporaneamente il rilancio della spesa pubblica militare di Reagan ristabilisce il ruolo centrale del complesso militar-industriale il cui orientamento era entrato in crisi con la fine della guerra del Vietnam, con i trattati Start che limitavano lo sviluppo missilistico, ed infine con la sconfitta iraniana nel 1979. Quest’ultima, di gran lunga più grave della vicenda vietnamita, colpisce il complesso militar-industriale in quanto lo Scià era uno dei maggiori destinatari delle esportazioni di armamenti ai massimi livelli di innovazione tecnologica. Danneggia anche il complesso della multinazionali USA del petrolio. Inoltre la perdita dell’Iran colpisce in maniera considerevole il circuito finanziario dei petrodollari e il loro collocamento nelle banche USA. Con la politica Volcker-Reagan gli interessi dei settori militar-industriali, energetici e finanziari vengono accorpati in una strategia coerente che va a scapito dei salari e della produzione industriale civile nazionale.

Cosa accade a questo punto? La politica reaganiana, caratterizzata da alti tassi di interesse, elevato deficit pubblico e alto valore del dollaro, porta a un rilancio della domanda interna, a una delocalizzazione massiccia e a un notevole aumento delle importazioni. La delocalizzazione e l’outsourcing trasformano gli USA in un’economia globale d’importazione ove il deficit estero continua a espandersi anche quando il dollaro riprende a calare dopo gli accordi del Plaza del 1985. In questo contesto si cementa la tossicodipendenza dal mercato statunitense dell’Europa, del Giappone, dell’est e sudest asiatico. Per l’Europa non Deutschland le esportazioni nette verso gli USA costituiscono la via di scampo che salva la bilancia commerciale, altrimenti in deficit nei confronti della Germania. Quest’ultima infatti realizza in Europa enormi avanzi commerciali. In Giappone, Corea ed Europa, in momenti diversi, viene compressa la domanda interna e la domanda globale dipende essenzialmente dall’American Dream. La funzione e l’obiettivo di questi paesi diventano prevalentemente quelli di riciclare il deficit statunitense in direzione degli USA stessi. Ma negli anni Ottanta irrompe il capitalismo cinese tramite accordi diretti con Washington (infatti alla Cina, già ammessa nel 1980 al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, viene subito conferito lo stato di nazione favorita). Negli anni Novanta l’uovo si rompe ed invece di un pulcino esce un aquilotto famelico che si prende assai rapidamente il grosso delle importazioni nette USA. La strategia di Europa e Giappone non funziona più, ma tali paesi si sono nel frattempo privati di alternative economiche e istituzionali, per cui non possono che continuare nella stessa direzione: puntare sulla domanda estera netta USA.

Gli USA devono quindi crescere per assorbire le esportazioni mondiali. Ed in effetti lo fanno, ma come? Prendiamo come riferimento le serie storiche pubblicate annualmente nell’Economic Report of the President (edizione 2008, disponibile in rete). Tra l’anno di partenza della serie, il 1959, ed il 1980, l’aumento del prodotto interno lordo USA è leggermente inferiore alla crescita del reddito personale diponibile (cioè il reddito della famiglie al netto delle tasse). Quest’ultimo aumenta più rapidamente della spesa per consumi. Quindi nell’insieme il bilancio corrente delle famiglie migliora. Dopo il 1980 il reddito disponibile aumenta meno del prodotto interno lordo, ma la spesa per consumi cresce significativamente di più del prodotto lordo. Ne consegue che la tendenza del reddito disponibile è opposta a quella della spesa delle famiglie. E’ in questo divario che si inserisce il crescente indebitamento americano. Sarebbe tuttavia fuorviante concludere che l’espansione della spesa per consumi sia dovuta ad una frenesia irrazionale. Essa scaturisce dalle condizioni materiali di vita negli Usa, in particolare dall’aumento vertiginoso delle spese mediche, cui si deve sommare la crescita delle spese per l’istruzione. Nei confronti delle prime il rapporto del presidente fornisce solo i dati nominali, mentre non riporta gli esborsi per le seconde. Usando le spese mediche e considerando che la dinamica dei rapporti tra prodotto lordo nominale e spesa nominale per consumi da parte delle famiglie non si discosta molto dalla serie reale, osserviamo che il peso delle spese per la sanità sul totale dei consumi, passa dal 5% nel 1959, all’8% del 1980, al 17% del 2006. La dimensione del problema che conduce il lavoro dipendente non dirigenziale nel vortice dell’indebitamento, si percepisce osservando l’andamento del rapporto tra il reddito salariale lordo ed il reddito lordo delle famiglie nel loro complesso. Tale rapporto raggiunge il massimo nel 1970 toccando il 73%, poi scende gradualmente fino a toccare il 67% nel 2006.

