martedì 28 luglio 2009

La scuola ha smesso di insegnare

http://www.megachipdue.info/tematiche/cervelli-in-fuga/286-la-scuola-ha-smesso-di-insegnare.html

di Luca Ricolfi - La Stampa

Sulla scuola e l’università ognuno ha le sue idee, più o meno progressiste, più o meno laiche, più o meno nostalgiche. C’è un limite, però, oltre il quale le ideologie e le convinzioni di ciascuno di noi dovrebbero fermarsi in rispettoso silenzio: quel limite è costituito dalla nuda realtà dei fatti, dalla constatazione del punto cui le cose sono arrivate.Quale che sia l’utopia che ciascuno di noi può avere in testa, la realtà com’è dovrebbe costituire un punto di partenza condiviso, da accettare o combattere certo, ma che dovremmo sforzarci di vedere per quello che è, anziché ostinarci a travestire con i nostri sogni.Queste cose pensavo in questi giorni, assistendo all’ennesimo dibattito pubblico su scuola e università, bocciature e cultura del ’68, un dibattito dove - nonostante alcune voci fuori dal coro - la nuda realtà stenta a farsi vedere per quella che è. La nuda realtà io la vedo scorrere da decenni nel mio lavoro di docente universitario, la ascolto nei racconti di colleghi e insegnanti, la constato nei giovani che laureiamo, la ritrovo nelle ricerche nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento, negli studi sul mercato del lavoro. Eppure quella realtà non si può dire, è politicamente scorretta, appena la pronunci suscita un vespaio di proteste indignate, un coro di dotte precisazioni, una rivolta di sensibilità offese.Io vorrei dirla lo stesso, però. La realtà è che la maggior parte dei giovani che escono dalla scuola e dall’università è sostanzialmente priva delle più elementari conoscenze e capacità che un tempo scuola e università fornivano.Non hanno perso solo la capacità di esprimersi correttamente per iscritto. Hanno perso l’arte della parola, ovvero la capacità di fare un discorso articolato, comprensibile, che accresca le conoscenze di chi ascolta. Hanno perso la capacità di concentrarsi, di soffrire su un problema difficile. Fanno continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano vaghi e intercambiabili, che un segmento sia un «bastoncino» (per usare un efficace esempio del matematico Lucio Russo). Banalizzano tutto quello che non riescono a capire.Sovente incapaci di autovalutazione, esprimono sincero stupore se un docente li mette di fronte alla loro ignoranza. Sono allenati a superare test ed eseguire istruzioni, ma non a padroneggiare una materia, una disciplina, un campo del sapere. Dimenticano in pochissimi anni tutto quello che hanno imparato in ambito matematico-scientifico (e infatti l’università è costretta a fare corsi di «azzeramento» per rispiegare concetti matematici che si apprendono a 12 anni). A un anno da un esame, non ricordano praticamente nulla di quel che sapevano al momento di sostenerlo. Sono convinti che tutto si possa trovare su internet e quasi nulla debba essere conosciuto a memoria (una delle idee più catastrofiche di questi anni, anche perché è la nostra memoria, la nostra organizzazione mentale, il primo serbatoio della creatività).Certo, in mezzo a questa Caporetto cognitiva ci sono anche delle capacità nuove: un ragazzo di oggi, forse proprio perché non è capace di concentrazione, riesce a fare (quasi) contemporaneamente cinque o sei cose. Capisce al volo come far funzionare un nuovo oggetto tecnologico (ma non ha la minima idea di come sia fatto «dentro»). Si muove come un dio nel mare magnum della rete (ma spesso non riconosce le bufale, né le informazioni-spazzatura). Usa il bancomat, manda messaggini, sa fare un biglietto elettronico, una prenotazione via internet. Scarica musica e masterizza cd. Gira il mondo, ha estrema facilità nelle relazioni e nella vita di gruppo. È rapido, collega e associa al volo. Impara in fretta, copia e incolla a velocità vertiginosa.Però il punto non è se siano più le capacità perse o quelle acquisite, il punto è se quel che si è perso sia tutto sommato poco importante come tanti pedagogisti ritengono, o sia invece un gravissimo handicap, che pesa come una zavorra e una condanna sulle giovani generazioni. Io penso che sia un tragico handicap, di cui però non sono certo responsabili i giovani. I giovani possono essere rimproverati soltanto di essersi così facilmente lasciati ingannare (e adulare!) da una generazione di adulti che ha finto di aiutarli, di comprenderli, di amarli, ma in realtà ha preparato per loro una condizione di dipendenza e, spesso, di infelicità e disorientamento.La generazione che ha oggi fra 50 e 70 anni ha la responsabilità di aver allevato una generazione di ragazzi cui, nei limiti delle possibilità economiche di ogni famiglia, nulla è stato negato, pochissimo è stato richiesto, nessuna vera frustrazione è mai stata inflitta. Una generazione cui, a forza di generosi aiuti e sostegni di ogni genere e specie, è stato fatto credere di possedere un’istruzione, là dove in troppi casi esisteva solo un’allegra infarinatura. Ora la realtà presenta il conto. Chi ha avuto una buona istruzione spesso (non sempre) ce la fa, chi non l’ha avuta ce la fa solo se figlio di genitori ricchi, potenti o ben introdotti. Per tutti gli altri si aprono solo due strade: accettare i lavori, per lo più manuali, che oggi attirano solo gli immigrati, o iniziare un lungo percorso di lavoretti non manuali ma precari, sotto l’ombrello protettivo di quegli stessi genitori che per decenni hanno festeggiato la fine della scuola di élite.Un vero paradosso della storia. Partita con l’idea di includere le masse fino allora escluse dall’istruzione, la generazione del ’68 ha dato scacco matto proprio a coloro che diceva di voler aiutare. Già, perché la scuola facile si è ritorta innanzitutto contro coloro cui doveva servire: un sottile razzismo di classe deve avere fatto pensare a tanti intellettuali e politici che le «masse popolari» non fossero all’altezza di una formazione vera, senza rendersi conto che la scuola senza qualità che i loro pregiudizi hanno contribuito ad edificare avrebbe punito innanzitutto i più deboli, coloro per i quali una scuola che fa sul serio è una delle poche chance di promozione sociale.Forse, a questo punto, più che dividerci sull’opportunità o meno di bocciare alla maturità, quel che dovremmo chiederci è se non sia il caso di ricominciare - dalla prima elementare! - a insegnare qualcosa che a poco a poco, diciamo in una ventina d’anni, risollevi i nostri figli dal baratro cognitivo in cui li abbiamo precipitati.

Le elezioni in Iran

http://francocardini.net/
grazie professore...

- LE ELEZIONI IN IRAN. CERCHIAMO DI CAPIRE –

17/6/2009

Ad alcuni giorni dalle ultime elezioni in Iran, i media di tutto il mondo occidentale, sia pure con qualche sfumatura, ci hanno proposto uno schema interpretativo abbastanza semplice. L’Iran è guidato da un regime fondamentalista che tuttavia mantiene alcune parvenze di democrazia e di pluralismo (molti partiti politici, giornali e televisioni differenti ecc.); le ultime elezioni sono state pesantemente manipolate, sia attraverso il sistematico uso dell’intimidazione e della repressione, sia attraverso autentici brogli elettorali (perfino urne scambiate); tuttavia, dinanzi alla massiccia, coraggiosa e prolungata protesta popolare, le autorità si sono spinte fino a promettere un riconteggio dei voti; senonché, a detta di alcuni osservatori e di taluni oppositori, tale riconteggio non porterebbe a nulla sia perchè si svolgerebbe comunque in un clima d’incertezza e di violenza, sia perchè le autentiche schede sono state almeno in buona parte distrutte e sostituite; per cui, l’unica strada possibile per un qualche ristabilimento della legalità democratica sarebbe procedere a nuove elezioni sotto lo stretto controllo di osservatori delle Nazioni Unite, cosa che il governo non è disposto a concedere. Si sta quindi andando o verso una situazione di compromesso che non piacerà a nessuno, soprattutto alle opposizioni; o verso uno scontro frontale.

Un quadro semplice. Ma tutti i problemi hanno sempre una risposta semplice. Peccato solo che, di solito, si tratti di quella sbagliata. Il punto di partenza, per noi, non può essere che una constatazione. Quella iraniana è una società complessa. Cerchiamo quindi di capirci qualcosa.

I media occidentali hanno quasi tutti e costantemente cercato di accreditare l’idea che in Iran viga una “dittatura”. In passato – ricordate le proteste del 1999, che nel nostro paese unirono destra e sinistra? – si è accusato di essere una specie di dittatore perfino Khatamy, oggi considerato un garante dei valori democratici; eppure, a suo tempo, gli attacchi da parte dell’Occidente furono una delle cause della sua sconfitta.