Dopo il 1970 gli Usa accentuano la loro trasformazione in un’economia trainata dai consumi, per cui la composizione del prodotto lordo è vieppiù determinata dai settori dei beni di consumo. Tuttavia il reddito lordo delle famiglie – e quindi anche quello disponibile – cresce meno del Pil. Se la spesa per consumi si fosse limitata alla dinamica del reddito disponibile e di quello salariale in particolare, la crescita del Pil sarebbe stata inferiore e la tendenza alla stagnazione sarebbe presto emersa. L’economia della bolla speculativa si annida nel divario crescente tra il reddito delle famiglie e le percepite necessità di spesa da un lato e la reale tendenza alla stagnazione dall’altro. La formazione della bolla è stata resa a sua volta possibile dalle politiche monetarie e fiscali. Non si tratta però unicamente di un’idea geniale di Alan Greenspan, per il quale l’alleggerimento fiscale per le classi abbienti e il credito facile dal rischio assicurato attraverso le cartolarizzazioni diventano lo strumento principale per rafforzare sia i rapporti di classe che la dinamica economica. La costruzione di una bolla creditizia si impone durante tutti gli anni Ottanta e Novanta di fronte al riprodursi di una fragilità finanziaria sconosciuta nei precedenti decenni. Assistiamo infatti al fallimento della banca Continental Illinois agli inizi degli anni Ottanta, al crollo di Wall Street nel 1987, al recupero dal fallimento di oltre cento banche texane nel 1988, al salvataggio delle Savings and Loans nel 1989, delle società finanziarie USA impelagatesi in Messico nel 1995, fino alla megaoperazione di rifinanziamento della Long Term Capital nel 1998. Ognuna di queste azioni richiede una grande elargizione di liquidità, in cui le istituzioni interessate non sono in pratica tenute a rimborsare i denari. Tale ‘politica’ instaura volutamente un clima di rischio morale spingendo le società finanziarie ad allargare la cerchia dei clienti, coadiuvate da misure legislative che cancellano le barriere che impedivano alle banche commerciali di giocare in borsa.

Tuttavia, anche l’espansione del rischio morale riguarda un processo che ha radici nella realtà dell’economia. Non si tratta pertanto unicamente di errori o eccessi. Ad ogni manifestazione della fragilità finanziaria si aprono delle crisi e dei fallimenti di organismi il cui recupero richiede l’apertura di altri terreni di azione. Le crisi bruciano delle fonti di lucro, mentre le massicce iniezioni di liquidità offrono la possibilità di far fruttare i soldi coinvolgendo altri strati sociali nel processo di indebitamento, contando sulla dispersione del rischio attraverso i cosiddetti ‘veicoli di investimento complessi’. Senza l’allargamento della sfera di potenziale contagio la stagnazione riemergerebbe attraverso la dinamica del prodotto lordo verso quella, più contenuta, del reddito personale. In effetti la bolla appare sostenibile fintanto che la componente principale si situa nel settore finanziario per cui l’instabilità si presenta come un crisi di liquidità. Ma già con la crisi delle società ‘tecnologiche’ dotcom del 2000, simile alle crisi di sovrainvestimento nelle ferrovie private alla fine del diciannovesimo secolo, il problema comincia a diventare reale. L’economia viene però rilanciata combinando l’emissione illimitata di liquidità in seguito all’attacco al World Trade Center di New York il 9/11/2001 con il vasto rilancio del deficit di bilancio connesso alla spesa militare per le guerre in Afghanistan ed in Iraq. La quantità di liquidità disponibile permette di allargare le maglie dell’indebitamento ad ulteriori strati di popolazione, proprio quelli più insolventi, che non potranno (nel 2007) pagare i debiti facendo così crollare il castello di carte.

Si tratta di un meccanismo unico, in cui scompare la dicotomia tra interno ed estero. Le imprese USA delocalizzano ed usufruiscono del potere oligopolistico per ottenere i margini di profitto desiderati attraverso la catena di valorizzazione. Produrre in Messico o in Cina permette di mantenere prezzi abbordabili per una popolazione (quella USA) i cui salari reali sono in calo e per la quale capitoli di spesa come la sanità e l’istruzione sono un vero incubo. I paesi con la domanda interna stagnante e la Cina contribuiscono attivamente alla rivitalizzazione di tale meccanismo. Acquistano titoli USA che permettono a Washington di allargare il deficit estero senza pressione sui propri tassi di interesse, rendendo pertanto possibile l’erogazione di ulteriori prestiti interni in un contesto ove la base di reddito diventa, assurdamente, un aspetto secondario nella concessione di crediti. E’ un meccanismo globalmente fallimentare il cui fulcro era negli USA, ma che Washington da sola non avrebbe potuto mantenere così a lungo.

* Joseph Halevi insegna Economia all’Università di Sidney ed è collaboratore de “Il Manifesto”.

[1] Nel 1940 entra in vigore il programma lend and lease con il quale gli USA finanziano lo sforzo bellico britannico. La disoccupazione americana comincia a calare rapidamente ponendo fine alla Grande Depressione.

La destra religiosa americana tra Bush e Obama

http://www.nuvole.it/index.php?option=com_content&view=article&id=313:la-destra-religiosa-americana-tra-bush-e-obama&catid=70:numero-35&Itemid=61

La destra religiosa americana tra Bush e Obama

di Luca Ozzano*

1. Religione e politica negli USA

In questo inizio di XXI secolo, la religione appare stabilmente una componente centrale del dibattito politico americano. Quando è iniziato questo influsso? In senso lato, il discorso religioso (a livello simbolico e retorico) è inscindibilmente associato al patriottismo americano dalle origini stesse della nazione. Questo fenomeno è stato descritto da Robert Bellah con il termine rousseauiano “religione civile” (civil religion), ovvero quel collante di idee religiose comuni a tutte le tradizionali confessioni americane (dai protestanti ai cattolici, dagli ebrei ai mormoni) che sta alla base della nazione americana ed è celebrato quotidianamente nella retorica politica.

In senso stretto, tuttavia, la religione in quanto forza organizzata ha fatto il proprio ingresso nella politica americana in tempi relativamente recenti. Dopo una breve mobilitazione del nascente movimento fondamentalista negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale1, le istanze della destra religiosa rimasero in uno stato di quiescenza per diversi decenni. Tuttavia, l’idea propugnata da alcuni studiosi che l’America si fosse veramente secolarizzata si dimostrò errata. Semplicemente, non esistevano ragioni abbastanza forti perché il sentimento religioso conservatore venisse alla superficie, in un paese che sotto molti punti di vista rimaneva ancorato ai suoi principi tradizionali.

Il secondo dopoguerra cambiò questo stato di cose, in seguito a profonde trasformazioni socioeconomiche, che da un lato mutarono in peggio lo status sociale di larga parte della classe media bianca, dall’altro introdussero – con il movimento per i diritti civili – nuove domande sulla scena politica.

Questo riorientamento della cultura e della mentalità americane si consolidò, fra gli anni ’60 e gli anni ’70, prima con la protesta contro la guerra in Vietnam, e poi con una serie di sentenze della Corte Suprema che incisero profondamente su diversi aspetti della vita sociale legati alla sfera morale e personale. La Corte, compiendo per via giudiziaria quanto nessuna maggioranza politica sarebbe probabilmente stata in grado di realizzare, decretò, nel caso Engels v. Vitale (1962), l’incostituzionalità della preghiera e, in Schempp v. Murray (1963), l’incostituzionalità della lettura della Bibbia nelle scuole pubbliche; ma, soprattutto, nel celeberrimo caso Roe v. Wade (1973), stabilì l’incostituzionalità delle norme che vietavano l’interruzione volontaria di gravidanza in base al diritto alla privacy.