L’Iran non è soggetto ad alcuna dittatura. Il suo è piuttosto l’equilibrio complesso e non facile a riformarsi tra una società civile che per certi versi ricorda piuttosto il primitivo sistema sovietico – una pluralità di soggetti politici fluidi e litigiosi – controllato però da un “senato” religioso. Questo sistema sta cercando con scarso successo d’ingabbiare una società civile anagraficamente giovane, in generale colta e preparata (l’Iran e uno dei paesi che conta più laureati al mondo), dove l’occidentalizzazione frutto d’una sessantina d'anni circa di governo europeizzante della dinastia Pahlevi ha inciso fortemente, ma dove la “rivoluzione islamica” del 1979 è stata sul serio corale e popolare. Alla vigilia delle ultime elezioni, si è molto parlato di “conservatori” e di “riformisti” (termini superficiali e inadeguati rispetto alla situazione concreta), ma si è “dimenticato” di osservare come i quattro candidati avevano nei rispettivi programmi elettorali alcuni punti in comune: alla rivendicazione di un forte orgoglio nazionale, la ferma intenzione di procedere sulla linea della rivoluzione vinta nel ’79 da Khomeini, la volontà di continuare il programma teso a dotare il paese di un potenziale nucleare a scopi pacifici.

I candidati erano quattro: Mahmoud Ahmedinejad, cinquantatreenne, che ha promesso di continuare sulla sua strada; Houssein Mousavi”, sessantesettenne, un’esperienza di primo ministro nel 1981, che rimprovera ad Ahmedinejad una politica estera dai toni troppo accesi che gli avrebbe alienato tutto l’Occidente e confida in Obama per avviare un processo di distensione; Mohsen Rezai, cinquantasettenne, ex generale dei pasdaran, che rinfaccia ad Ahmedinejad scarsa abilità e molta trascuratezza nella conduzione economico-finanziaria del paese; e Mehdi Karrubi, settantaduenne, membro del “clero” sciita, ex presidente del parlamento, considerato un “riformista”.

La costituzione iraniana è un modello di complesso equilibrio di forze. Il suo motore è il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione (dodici membri, per metà religiosi nominati dalla Guida Suprema e per metà giuristi nominati dal Parlamento), che seleziona i candidati alle istituzioni statati, può opporre il veto alle leggi approvate dal Parlamento e propone una lista di candidati al ruolo di Vali-e faqih (Guida Suprema) a un’Assemblea degli Esperti eletta dal popolo. La Guida Suprema ha praticamente le prerogative di un capo di stato in una repubblica strettamente presidenziale, in particolare il diritto di nomina delle alte cariche statali. Invece il Presidente della Repubblica, in carica 4 anni, è una specie di capo del governo e nomina i ministri (salvo approvazione del Parlamento).

Quel che ora è in atto è un braccio di ferro tra il “partito dei religiosi”, che in realtà è fautore di un programma di distensione con l’Occidente e si appoggia a un elettorato nel quale i ceti benestanti sono molto forti, e quello che Renzo Guolo (“La Repubblica”, 17.6.2009) chiama il partito dei “senza-turbante”, gli islamisti radicali seguaci di Ahmedinejad che propugnano una politica sociale più decisa e hanno l’appoggio dei ceti più poveri della popolazione. Contrariamente a quel che si tende a creder da noi, i più estremisti sono i “laici”, non i “religiosi” che portano il turbante. Ma Ahmedinejad negli ultimi quattro anni ha governato con il pieno appoggio di Ali Khamenei, lo ayatollah Guida Suprema: e ha riempito i suoi diretti collaboratori e i suoi seguaci di poteri, di privilegi, anche di danaro. E’ ovvio che ora essi vogliano tener duro: il loro obiettivo, del resto, è trasformare la repubblica islamica in un vero e proprio regime.

Tuttavia il punto debole degli avversari di Ahmedinejad, i moderati appoggiati da buona parte del clero, è proprio la corruzione: uno degli uomini piu ricchi dell’Iran è il Presidente dell’Assemblea degli Esperti, Akbar Hashemi Rafsanjani: e i suoi cospicui patrimoni sono alquanto sospetti. Il suo ruolo è comlesso e cruciale: egli è in realtà presidente del “Consiglio per la determinazione del bene comune” (majma’e tashkhis e maslahat, spesso tradotto in inglese con “Expediency Council”, perchèèe l’organismo che può rendere “islamica” – per mezzo appunto di un “espediente” giuridico – una legge che islamica non è, sulla base dell’interesse comune) e appunto l’Assemblea degli esperti (majles-e khobregan), che in linea istituzionale ha il potere di destituire la stessa Guida Suprema.

Forse esagerano dunque coloro che parlano, a proposito dei brogli e delle violenze, di un “colpo di stato” da parte di Ahnedinejad e dei suoi fautori. Certo però lo scontro è stato violento e l’opposizione sembra ben piu numerosa del 35% che sarebbe emerso dai conteggi ufficiali; in ogni caso, è agguerrita e non intenzionata a cedere. E un commento uscito il 14 giugno dall’autorevole penna di Ali Ansari fa pensare che i brogli ci siano stati davvero, per quanto sia difficile il provarlo.

Che cos’hanno quindi portato di nuove, queste elezioni? I conteggi ufficiali parlano di un 65% guadagnato da Ahmedinejad: ma le proteste della minoranza, soprattutto dei fautori di Mousavi, sono state tante e tanto dure e corali da indurre il prudente Khamenei a promettere un riconteggio dei voti. Alle opposizioni, ciò non basta: ma, anche se appare difficile che il governo iraniano acceda alla loro pretesa di un controllo dell’ONU su nuove elezioni – e bisogna dire che nessun paese sovrano accetterebbe mai una condizione del genere -, l’eco internazionale di quel che sta accadendo in Iran è stato troppo forte e corrisponde a una vera e propria sconfitta politica di colui che almeno formalmente è il trionfatore elettorale.

Con tutto ciò, non bisogna dimenticare due cose. Primo, la sostanziale coralità e fermezza di tutti gli schieramenti politici sui fondamenti della repubblica islamica e della sua stessa politica estera. Opposizione all’America, richiesta di soluzione del problema palestinese, esigenza di proseguire sul cammino dell’acquisizione del nucleare civile pur nel rispetto del trattato di non-proliferazione. Se questa è una crisi, lo è nel, non del sistema. E Ahmedinejad, che è subito volato a Mosca, lo ha confermato: l’era dell’impero unilateralistico statunitense è finita, il suo paese è tutt’altro che isolato, l’asse con la Russia tiene, i rapporti con la Cina e con molti paesi dell’America latina sono buoni.

D’altronde, anche da parte occidentale si sono fatti degli errori. E’ vero che la censura governativa è intervenuta pesantemente contro alcuni giornalisti, ma è non meno vero che molti servizi usciti dall’Iran durante e subito dopo la competizione elettorale non brillavano per equità: filmavano esclusivamente le manifestazioni dell’opposizione, mandavano in onda interviste prese solo nei quartieri della buona borghesia di Teheran da sempre roccaforte degli avversari di Ahmedinejad e perfino dei nostalgici dello shah. Ci sono senza dubbio state violenze: mancano però le prove che le urne siano state sostituite e, quanto alle vittime, una decina di morti e centinaia di feriti sono senza dubbio un bilancio pesante: ma non certo un bilancio da tirannia. La repressione dei basaji – le milizie paramilitari ahmedijaniste – ha dato risultati piu simili a quella di Genova in occasione del G 8 del 2001 che non a quella di piazza Tienammen: e ciò vorrà ben dire qualcosa. Un pacato commento di Abbas Barzegar sul “Guardian” del 13 scorso, un organo molto autorevole, sottolinea che Teheran all’indomani delle elezioni sembrava sì in rivolta, ma soltanto su due viali dell’area settentrionale abitata dai ceti benestanti, mentre nel resto della città le manifestazioni di giubilo dei sostenitori di Ahmedinejad erano diffuse, imponenti e spontanee.

L’episodio politico al quale stiamo assistendo è insomma un momento “caldo” della lotta per il potere tra due fazioni: da una parte i moderati che hanno la loro punta di diamante in Rafsanjani e i loro esponenti in Mousavi e Khatami, e che auspicano una distensione con l’Occidente contando sull’apertura dimostrata da Obama; dall’altra i radicali il vero capo dei quali resta Khamenei, che mirano a un rafforzamento del carattere islamico dello stato e che credono non tanto nell’intesa con l’Occidente, quanto nella creazione di un fronte internazionale politicamente, economicamente, tecnologicamente e militarmente alternativo ad esso. Obiettivo ultimo del fronte radicale è la trasformazione della jomhuri , la Repubblica Islamica, in un “Sistema” – nezam, così definisce costantemente la stato islamico l’ispiratore religioso di Ahmadinejad, l’ayatollah Mohammad Taqi Mesbah-e Yazdi – non contaminato da strutture politiche non islamiche. Il fatto che la Guida Suprema abbia ammesso la possibilità dei riconteggi (quindi, implicitamente, dei brogli) fa intravedere un progetto tattico teso a evitare sia lo scontro frontale sia la repressione troppo pesante facendo “rientrare” la protesta mediante patteggiamenti e concessioni politiche.