Queste innovazioni – percepite dalla popolazione dell’“America profonda” come un attacco portato dalle élites secolarizzate ai valori tradizionali e all’ordine sociale e familiare – provocarono una reazione spontanea, che si tradusse, già all’inizio degli anni ’70, nella nascita di numerose associazioni di base. Le élites e il mondo dei media si accorsero poi dell’esistenza di una vasta fetta di America non laicizzata nel 1976, quando venne eletto alla Presidenza il democratico Jimmy Carter, che pur essendo politicamente progressista apparteneva a quel mondo religioso evangelical comunemente stereotipato come patria di bifolchi illetterati. Questa scelta politica di segno democratico – in completa antitesi rispetto alle attuali tendenze elettorali – si spiegava con il tradizionale ancoraggio nel sud conservatore del partito di Carter, che solo negli anni ’60 con Kennedy aveva mutato in senso progressista il proprio programma.

2. Nascita ed evoluzione della destra cristiana

Anche il Partito Repubblicano (che a sua volta si andava trasformando in senso conservatore) comprese la rilevanza di un bacino di voti fino allora poco considerato. Furono alcuni suoi esponenti, infatti, a creare alla fine degli anni ’70 l’embrione di quella che oggi conosciamo come Christian Right, coinvolgendo nella lotta politica importanti telepredicatori e ideologi cristiani conservatori come Jerry Falwell, Pat Robertson e Tim LaHaye, e inducendoli a creare importanti organizzazioni di base, fra le quali la più potente e celebre, almeno fino agli anni ’80, fu la Moral Majority di Jerry Falwell. Ebbe così inizio, proprio negli anni del boom reaganiano, la prima stagione di mobilitazione della destra cristiana, caratterizzata da un forte attivismo di base fondato sulle reti religiose, da un linguaggio poco attento al politically correct e dall’impegno su questioni ritenute fondamentali per la sopravvivenza dell’America: le lotte contro l’aborto, contro l’Equal Rights Amendment (che intendeva affermare la parità dei sessi a livello costituzionale), contro i diritti degli omosessuali, contro l’insegnamento dell’evoluzionismo e i programmi di educazione sessuale; le battaglie in favore della preghiera nelle scuole; l’appoggio incondizionato a Israele.

In questi anni, la Christian Right agiva principalmente fuori dalle sedi istituzionali, facendo pressione sulla politica con l’attivismo di base e trovando appoggio a Washington in quei politici vicini, per cultura ed educazione, ai suoi valori (come lo stesso Ronald Reagan). Questa strategia non portò tuttavia a risultati di rilievo.

Le cose cambiarono profondamente con la seconda stagione di mobilitazione, seguita agli scandali e alla crisi della seconda metà degli anni ’80 e incentrata sulla Christian Coalition di Pat Robertson. La nuova filosofia del movimento (esemplificata dalla figura di Robert Reed, giovanissimo e spregiudicato lobbista repubblicano chiamato da Robertson a dirigere l’organizzazione di punta) era incentrata su: a) un network di attivisti politici non più basato direttamente sulle reti delle congregazioni religiose; b) un’apertura a più ampie sezioni del mondo religioso cristiano; c) una rosa di temi più ampia, che accanto alle questioni identitarie proponeva temi più tangenzialmente legati alla religione, come ad esempio la richiesta di un taglio delle tasse per le famiglie; d) un linguaggio meno minaccioso mutuato dalla controparte liberal (ad esempio, la lotta contro i diritti degli omosessuali divenne lotta contro “diritti speciali” per specifiche categorie di persone; la battaglia a sostegno della preghiera nelle scuole un impegno a favore della libertà religiosa).

Fu proprio in questi anni che ebbe luogo, a partire dal livello locale, l’infiltrazione della destra cristiana nel Partito Repubblicano (del quale il movimento avrebbe di fatto preso il controllo, nel giro di pochi anni, in almeno 1/3 degli stati americani). Se questo attivismo non fu immediatamente percepibile a livello nazionale, lo divenne con la convention repubblicana per le presidenziali del 1992: il movimento riuscì a portare un numero notevole di delegati (secondo alcuni studiosi il 40% del totale), riuscendo a svolgere un ruolo di primo piano nella redazione del programma elettorale di George Bush padre (e del suo vice Dan Quayle, uno dei politici tradizionalmente vicini al movimento).