Restano comunque del tutto inutili per comprendere la situazione, anzi pericolosi e dannosi, gli appelli come quello lanciato sul “Corriere” del 16 scorso da Bernard-Henry Lévy: il clima a Teheran è pesante, ma non “di terrore”; e il riferimento a un eventuale rafforzamento di Ahmedinejad come “un pericolo terribile per il mondo intero, perchè dotato di un arsenale nucleare che non esiterebbe a mettere immediatamente al servizio dell’Imam nascosto e della sua apocalittica riapparizione” sarebbe solo ridicolo, se non fosse irresponsabile. Tutti sanno che l’Iran non dispone ancora nemmeno del nucleare civile: come potrebbe mai minacciare sul serio di distruzione nucleare Israele, che invece il nucleare militare ce l’ha eccome? E si può davvero continuare a fingere di non sapere che eventuali pulsioni fondamentaliste e apocalittiche allignano anche in Israele, e che da lì non sono mancate voci che hanno affermato di esser pronte a servirsi dell’arma nucleare?

Sono state comunque elezioni importanti. Auguriamoci che esse non conducano a un aggravarsi della tensione – ma la prospettiva d’una “guerra civile” appare improbabile - o al prevalere della repressione nella sua forma più dura, che condurrebbe all’autoritarismo teorizzato da Mesbah-e Yazdi. La richiesta di nuove elezioni, avanzata ora con fermezza dalle opposizioni, serve in realtà ad alzare il costo della normalizzazione della vita civile: forse si punta a un “governo di unità nazionale”, nel quale il potere di Ahmedinejad verrebbe ridimensionato. I principi della repubblica islamica, quelli del 1979, appaiono ben radicati tra gli iraniani e confermati dal fatto che tutti gli schieramenti li condividono: che a Mousavi sia andato anche il voto degli antikhomeinisti irriducibili è poco rilevante, dal momento che essi sono obiettivamente una minoranza. Ma il vero duello è tra la fazione di Khamenei e quella di Rafsanjani-Khatami, che prospettano due differenti configurazioni del sistema mondiale di alleanze. Il prevalere dei “moderati” dipenderà dunque in una qualche misura dalle mosse dell’Occidente, soprattutto del presidente degli Stati Uniti: al quale spetta il difficile compito di comporre le esigenze di riaprire il dialogo con l’Iran con le richieste che gli provengono da Israele, e che a loro volta sono spesso ispirate da istanze estremistiche. Questo appare, a tutt’oggi, il vero rischio.

Franco Cardini

Dedicato al G8

di Franco Cardini – da francocardini.net

L’analisi di Cardini demolisce l’interpretazione del processo storico come “progresso” e i miti dell’Occidente, sempre asservito a una Volontà di Potenza, all'ombra del "Comitato d'Affari" dei padroni del mondo.

La continuità storica è tessuta di continue, piccole e grandi (e magari enormi e microscopiche) fratture; e, d’altro canto, è proprio nella discontinuità, anzi nelle vere e proprie lacerazioni, che essa rivela nel suo fondo il tenace “filo” (rosso? Scegliete voi il colore che vi aggrada) della sua continuità.

D’altro canto, la dinamica delle ricerche storiche e della riflessione esegetico-gnoseologica sul loro conto ci ha da tempo obbligati a persuaderci che non esiste alcuna “ragione immanente” della storia, alcun suo “senso”, al di fuori delle sue interpretazioni: che il processo storico non è animato da alcun “progresso”, e che quest’ultimo termine è legittimamente impiegabile al puro livello tecnologico, come risultato della somma di scoperte e d’invenzioni, e che è illusorio estenderlo per analogia alle istituzioni politico-giuridiche e alle strutture sociali, a meno di non compiere la manovra – soggettiva se non arbitraria per definizione – di subordinarlo a una qualunque di quelle che fino a pochi anni fa era legittimo definir ideologie e delle quali adesso è divenuto dogma indiscusso o quasi il proclamare la morte (in attesa di una loro resurrezione?).

Un bel libro recente di Georges Corm, L’Europe et le mythe de l’Occident. La construction d’une histoire (La Découverte, 2009) ci offre un’analisi decostruttiva del concetto d’Occidente che, sia pur non senza obiezioni o correzioni in più punti, si presenta comunque come esemplare: l’Occidente (un concetto che per più versi appare come sinonimo di “Modernità”: se non altro perché, a meno di non abbandonarci a un candido determinismo geolessicale, non se ne può far arretrare la “storia” a prima del XVI secolo) è una costruzione astratta e artificiale del pensiero europeo dell’ultimo mezzo millennio, dai primi del Novecento “catturato” e riplasmato negli Stati Uniti d’America; la sua storia “continuista” dall’antica Ellade in poi è un fragile e per molti versi ridicolo escamotage; la sua patetica e ipocrita autoimmagine di portatore di pace, di libertà, di progresso, di “Diritti Umani” è contraddetta da una secolare e ohimè molto concreta e documentata storia di orrori e di violenze; o, se si preferisce una valutazione eufemistica, è storia di un continuo impulso verso il Fare e l’Avere, storia di un prometeismo e di un faustismo cronicizzati e divenuti maniacali, storia di un’ossessiva Volontà di Potenza.

A ben valutare che cosa sia stata la storia dell’Occidente/Modernità negli ultimi secoli e che cosa abbia significato per la storia delle civiltà ospitate in tutto il pianeta, varrebbe la pena di leggere e di chiosare con molta attenzione (e sarebbe un lavoro da fare anzitutto e soprattutto nelle scuole) tre massicce “Enciclopedie della Denunzia”, o, se preferite, “del Disincanto”: Le livre noir du colonialisme a cura di Marc Ferro (Laffont-Hachette, 2003 sgg.); Le livre noir de l’humanité a cura di I. W. Charny (Privat, 2001) e Il Libro Nero del capitalismo (Tropea, 2001). Certo, i dati che da questi lavori si ricavano sarebbero tutti da aggiornare.

Ad esempio, nel 1997 – l’ultimo anno importante del XX secolo sotto il profilo di rilievi statistici attendibili – si contavano nel mondo 40 milioni tra profughi ed esuli; in quel medesimo anno, i bambini morti per malnutrizione in tutto il mondo furono 6 milioni.

Questi vecchi dati, soggetti ad aggiornamento, rivelerebbero un’impennata del loro aggravarsi negli ultimi anni. Come si dice: la marcia inarrestabile del progresso. Il Comitato d’Affari dei padroni del mondo, che si riunisce pomposamente ogni anno sotto la denominazione di G8, dovrebbe cominciare i suoi lavori con il doveroso aggiornamento annuo di questi dati: ma ha ben altro cui pensare.

E' la stampa, bellezza!

http://www.pandoratv.it/%C8-la-stampa-bellezza,A1,203.html

Il buon giornalismo è uno dei fondamenti della democrazia di un paese. Non dimentichiamocelo mai.

"Anche i media indipendenti (alternativi) possono svolgere un ruolo importante. Sebbene dotati (per definizione) di scarse risorse, acquistano importanza allo stesso modo delle organizzazioni popolari: unendo le persone con risorse limitate che, interagendo tra loro, possono moltiplicare la loro efficacia e la loro comprensione - il che costituisce esattamente quella minaccia democratica tanto temuta dalle élite dominanti."Noam Chomsky

"Giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda"Horacio Verbitsky

"Ogni mattina il buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno"Benedetto Croce
"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. "Art. 21 della Costituzione Italiana

"Improntare il giornale a ottimismo, fiducia e sicurezza nell'avvenire. Eliminare le notizie allarmistiche, pessimistiche e deprimenti."Ufficio stampa Presidenza del Consiglio a tutti i giornali, 1931

"Leone Tolstoj ripeteva spesso che per conoscere davvero un paese bisognava visitarne le prigioni: noi sosteniamo invece che è sufficiente (e più agevole) scorrerne i quotidiani."Paolo Pavolini

"[...] Ho riflettuto sul mio passato e sulle mie scelte e non posso dire di essere stato sempre giusto o saggio ma ho cercato la verità con una certa diligenza e ho tentato di raccontarla, anche se, come in questo caso, mi avevano avvertito che sarei stato oggetto delle attenzioni del senatore McCarthy" - dal film Good night, and Good luckEd Murrow

"Non ho mai dimenticato il consiglio di un collega americano, Webb Miller: "Scrivi in modo che ti possa leggere un lattaio dell'Ohio'" - da un colloquio con Enzo BiagiIndro Montanelli

"La libertà d'espressione è necessaria... i cittadini silenziosi sono dei perfetti sudditi di un governo autoritario."Robert Dahl

"Quanti massacri, quanti terremoti avvengono nel mondo, quante navi affondano, quanti vulcani esplodono e quanta gente viene perseguitata, torturata e uccisa!Eppure se non c'è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive, qualcuno che fa una foto, che ne lascia traccia in un libro è come se questi fatti non fossero mai avvenuti! Sofferenze senza conseguenze, senza storia.Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta. E' una triste constatazione; ma è così ed è forse proprio questa idea - l'idea che con ogni piccola descrizione di una cosa vista si può lasciare un seme nel terreno della memoria - a legarmi alla mia professione..." - dal libro Un indovino mi disseTiziano Terzani

"La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire"George Orwell
"Io ho un concetto etico di giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon governo. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, e le violenze che non è stato mai capace di combattere"Giuseppe Fava

"Non escludo che un giorno il mio caporedattore, che mi ha incaricata di coprire questa guerra, non sappia più cosa farsene di me, come di un vecchio articolo non pubblicato al momento giusto che viene buttato nel cestino".Anna Politkovskaja
"Il nostro ruolo non è quello di essere per o contro; è di girare la penna nella piaga"Albert Londres

"I giornalisti dicono una cosa che sanno che non è vera, nella speranza che se continueranno a dirla abbastanza a lungo sarà vera."Arnold Bennett

"C'è da avere più paura di tre giornali ostili che di mille baionette."Napoleone I

Manuale di società - Sociologo Franco Ferrarotti

http://www.pandoratv.it/cultura,CA1,20/Manuale-di-societa-di-Franco-Ferrarotti-II-parte,A1,95.html

domenica 5 luglio 2009

Oliviero Toscani - creatività e costumi

http://parma.repubblica.it/dettaglio/toscani:la-foto-della-prostituta-nigeriana-e-una-dato-di-fatto/1509470


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Sul palco Toscani ha parlato di creatività, quella creatività che ormai è assente tra i giovani: “Esige uno stato di non controllo, di sovversione: se si è sicuri, non si è creativi. Il grande problema italiano sono le mamme: andrebbero eliminate al settimo mese di gravidanza, perché per tutte i loro figli, soprattutto i maschi, sono dei geni, dei creativi. In questo modo tendono a far conformare e a non essere se stessi”. Tante le campagne pubblicitarie: per riviste come “Elle” e “Vogue”, per grandi firme della moda tra cui Benetton, Iceberg, Armani, Valentino. E tante le splendide modelle con cui ha lavorato: Monica Bellucci, Claudia Schiffer e anche sua moglie, ovvero la modella di quella famosa pubblicità dei jeans “Jesus”, che mostrava il suo lato b accompagnato dallo slogan “Chi mi ama mi segua”. Era il 1973 e Toscani faceva già grande rumore nel mondo della pubblicità. Sarà davvero un provocatore? “Provocare significa essere generosi con l’u manità. Renderla partecipe di esprimere il proprio dissenso e il proprio modo di pensare”.

In programma c’è un progetto che lo porterà a girare tutta l’Italia e fotografare gli italiani: come si sono adeguati e conformati alle immagini della televisione, perdendo ogni individualità.

Verrà anche a Parma, dove, per adesso, ha lavorato al manifesto della mostra del Correggio, immortalando un dettaglio dell’affresco del Duomo: un angioletto con il quale vuole mostrare la gioia dei particolari. E, infatti, i particolari si notano, visto il nudo integrale del bambino.Ma qual è un’immagine che possa rappresentare Oliviero Toscani? “Un autoritratto da morto. Non so in che modo potrei riuscirei a realizzarlo, ma per adesso mi viene in mente solo questa situazione".

La storia della prima donna sindaco in Egitto

http://www.pensierimadyur.blogspot.com/2009/05/la-storia-della-prima-donna-sindaco-in.html

LA STORIA DELLA PRIMA DONNA SINDACO IN EGITTO
Mayor Eva Habeil Kirollous with her guard Nageh
Se chiedi nelle vicinanze di Coum-Booha , le indicazioni per raggiungerla, molti rispondono “Il villaggio con il sindaco mara?”. Mara è un termine arabo spregiativo per indicare le donne . Siamo in Egitto, nel governatorato di Assiut, e il villaggio dagli abitanti viene chiamato El Gesr , il ponte.Gli uomini del villaggio s’incontrano la mattina presto, prima di incamminarsi nei campi per lavorare, o la sera davanti a delle fumate di narghilè parlando di donne e politica. Si discute spesso di Eva Habeil Kiroullos , il nuovo sindaco di Coum-Booha e il primo sindaco donna in Egitto.“E’ una donna ma vale più di cento uomini” racconta un giovane contadino. Secondo lui il sesso non importa , la comunità non la ostacolerà solo perché è una donna. Il contadino racconta che prima di fare il sindaco Kiroullos era l’avvocato del villaggio. Risolveva i problemi di tutti , anche di chi aveva i soldi per non pagarla.Lo zio del giovane contadino interviene “Conosciamo bene suo padre e suo nonno. Anche loro sono stati sindaci di Coum-Booha. Sono persone oneste e semplici. Non vogliamo un sindaco di un’altra famiglia”. Tutti sono d’accordo ,nel villaggio, una donna può essere brava quanto un uomo a fare il sindaco. Un uomo rugoso dichiara “Non m’importa se è una donna , basta che lavori come un uomo”.Eva Habeil Kiroullos abita vicino all’antica chiesa che sovrasta il villaggio. Accoglie in ero , perchè si è svolta una cerimonia che si celebra dopo quaranta giorni la morte di un cittadino. Questo fa parte del suo lavoro . “Dovrebbero cancellare questa tradizione , non ne posso più di vestirmi di nero” dice ridendo.Ha 54 anni il sindaco, di cui 20 passati nella capitale. Suo padre voleva che ricevesse una buona educazione. Così l’ha mandata al Cairo per frequentare le scuole superiori. Il corso di studi all’Università gliel’ha ispirato il padre “Ammiravo il modo in cui mio padre trattava le persone. Era un sindaco affettuoso e rispettoso. Faceva sempre la cosa giusta e lo amavo per questo”. Fin da piccola Kiroullos era stata circondata da storie di giusto e sbagliato , di etica e correttezza. per questo ha scelto la facoltà di legge.Kiroullos chiese a suo padre di vivere in una residenza femminile gestita dalla chiesa. A quei tempi, nel 1980 , era una mossa azzardata. Le donne che non vivevano in famiglia erano immorali. “All’università era normale che le studentesse indossassero minigonne e abiti aderenti , ma nell’Alto Egitto le ragazze non si vestivano così. Lui non mi ha mai rimproverata per il mio abbigliamento” spiega.Kiroullos ha puntato in alto. Lavorava con altri 18 colleghi, ma lei voleva aprire uno studio tutto suo. Lo stipendio era basso, così decise di andare in Iraq. Il padre all’inizio rispose di no, per un fatto di protezione. Chiese al prete di intervenire , dopo molte discussioni e suppliche , la famiglia accettò.Eva arrivò in Iraq nello stesso giorno dell’omicidio di Sadat, presidente egiziano. Trovò lavoro in una libreria. Pochi mesi dopo , è stata assunta al dipartimento di legge dell’Università di Baghdad. Dopo due anni è tornata in Egitto. Ha lavorato in qualche studio legale al Cairo , e nel 1988 realizza il suo sogno: ha aperto uno studio insieme ad un suo collega .Nel 1990 suo padre si è ammalato gravemente. Eva era l’unica che poteva prendersi cura di lui. Fece le valigie e tornò a casa. Dopo essersi stabilita a Coum – Booha , Eva ha continuato la sua attività legale difendendo gli abitanti del villaggio contro lo Stato. Si è guadagnata la reputazione della paladina dei poveri. E’ stata eletta nel consiglio locale della vicina città di Dairut ed è diventata responsabile per le donne del comitato locale del Partito nazionale democratico. Oggi fa parte del governatorato di Assiut.Dopo la morte del padre , nel 2002, ha osservato il lutto per mesi. Il ruolo del sindaco doveva rimanere in famiglia. In Egitto i sindaci non vengono eletti. Un candidato fa richiesta al ministero dell’interno , che verifica le sue qualifiche per decidere se è adatto all’incarico. Il sindaco si occupa della sicurezza dei cittadini. Il fratello di Eva ha presentato domanda nel 2002, ma non è stato accettato. Il sindaco deve avere familiarità con il villaggio e con gli abitanti .Alla fine del 2006 Kiroullos si è presentata al direttorato per la sicurezza del ministero dell’interno ad Assiut. Dopo di due anni di lenta burocrazia , Kiroullos è diventata sindaco del villaggio , sconfiggendo altri 5 candidati tra cui un fratello e altri due parenti. “Non è stato facile convincere la gente ad accettarmi” confessa Kiroullos.Pochi giorni dopo aver assunto l’incarico , dovette dare mostra della sua personalità. Coom – Booha non rispettava le regole e i caffè di El Gesr si erano talmente allargati da bloccare il traffico. Il nuovo sindaco ha ordinato ai gestori di rispettare gli spazi , altrimenti gli avrebbe revocato gli spazi , altrimenti gli avrebbe revocato la licenza. Pochi giorni dopo El Gesr era sgombro.Il problema del villaggio , spiega , è l’avidità. La gente pensa solo ai soldi. Quando un giovane chiede la mano di una ragazza , è costretto a pagare 25 mila lire egiziane in oro alla famiglia. In questi casi non puoi appellarti alle autorità , ma bisogna far leva sulla religione. Nel villaggio esistono 4 chiese e una moschea ( il 95% della popolazione è cristiana). ha provato a parlare con i religiosi per non essere così attaccati al denaro. Ci vorrà del tempo per convincerli , ma almeno i semi sono piantati.Kiroullos passa le prime ore del mattino girando per il villaggio e raccogliendo le lamentele della gente. Poi torna a casa e riceve chi viene a raccontarle preoccupazioni e problemi. Verso le tre pranza e si riposa. Alle cinque si sveglia e riceve nuovamente gli ospiti.“La gente dimentica l’oggi per pensare a un domani che potrebbe non portargli quello che sperano”afferma. Lei ora si considera una fellah : una donna di campagna , che si gode la vita e lavora piantando semi , irrigando la terra e raccogliendo frutti. Non lotta per un campo più grande , ma si accontenta di osservare la vita che prospera.Kiroullos non è sposata e spera che la gente non se ne faccia un problema. E’ favorevole al matrimonio, ma non ha trovato la persona giusta. Comunque Kiroullos ha fatto molto per meritare il suo incarico, ma ci sono persone che non l’accettano. Ahmed di un paese vicino riferisce “In caso di dispute questo villaggio non oserà affrontare le altre comunità, I suoi abitanti sanno benissimo cosa succederebbe : gli altri li prenderebbero in giro perché si fanno comandare da una mara”.Gli abitanti di Coum-Booha sono contenti che qualcuno lavori per migliorare le loro vite e sono fieri di essere governati da una donna. Soprattutto se la donna è Eva Habeil Kiroullos.