La destra cristiana, che negli anni successivi partecipò in modo attivo alla lotta per l’impeachment di Clinton, non ottenne grandi risultati nemmeno in questa seconda fase di mobilitazione. Fu con le elezioni del 2000 che essa giunse a giocare un ruolo decisivo per la politica americana (e, in qualche modo, per le sorti del mondo), gettando tutto il proprio peso nella lotta per le primarie repubblicane fra George W. Bush e John McCain. Nel sostenere il primo (ritenuto “uno dei nostri” dal movimento, secondo le parole degli stessi suoi leader), la strategia della destra cristiana giunse alla diffamazione di McCain (che venne presentato come un pericoloso attivista pro-choice in materia di aborto, quando gli stessi rapporti della Christian Right segnalavano una sua attività parlamentare del tutto consona alle istanze del movimento). La religione giocò poi un ruolo di primo piano anche nella successiva campagna presidenziale, che avrebbe condotto alla strettissima e contestata vittoria del Governatore del Texas.

3. Al potere con Bush

Con l’elezione di Bush alla Casa Bianca, il percorso di istituzionalizzazione della Christian Right poteva dirsi concluso: non solo essa aveva un “proprio uomo” alla Casa Bianca come Presidente2; uno dei suoi esponenti politici di riferimento, John Ashcroft (la prima scelta del movimento all’inizio delle primarie repubblicane) era Ministro della Giustizia, mentre diversi altri ministri – e il nuovo leader della maggioranza repubblicana al Congresso, Tom DeLay – erano noti per la loro vicinanza alla destra cristiana. Un cambiamento era percepibile a livello culturale e comportamentale, visibile nel nuovo stile di vita della Casa Bianca, improntato alla cultura del protestantesimo evangelical di matrice conservatrice.

Sebbene anche da questa amministrazione il movimento non abbia ottenuto concessioni sostanziali in termini legislativi, due provvedimenti hanno generato in esso estrema soddisfazione.

Il primo è quello che – ribaltando un’impostazione consolidata – concede finanziamenti pubblici per attività sociali alle cosiddette faith-based initiatives, organizzazioni caritatevoli a base religiosa (di qualunque confessione).

Il secondo – già approvato dal Congresso negli anni ’90 e poi bloccato da un veto di Clinton – vieta la procedura di interruzione di gravidanza nota come partial birth abortion.

Altre iniziative della Presidenza – come il sostegno a un’educazione sessuale basata sull’astinenza anziché sulla contraccezione, ma sopratutto la nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema – hanno incontrato grande favore nel movimento.

Il ruolo della destra cristiana in quanto avvenuto dopo gli attentati del 2001, e in particolare nella cosiddetta “guerra al terrore”, è invece più difficile da comprendere e interpretare. Da un lato vi sono effettivamente i toni da crociata fatti propri sia dai vertici istituzionali americani, sia dai vertici del movimento (che hanno in numerose occasioni esaltato le attività belliche americane come preordinate da Dio e si sono scagliati, dopo gli attentati, contro la religione islamica e i suoi seguaci). Tuttavia vi è stata anche un’interpretazione degli attentati del tutto diversa (espressa sia da Falwell sia da Robertson), come punizione divina contro un paese immorale e corrotto.

In generale, gli evangelical hanno esitato nello sposare entusiasticamente le iniziative belliche promosse da Washington e, in qualche caso, hanno preso posizioni apertamente critiche. L’ascesa dei neocon – che a torto vengono talvolta associati alla destra cristiana, pur condividendone il conservatorismo su diverse questioni – ha poi contribuito a limitare l’influenza del movimento sulle politiche dell’Amministrazione Bush (che nel suo secondo mandato ha visto l’allontanamento di Ashcroft e la caduta in disgrazia di diversi esponenti filo-religiosi a seguito di scandali).

4. Una sinistra religiosa?

La Christian Right non è tuttavia l’unica forza religiosa impegnata nella politica USA. Esiste, sebbene in modo meno codificato, quella che gli analisti definiscono “sinistra religiosa” o “sinistra cristiana”. La frattura fra essa e la sua controparte conservatrice si è originata alla fine dell’Ottocento, quando i religiosi liberal adottarono una concezione della religione come fatto prevalentemente morale e personale, collegata con il servizio al prossimo e ai bisognosi (il cosiddetto social gospel), laddove la controparte conservatrice si rifugiava in un reinventato dogmatismo. La sinistra religiosa si è impegnata a fondo, dagli anni ’60, nelle lotte per i diritti civili, con personaggi come Martin Luther King e il più volte candidato alle primarie democratiche Jesse Jackson. Oggi essa condivide con la sinistra del Partito Democratico campagne per un welfare universale, per l’ambiente, contro la guerra in Iraq, ecc. Il rapporto con i democratici laici non è tuttavia sempre sereno, a causa dell’atteggiamento anti-religioso di una parte dell’intellighentzia liberal, ma anche per le riserve di molti religiosi progressisti su questioni come aborto e matrimoni omosessuali (che talvolta spingono alcuni a convergere con la destra in specifiche circostanze, o a votare repubblicano).

Senza dubbio la sinistra religiosa è meno forte e coesa della controparte conservatrice, nonostante la sua influenza sulle più recenti amministrazioni democratiche, da Carter a Clinton, e la presumibile ancor maggiore influenza che avrà sull’amministrazione Obama. Sta probabilmente anche alla leadership democratica rendersi conto della rilevanza di un bacino elettorale troppo poco coltivato dal partito. Questo anche in considerazione del fatto che una parte degli stessi evangelical oggi pare riconsiderare la sua militanza politica a destra. Pur non rinnegando le proprie posizioni su questioni come l’aborto e i matrimoni gay sono molti – in particolare fra i più giovani – coloro che si stanno avvicinando alla sinistra su una vasta gamma di temi, in particolare sulle questioni ambientali, di politica estera e di welfare.

5. La religione nella campagna elettorale del 2008

Nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2008, la religione è stata una questione meno centrale che in altre consultazioni (come è risultato evidente anche osservando i dibattiti televisivi fra i candidati alla presidenza); di fede si è parlato soprattutto all’inizio delle primarie, grazie alla candidatura in campo repubblicano del ministro battista Mike Huckabee. L’inatteso successo di quest’ultimo era probabilmente il riflesso della preoccupazione della destra cristiana per i principali candidati in lizza: Mitt Romney perché mormone, e Rudolph Giuliani (come più avanti John McCain) perché considerato troppo liberal. Lo scenario da incubo della destra religiosa era rappresentato, in particolare, dalla prospettiva di Hillary Clinton (detestata dal movimento al pari del marito) candidata democratica e di un candidato repubblicano pro-choice in materia di aborto. In questo caso, diversi leader della Christian Right ventilavano apertamente la possibilità di appoggiare un candidato indipendente per la Presidenza.

McCain, una volta divenuto ufficialmente il candidato repubblicano, ha dovuto faticare per superare le diffidenze della destra religiosa. In questo senso, sono stati efficaci non solo la scelta di Sarah Palin per la vicepresidenza, ma anche numerosi meeting con predicatori e dichiarazioni come quella contro i matrimoni gay in California3. Sforzi che tuttavia potrebbero essergli costati i voti di molti indipendenti a favore di Obama. Quanto a quest’ultimo, durante le primarie è stato al centro dell’attenzione il suo legame con il pastore Jeremiah Wright, di cui sono stati resi noti sermoni bollati come anti-americani (in cui Wright condannava le politiche imperialiste americane, dalle guerre contro gli indiani fino a Hiroshima, affermando che gli USA avevano attirato su se stessi l’11 settembre). Alla fine Obama è stato costretto a prendere le distanze pubblicamente dal religioso e dalle sue idee; così come è stato costretto più volte a smentire le voci (propagandate dalla destra cristiana, ma sostenute in maniera più velata anche da media conservatori come FoxNews) su una sua appartenenza alla religione islamica. In realtà Obama e il suo staff hanno un rapporto con il mondo religioso americano, anche di matrice evangelical, migliore di quello avuto da tutti i principali politici democratici dai tempi di Carter. Ne sono una prova i suoi rapporti con leader come Rick Warren (con il quale ha partecipato ad una campagna anti-AIDS).