Il tramonto della democrazia

http://www.globalproject.info/it/mondi/Il-tramonto-della-democrazia/192
di Arundhaty Roy
La scrittrice indiana parla dell'India

Le contraddizioni di un enorme paese
14 / 5 / 2009

Settecento milioni di indiani eleggono il nuovo parlamento. È un voto che fa comodo alle multinazionali, ai mercanti di armi e agli estremisti politici e religiosi.Ma che non serve al paese e alla democrazia, scrive Arundhati RoyPoiché ci chiediamo ancora se ci sia vita dopo la morte, possiamo farci anche un’altra domanda: c’è vita dopo la democrazia? E che vita sarà?Con “democrazia” non intendo un regime astratto e ideale a cui aspirare. Mi riferisco al modello più diffuso: la democrazia liberale occidentale con le sue varianti, prese così come sono.E allora, c’è vita dopo la democrazia?Quando cerchiamo di rispondere a questa domanda, spesso paragoniamo i diversi sistemi di governo per concludere con una difesa piccata e anche un po’ aggressiva della democrazia. Ha i suoi difetti, diciamo di solito. Non è perfetta, ma è meglio degli altri sistemi a disposizione.Inevitabilmente, qualcuno chiederà: “Afghanistan, Pakistan, Arabia Saudita, Somalia... Preferireste questi sistemi?”.Se la democrazia sia un ideale a cui devono tendere tutte le società “in via di sviluppo” è un’altra questione (io penso di sì, e la fase iniziale, ancora piena di ideali, può essere davvero inebriante). La domanda sulla vita dopo la democrazia va rivolta a chi di noi vive già in una democrazia, o in paesi che fingono di essere democratici. Non voglio suggerire un ritorno a modelli passati e ormai screditati di governo totalitario o autoritario. Ma penso che sia il nostro ideale di democrazia, e non la nostra economia, ad avere bisogno di un po’ di adeguamenti strutturali.Il punto è capire cosa abbiamo fatto della democrazia. In cosa l’abbiamo trasformata?Che succede una volta che è stata svuotata e privata di senso? Cosa succede quando ognuna delle sue istituzioni è diventata metastasi fino a trasformarsi in un’entità maligna e pericolosa?Cosa succede ora che democrazia e capitalismo si sono fusi in un unico organismo predatorio, dall’immaginazione limitata e incentrata quasi esclusivamentesull’idea della massimizzazione dei profitti?È possibile invertire questo processo?Quello che serve oggi, per salvare il pianeta, è un progetto a lungo termine.Lo possono offrire i governi democratici, che sopravvivono solo grazie allo sfruttamento delle risorse? È possibile che la democrazia si riveli un boomerang per il genere umano? Se la democrazia ha tanto successo probabilmente è perché condivide con l’umanità il suo più grosso difetto: la miopia.La nostra incapacità di vivere nel presente e al tempo stesso di guardare in avanti, ci rende strani esseri “di mezzo”, né bestie né profeti. La nostra intelligenza sembra averci privato dell’istinto di sopravvivenza.Saccheggiamo la Terra sperando di accumulare surplus materiali che compensino tutto quello che di profondo e indicibile abbiamo perso.Sarebbe presuntuoso dire di avere le risposte anche a una sola di queste domande.Ma è possibile dimostrare, in modo piuttosto dettagliato, che la luce del faro sta diventando sempre più debole e che forse non possiamo più contare sulla democrazia perché ci garantisca giustizia e stabilità. Basta osservare come funziona la democrazia più grande del mondo.Come scrittrice mi chiedo spesso se lo sforzo di essere sempre precisa, di fornire dati corretti, non sminuisca in qualche modo la portata storica dei fatti. E magari finisca per mascherare una verità più ampia. Temo di cadere in una prosaica descrizione della realtà, mentre servirebbero un urlo selvaggio e ferino o la forza trasformatrice e l’esattezza autentica della poesia.C’è qualcosa di astuto, braminico, contorto, burocratico, classificatorio, nel rapporto tra potere e sottomissione in India, qualcosa che si riassume nell’obbligo di “inoltrare richieste attraverso gli appositi canali”. E questo ci rende tutti guardinghi come impiegatucci. A mia discolpa posso dire che servono strumenti bizzarri per farsi largo nel labirinto di sotterfugi e ipocrisia dietro cui si nasconde l’inimmaginabile insensibilità e brutalità della nuova superpotenza più amata del mondo. La repressione “attraverso gli appositi canali” crea una resistenza che passa “attraverso gli appositi canali”. Come resistenza non basta, lo so. Ma per ora non ho altro. Forse un giorno ne usciranno la poesia e l’urlo ferino.
Sulle montagne afghaneHo scritto Ascoltare le cavallette (Internazionale758) in occasione di una conferenza che ho tenuto a Istanbul nel gennaio del 2008, per il primo anniversario dell’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink. Il mio intervento era dedicato alla storia del genocidio armeno e alla sua negazione, oltre che alla relazione storica, quasi organica, tra “progresso” e genocidio. Mi ha sempre colpito il fatto che il partito politico turco responsabile del genocidio degli armeni si chiamasse Comitato per l’unione e il progresso. Molti miei articoli parlano proprio del rapporto tra unione e progresso, cioè, per usare un linguaggio più attuale, tra nazionalismo e sviluppo: le inattaccabili torri gemelle della moderna democrazia del libero mercato.Anche se molti di questi articoli li ho scritti tra il 2002 e il 2008, il loro punto di partenza risale al 1989, quando sulle aspre montagne dell’Afghanistan il capitalismo vinse la sua lunga jihad contro il comunismo sovietico (da allora, la ruota ha ricominciato a girare, e sembra proprio che quelle stesse montagne stiano per diventare la tomba del capitalismo).Pochi mesi dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del muro di Berlino, il governo indiano, che era stato uno dei più fieri sostenitori del movimento dei paesi non allineati, si schierò senza remore con gli Stati Uniti, guida indiscussa del nuovo mondo unipolare. Le regole del gioco furono improvvisamente stravolte. Milioni di persone, che non avevano mai sentito parlare né di Berlino né dell’Unione Sovietica, non potevano immaginare come sarebbero cambiate le loro vite. In India la confisca delle terre di migliaia di famiglie era cominciata nei primi anni cinquanta, quando il governo aveva scelto il modello di sviluppo sovietico: le enormi acciaierie (a Bhilai, a Bokaro) e migliaia di grandi dighe sarebbero state le “punte di lancia” dell’economia.Con le privatizzazioni e gli adeguamenti strutturali, il processo ha subìto un’accelerazione travolgente. Oggi “progresso” e “sviluppo” sono diventati sinonimo di “riforme” economiche, deregulation e privatizzazione. Due decenni di “progresso” di questo tipo hanno creato una nutrita classe media in preda a una sbronza da ricchezza improvvisa, e un sottoproletariato molto, molto più numeroso e disperato.Decine di milioni di persone sono state private della loro terra e costrette ad andarsene a causa di enormi progetti infrastrutturali: dighe, miniere, zone economiche speciali, create nel nome della povera gente ma in realtà destinate a soddisfare le crescenti pretese della nuova aristocrazia.Oggi la lotta per la terra e l’accesso alle risorse è al centro del dibattito sullo “sviluppo”.Nel 2008 il ministro delle finanze Palaniappan Chidambaram ha dichiarato che il suo obiettivo è urbanizzare l’85 per cento della popolazione indiana.Centrifuga socialeUn cambiamento del genere richiederebbe un processo di ingegneria sociale di proporzioni immani, che dovrebbe spingere o costringere circa 500 milioni di persone a emigrare dalle campagne in città. E questo permetterebbe alle multinazionali di saccheggiare enormi porzioni di territorio insieme alle loro risorse naturali. Già oggi foreste, montagne e sistemi idrici sono devastati dalle razzie delle multinazionali, spalleggiate da uno stato alla deriva e sul punto di commettere un “ecocidio”. Interi ecosistemi vengono distrutti dalle miniere di bauxite e minerale ferroso che stanno desertificando l’est dell’India. Sull’Himalaya sono in progetto centinaia di dighe di grandivdimensioni, che avranno conseguenze catastrofiche. Nelle pianure, i iumi canalizzati per contrastare le inondazioni hanno causato l’innalzamento dei letti fluviali e inondazioni ancora maggiori, hanno saturato i terreni e hanno provocato la salinizzazione dei campi coltivati, distruggendo i mezzi di sostentamento di milioni di persone.Il passaggio da un’agricoltura sostenibile e rivolta all’autosufficienza alimentare a una intensiva e speculativa ha indebitato ino al collo i piccoli coltivatori.Secondo i dati più aggiornati, in India si sono suicidati oltre 180mila contadini. Fame e denutrizione, che ormai hanno raggiunto i livelli dell’Africa subsahariana, si diffondono a macchia d’olio. È come se una società che marciva sotto il peso del feudalesimo e del sistema delle caste fosse stata gettata in un’enorme centrifuga. Il macchinario ha strappato la rete delle vecchie diseguaglianze, ne ha lasciate alcune, ma ha finito per rafforzarne la maggior parte. Adesso la società è stata scremata: è rimasto un sottile strato di panna densa sopra un mucchio d’acqua. La panna è quel “mercato” indiano di milioni di consumatori (di auto, cellulari, computer, biglietti d’auguri per san Valentino) che fa gola agli imprenditori di tutto il mondo. L’acqua conta poco. Può essere sprecata, conservata in bacini artificiali o prosciugata.Almeno così pensano gli uomini in giacca e cravatta, che non si aspettavano la guerra civile scoppiata nel cuore dell’India: in Orissa, in Chhattisgarh, in Jharkhand e in Bengala Occidentale.Quasi a dimostrare lo stretto rapporto tra unione e progresso, nel giugno del 1986, durante il governo del primo ministro Rajiv Gandhi, il tribunale di Faizabad ordinò di togliere i sigilli alla moschea Babri nella città di Ayodhya, in Uttar Pradesh. L’anonimo edificio era stato costruito nel cinquecento, e secondo gli induisti sorgeva sulle rovine di un tempio indù. Il Bharatiya janata party (Bjp), partito di destra che all’epoca sedeva all’opposizione, lanciò immediatamente una violenta campagna in favore del nazionalismo indù. Nel 1990 il suo leader L.K. Advani viaggiò in lungo e in largo per alimentare l’odio antislamico, chiedendo la demolizione della moschea di Babri per costruire al suo posto un tempio dedicato a Rama. Nel dicembredel 1992 centinaia di indù, incitati da Advani, demolirono l’edificio. All’inizio del 1993 si scatenarono per le vie di Mumbai, assalendo i musulmani e uccidendo un migliaio di persone. Come rappresaglia, una serie di attentati dinamitardi in città causò circa duecentocinquanta morti. Sfruttando il clima di tensione, il Bjp (che nel 1984 aveva solo due seggi in parlamento) nel 1998 sconfisse il partito del Congress e arrivò al governo.A quel punto, il progetto “progressista” di privatizzazioni e liberalizzazioni era cominciato da otto anni. Il Bjp si era già schierato in favore di grandi multinazionali come la Enron. Una volta al comando, per prima cosa autorizzò una serie di test nucleari.Quando nella storia di un paese accadono certi eventi, chiunque può immaginare quale sarà il futuro. Gli esperimenti nucleari del 1998 sono stati uno di questi eventi. Non ci voleva un genio per capire che direzione avesse preso l’India.Nel 2002, solo tre anni dopo i test nucleari, il governo del Gujarat guidato dal Bjp e dal governatore Narendra Modi ha orchestrato con cura un pogrom contro i musulmani di quello stato. L’islamofobia alimentata dall’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ha dato maggiore impulso ai nazionalisti indù. Il governo dello stato del Gujarat è rimasto in disparte mentre più di mille persone venivano massacrate. Le donne sono state vittime di stupri collettivi e poi sono state bruciate vive. Circa 150mila persone sono state cacciate dalle loro case.Dopo il pogrom, Narendra Modi ha vinto altre due elezioni in Gujarat. Ora è al suo terzo mandato come governatore. Nel 1984 centinaia di persone guidate dai leader del partito del Congress hanno massacrato migliaia di sikh per le strade di Delhi. Nel gennaio del 1999 alcuni delinquenti del Bajrang dal, una milizia indù, hanno aggredito il missionario australiano Graham Staines e i suoi due bambini, bruciandoli vivi.Nel dicembre del 2007 le aggressioni contro i cristiani da parte delle milizie indù non potevano più essere considerate incidenti casuali. In diversi stati governati dal Bjp – Gujarat, Karnataka, Orissa – si sono moltiplicate le aggressioni contro i cristiani e i saccheggi delle chiese.A Kandhamal, in Orissa, almeno sedici dalit e adivasi (intoccabili e tribali) cristiani sono stati uccisi da dalit e adivasi “indù” (“l’induizzazione” di dalit e adivasi serve a mettere gli uni contro gli altri, oltre che contro i musulmani e i maoisti, e al momento è forse il principale progetto delle milizie indù). Oggi decine di migliaia di cristiani vivono nei campi profughi o si nascondono nelle foreste, temendo perfino di andare a coltivare i campi.Nel dicembre del 2008 decine di vigilantes indù a Bangalore e a Mangalore hanno cominciato ad aggredire le donne che indossano jeans e abiti occidentali.Quando ci sono le elezioni, i partiti sfruttano questi massacri. Ne approfittano, in maniera subdola, o si accusano a vicenda di essere i responsabili degli eccidi.Ma nessun partito ha mai commesso “l’errore” di garantire che i colpevoli siano puniti. Anzi, nonostante gli scambi di accuse, si danno manforte per evitare ripercussioni concrete. Il risultato è una continua messinscena. Le stragi sono assorbite dal labirintico sistema giudiziario indiano, e lasciate lì a fermentare prima di essere rispolverate come materiale di propaganda per le elezioni seguenti. Si potrebbe dire che sono diventate parteintegrante del tessuto della democrazia indiana.
Un mostruoso debuttanteNel gennaio del 2009 il rapporto organico tra unione e progresso – o, se si preferisce, tra fascismo e libero mercato – è stato sancito con un bacio durante una cerimonia pubblica. Gli amministratori delegati di due delle principali multinazionali indiane – Ratan Tata, del gruppo carrozza c’è scritto: “Gli elettori indiani rimetteranno in moto il mondo?”.In questo modo spudorato l’elettorato è stato trasformato in mercato, gli elettori sono diventati consumatori e la democrazia è stata legata a ilo doppio al libero mercato.I mezzi d’informazione si sono lanciati soprattutto su due argomenti. Il primo è la “macchina del popolo”, la Tata Nano da centomila rupie (1.500 euro), prodotta nel Gujarat di Modi (le agevolazioni e i favori concessi alla Tata spiegano buona parte del sostegno dell’azienda a Modi).Il secondo è il discorso carico d’odio pronunciato dal mostruoso debuttante del Bjp, Varun Gandhi (nipote di Indira Gandhi), che fa sembrare Narendra Modi un moderato.Varun Gandhi ha chiesto la sterilizzazione dei musulmani. “Questa terra sarà conosciuta come bastione degli indù, e nessun musulmano oserà alzare la cresta qui da noi”, ha dichiarato, usando un insulto rivolto a chi è circonciso. “Dai musulmani non voglio neppure un voto”.Qui sta il nodo della questione. Varun Gandhi è un politico moderno, che opera nel sistema democratico, e fa tutto quello che è in suo potere per creare una maggioranza e consolidare il suo bacino di Tata, e Mukesh Ambani, della Reliance Industries – nel discorso di accettazione del premio Gujarat garima (Orgoglio del Gujarat) hanno elogiato la politica di sviluppo di Narendra Modi, l’artefice del genocidio del Gujarat. Naturalmente Modi, come candidato alla carica di primo ministro, poteva contare sul loro appoggio.La campagna elettorale di quest’anno è costata quasi cento miliardi di rupie (due miliardi di dollari. Da dove spunta una somma del genere?). Tra i partiti c’è un evidente consenso trasversale sulle “riforme” economiche. Non stupisce quindi che tra i sostenitori più entusiasti di queste elezioni ci siano le principali multinazionali. Probabilmente hanno capito che la democrazia può legittimare il loro istinto predatorio meglio di qualsiasialtro sistema.Diverse multinazionali hanno lanciato campagne televisive, in alcuni casi coinvolgendo star di Bollywood, per invitare giovani e vecchi, ricchi e poveri, ad andare a votare. La democrazia va di moda.La Bbc ha prenotato una carrozza ferroviaria, l’India election special, che condurrà giornalisti di tutto il mondo in un tour guidato, perché descrivano le meraviglie delle elezioni indiane. Sulla carrozza c’è scritto: “Gli elettori indiani rimetteranno in moto il mondo?”