In generale è noto che Obama e il suo staff hanno rifiutato l’impostazione tradizionale delle ultime campagne presidenziali democratiche (che rifiutavano esplicitamente il ‘voto cristiano’ in quanto espressione organizzata), per mettere in atto un approccio più morbido e inclusivo.

Tuttavia, è certo che la candidatura di Obama ha fatto affiorare le – talvolta carsiche – tendenze razziste della destra cristiana, che negli stati americani del sud si è spesso accompagnata con gruppi come il Klu Klux Klan e oggi, nelle sue frange più estreme, si sovrappone a fenomeni come i gruppi survivalisti e le milizie locali. Non c’è dubbio che molti esponenti della destra religiosa (così come numerosi altri White Anglo-Saxon Protestant) si sentano minacciati dalla Presidenza Obama: una sensazione amplificata dalla prospettiva di una maggioranza liberal al Congresso.

Nel complesso, è ragionevole ritenere che Obama possa risultare meno sgradito agli evangelical e agli altri cristiani conservatori (purché sia superato lo scoglio dei pregiudizi razziali) di quanto essi stessi sospettino. Forse, una sua Presidenza può rappresentare l’occasione non solo per un clima di maggiore conciliazione, ma anche per un riallineamento “a sinistra” di molti credenti, attirati negli ultimi decenni dalle sirene repubblicane.

Per saperne di più

Naso, P. (2002), God Bless America: Le religioni degli americani, Roma, Editori Riuniti.

Gentile, E. (2006), La democrazia di Dio, Roma/Bari, Laterza, Roma / Bari.

Borgognone, Giovanni, (2004), La destra americana: Dall’isolazionismo ai neocons, Roma / Bari, Laterza.

Tonello, F. (1996), Da Saigon a Oklahoma City: Viaggio nella nuova destra americana, Arezzo, Limina.

Waldman, S. (2006), The Religious Left, in “Slate”, 5 aprile, disponibile sul sito internet www.slate.com/id/2139365/

Right Wing Watch (People for the American Way), http://www.rightwingwatch.org/

* Luca Ozzano insegna Scienza politica all'Università di Torino

[1] Si trattò di una forma di mobilitazione che toccò tangenzialmente il mondo politico nazionale, grazie al ruolo giocato da un importante politico democratico, William Jennings Bryan, nella lotta contro le teorie evoluzionistiche.

2 All’epoca del primo mandato presidenziale di Bush, diversi osservatori considerarono tout court il Presidente come il nuovo leader della destra cristiana. Si tratta di un’opinione apparentemente condivisa, del resto, da alcuni esponenti di spicco del movimento: il già citato Ralph Reed, oggi notabile del Partito Repubblicano in Georgia, dichiarò dopo l’elezione di Bush: “non tiri più pietre all’edificio: ora ci sei dentro”; mentre Gary Bauer affermò, a proposito del ritiro dall’attività pubblica del leader della Christian Coalition Pat Robertson: “Credo che Robertson abbia fatto un passo indietro perché il posto era già occupato”.

3 Questione sottoposta a referendum nello stato della California proprio in coincidenza con le elezioni presidenziali. Molte ballot measures proposte agli elettori nel 2008 riguardavano le questioni care alla destra cristiana (che in molti casi ne è stata la promotrice): oltre alla messa al bando dei matrimoni gay (approvata in Arizona, California e Florida), gli elettori hanno votato proibendo alle coppie gay di adottare figli in Arkansas; rifiutando un bando all’aborto salvo in casi eccezionali in Sud Dakota e un altro sui limiti all’aborto di minorenni in California; rifiutando di inserire nella Costituzione dello stato del Colorado una concezione della vita umana con inizio dal concepimento; permettendo il suicidio assistito nello stato di Washington; e consentendo l’uso delle cellule staminali a scopo di ricerca e quello della marijuana per scopi medici in Michigan (cfr. http://edition.cnn.com/ELECTION/2008/results/ballot.measures/).