.In questo modo spudorato l’elettorato è stato trasformato in mercato, gli elettori sono diventati consumatori e la democrazia è stata legata a ilo doppio al libero mercato.I mezzi d’informazione si sono lanciati soprattutto su due argomenti. Il primo è la “macchina del popolo”, la Tata Nano da centomila rupie (1.500 euro), prodotta nel Gujarat di Modi (le agevolazioni e i favori concessi alla Tata spiegano buona parte del sostegno dell’azienda a Modi).Il secondo è il discorso carico d’odio pronunciato dal mostruoso debuttante del Bjp, Varun Gandhi (nipote di Indira Gandhi), che fa sembrare Narendra Modi un moderato. Varun Gandhi ha chiesto la sterilizzazione dei musulmani. “Questa terra sarà conosciuta come bastione degli indù, e nessun musulmano oserà alzare la cresta qui da noi”, ha dichiarato, usando un insulto rivolto a chi è circonciso. “Dai musulmani non voglio neppure un voto”.Qui sta il nodo della questione. Varun Gandhi è un politico moderno, che opera nel sistema democratico, e fa tutto quello che è in suo potere per creare una maggioranza e consolidare il suo bacino di voti. Un politico ha bisogno di un bacino di voti, come una multinazionale di un mercato di massa. Al giorno d’oggi, entrambi chiedono aiuto ai mezzi d’informazione.Le multinazionali quell’aiuto lo comprano (circa il 90 per cento degli introiti dei canali televisivi, così come della carta stampata, viene dalla pubblicità).
I politici se lo devono guadagnare attirando l’attenzione. Varun Gandhi può benissimo sopportare qualche critica, o un breve soggiorno in galera, se il suo discorso carico d’odio, pronunciato di fronte a una folla in delirio nel suo isolato collegio elettorale, è trasmesso e ritrasmesso dalle televisioni negli orari di punta. Ha ottenuto la visibilità che voleva.Chi è un mostro per qualcuno, per altri può essere un messia. Il separatismo e la politica identitaria, che seguono i binari di casta, tribù, religione ed etnia – il tutto sotto l’ombrello sempre più ampio dell’Hindutva – sono diventati il motore della democrazia indiana. Purtroppo non si tratta solo di separatismo, ma di separatismo degenerativo. Ed è difficile notarlo dal finestrino di un treno.La politica dei mercati di massa e dei bacini di voti rafforza l’idea che la maggioranza ha il diritto di dominare, una soldati in servizio effettivo in Iraq al culmine dell’occupazione). Adesso l’esercito indiano sostiene di avere stroncato in gran parte la resistenza dei militanti islamici del Kashmir. Forse è vero. Ma il dominio militare signiica vittoria? Per decenni, dopo la partizione tra India e Pakistan del 1947, i kashmiri hanno ostinatamente rifiutato di “integrarsi” e di accettare quello che la maggior parte considerava (e considera tuttora) la dominazione indiana. Tutto questo ha alimentato le tensioni tra India e Pakistan sfociate due volte in guerra aperta. Il continuo aumento della presenza dell’esercito indiano in Kashmir e la prospettiva sempre più lontana di un referendum sotto l’egida delle Nazioni Unite hanno trasformato la rabbia popolare in un movimento di resistenza. Preoccupato dalla crescente influenza dei leader antindiani, nel 1987 il governo centrale manipolò apertamente le elezioni del parlamento dello stato kashmiro. Le manifestazioni di protesta furono soffocate brutalmente dalle unità di sicurezza indiane. Ispirandosi in parte all’intifada palestinese, la popolazione del Kashmir scese per le strade. La rabbia diventò lotta armata. Migliaia di sorta di via indiana al fascismo. Le istituzioni democratiche – tribunali, polizia, “libera” stampa ed elezioni – invece di funzionare come un sistema equilibrato basato sul controllo reciproco, spesso fanno il contrario. Si coprono le spalle a vicenda per favorire gli interessi superiori di “unione” e “progresso”. In questo modo creano una tale confusione, una tale cacofonia, che le voci che si alzano per avvertire l’opinione pubblica finiscono soffocate dal frastuono. E questo non fa che confermare l’immagine di una democrazia amichevole, rumorosa, pittoresca e a volte un po’ caotica.
L’occupante indianoPoi, ovviamente, c’è il conflitto in Kashmir, che secondo alcuni analisti politici rischia di far precipitare il mondo in una guerra nucleare. La guerra nella valle del Kashmir dura ormai da quasi vent’anni e ha fatto più di 70mila morti.Più di centomila uomini sono stati torturati, diverse migliaia sono “scomparsi”, mentre le donne sono state vittime di stupri e decine di migliaia sono rimaste vedove. Più di 500mila soldati indiani pattugliano la valle del Kashmir, che di fatto è la zona più militarizzata del mondo (gli Stati Uniti avevano circa 165mila soldati in servizio effettivo in Iraq al culmine dell’occupazione). Adesso l’esercito indiano sostiene di avere stroncato in gran parte la resistenza dei militanti islamici del Kashmir. Forse è vero.Ma il dominio militare signiica vittoria? Per decenni, dopo la partizione tra India e Pakistan del 1947, i kashmiri hanno ostinatamente rifiutato di “integrarsi” e di accettare quello che la maggior parte considerava (e considera tuttora) la dominazione indiana. Tutto questo ha alimentato le tensioni tra India e Pakistan sfociate due volte in guerra aperta. Il continuo aumento della presenza dell’esercito indiano in Kashmir e la prospettiva sempre più lontana di un referendum sotto l’egida delle Nazioni Unite hanno trasformato la rabbia popolare in un movimento di resistenza.Preoccupato dalla crescente influenza dei leader antindiani, nel 1987 il governo centrale manipolò apertamente le elezioni del parlamento dello stato kashmiro. Le manifestazioni di protesta furono soffocate brutalmente dalle unità di sicurezza indiane. Ispirandosi in parte all’intifada palestinese, la popolazione del Kashmir scese per le strade. La rabbia diventò lotta armata. Migliaia di giovani kashmiri varcarono le montagne per andare in Pakistan ad addestrarsi e armarsi per combattere l’esercito indiano, uno dei più grandi e potenti del mondo.Furono addestrati dagli stessi uomini che in Afghanistan avevano guidato la vittoriosa jihad americana contro l’Unione Sovietica, dopo aver formato migliaia di mujahiddin islamici reclutati in tutto il mondo musulmano. I giovani kashmiri tornarono ben addestrati, equipaggiati con armi moderne e animati dal sogno della libertà.Erano accompagnati da guerriglieri “stranieri”, pachistani, afgani o provenienti da luoghi lontani come il Sudan. Molti di loro erano veterani di molte battaglie che sognavano la nazione panislamica. Introdussero una lettura più severa e puritana dell’islam, più interessata alla punizione che alla fede (alcuni lo definiscono “islam americano”), sconosciuta nella valle del Kashmir.I servizi segreti indiani e pachistani si accorsero rapidamente di questa differenza di posizioni e la alimentarono, creando spaccature fratricide tra la popolazione e dando un tono apertamente religioso a quella che era cominciata come una lotta per la libertà e l’autodeterminazione. Questa combinazione di islamizzazione, nazionalismo kashmiro militante e manipolazione da parte delle istituzioni indiane e pachistane causò una specie di esodo della minuscola minoranza indù del Kashmir. Fu questo che permise al governo indiano, e ai mezzi d’informazione “collaborazionisti”, di demonizzare la lotta per la libertà del Kashmir, presentandola come una rivolta religiosa lanciata dai fondamentalisti islamici contro una democrazia laica. Di conseguenza, per quanto possa sembrare strano, alcuni elementi dell’islam radicale, che non rappresentano in alcun modo l’opinione della maggioranza dei kashmiri, sono gli alleati più utili del governo indiano nella sua propaganda di guerra.Come può, un governo che si professa democratico, giustificare un’occupazione militare? Grazie alle elezioni, ovviamente. Dopo ogni elezione, infatti, il governo indiano dichiara di aver ottenuto dal popolo del Kashmir il mandato per continuare la sua azione.Nell’estate del 2008 una disputa su un terreno concesso ai pellegrini indù accanto a un luogo sacro islamico, ad Amarnath, ha causato una protesta di massa non violenta. Giorno dopo giorno, centinaia di migliaia di persone hanno sfidato soldati e polizia – che hanno sparato contro la folla uccidendo molti manifestanti – e hanno invaso le strade. Dall’alba a notte fonda nelle vie di Srinagar rimbombavano le parole di “Azadi! Azadi!” (libertà). I fruttivendoli ripetevano “Azadi! Azadi!” mentre pesavano la merce. Commercianti, medici, proprietari di case galleggianti, guide turistiche, tessitori, venditori di tappeti: tutti erano per strada con un cartello in mano e tutti gridavano “Azadi! Azadi!”. Le proteste sono andate avanti per giorni.Alla fine lo stato indiano, indeciso su come affrontare una simile disobbedienza civile, ha ordinato il giro di vite. Ha imposto il coprifuoco più severo degli ultimi anni, dando ordine di sparare a vista. Ha messo agli arresti domiciliari i principali leader della protesta, incarcerandone diversi altri. Ha ordinato perquisizioni casa per casa che sono culminate con l’arresto di centinaia di persone. La moschea Jama di Srinagar è stata chiusa, impedendo la preghiera del venerdì per sette settimane di seguito, fatto senza precedenti.Una volta domata la rivolta, il governo ha fatto una cosa incredibile: ha indetto le elezioni. Era un grosso rischio. I leader indipendentisti (tutti in carcere o agli arresti domiciliari) hanno invitato al boicottaggio. Erano quasi tutti convinti che le elezioni avrebbero coperto di ridicolo il governo indiano. Invece la scommessa è stata vincente. La popolazione si è presentata in massa alle urne. C’è stata la maggior affluenza dall’inizio della lotta armata. Ancora una volta, il governo e i mezzi d’informazione hanno presentato il risultato come una sorta di referendum a favore dell’India.Nessuno degli analisti, dei giornalisti e dei politologi indiani si è chiesto perché un popolo che solo qualche settimana prima aveva rischiato tutto, sfidando un esercito che aveva l’ordine di sparare a vista, avesse cambiato idea così all’improvviso. Nessuno degli illustri studiosi del grande festival della democrazia ha detto cosa significano le elezioni in presenza di uno spiegamento di truppe così imponente e diffuso (un militare armato ogni venti civili). Nessuno ha parlato del coprifuoco, delle retate e degli arresti, della blindatura dei collegi elettorali.Pochi hanno accennato al fatto che, durante la campagna elettorale, i politici hanno cercato in ogni modo di separare il voto dalla questione dell’“Azadi” e del Kashmir conteso, sostenendo che le elezioni riguardavano solo questioni di banale amministrazione: manutenzione delle strade, fornitura idrica ed elettrica.Nessuno ha spiegato perché persone che vivono da decenni sotto un’occupazione militare – per cui i soldati possono irrompere nelle case e portare via le persone a qualsiasi ora del giorno e della notte – debbano aver bisogno di qualcuno che le ascolti, che sostenga la loro causa, che li rappresenti.
Il silenzio non è possibileDopo le elezioni, le istituzioni e la stampa hanno proclamato la nuova vittoria (dell’India). E tutto è tornato come prima. Le manifestazioni e le richieste di libertà sono ricominciate, così come le esecuzioni sommarie da parte delle forze di sicurezza. Secondo i giornali, le ile dei militanti si stanno ingrossando. C’è davvero da chiedersi se sia rimasto qualche legame tra elezioni e democrazia.Il problema è che il Kashmir si trova sul crinale di una regione piena di armi che sta scivolando nel caos. La lotta di liberazione del Kashmir, dalle aspirazioni cristalline ma dai contorni sfocati, è presa in un vortice di ideologie pericolose e in contrasto tra loro: il nazionalismo indiano, quello pachistano, l’imperialismo degli Stati Uniti, la resistenza islamica e “medievale” dei taliban all’occupazione statunitense dell’Afghanistan. Ognuna è capace di mostrare una spietatezza che può sfociare nel genocidio o nella guerra nucleare.Aggiungete le ambizioni imperialiste cinesi, il ritorno di una Russia aggressiva e qualche testata nucleare a piede libero: ecco pronta la ricetta per la nuova guerra fredda.Il Kashmir, dunque, è condannato a diventare l’anello di congiunzione tra il caos afgano e pachistano e l’India, dove questo caos potrà fare presa sulla rabbia dei più giovani tra i centocinquanta milioni di musulmani maltrattati, umiliati ed emarginati. A sentire la polizia indiana, gli attacchi terroristici del 2008 a Delhi, Jaipur e Ahmedabad, così come i più recenti attentati a Mumbai del 26 novembre, sarebbero un primo segnale di questa tendenza.Sicuramente la questione kashmira, insieme a quella palestinese, è tra le dispute più antiche e complesse del mondo. Ma non significa che sia insolubile. Vuol dire solo che la soluzione non soddisferà pienamente nessuna parte, nessun paese e nessuna ideologia. I negoziatori dovranno essere pronti ad allontanarsi dalla “linea ufficiale”. Certo il governo indiano per ora non è neanche disposto ad ammettere che esista un problema, figuriamoci a trattare per trovare una soluzione. I suoi rimedi temporanei e brutali alle rivolte in Kashmir non hanno fatto altro che peggiorare la situazione.Insomma, George W. Bush è stato una specie di superprofeta. A differenza di quasi tutti i profeti, infatti, aveva il potere di influenzare il futuro perché rispettasse le sue profezie. Dopo l’11 settembre, quando il presidente statunitense disse “Chi non sta con noi sta con i terroristi”, molti di noi l’hanno preso in giro, rifiutando di fare una simile scelta. Non volevamo scegliere tra George e Osama, tra l’occupazione statunitense dell’Afghanistan e il folle medioevo taliban, tra l’occupazione statunitense dell’Iraq e le feroci milizie islamiche che la combattono. La “guerra al terrore” ha creato un clima che ha permesso ai governi di tutto il mondo di approvare nuove leggi antiterrorismo per la sicurezza nazionale. Leggi in cui la definizione di “terrorista” è così vaga e ampia da poter essere applicata praticamente a chiunque. In vari paesi, nascoste dietro il linguaggio della “guerra al terrore”, sono state ripresentate con rinnovato entusiasmo vecchie divisioni manichee.In Palestina la popolazione deve scegliere tra Hamas e l’occupazione israeliana. In India, tra il nazionalismo indù e il terrorismo islamico, tra le razzie delle multinazionali e la guerriglia maoista. In Kashmir, tra l’occupazione militare e le cellule militanti islamiche. Nello Sri Lanka, tra uno spietato stato singalese e le sentenze di morte delle Tigri tamil.I popoli non dovrebbero essere costretti a compiere nessuna di queste scelte. Eppure sono sempre meno le persone che possono dire: “Non stiamo né con voi né con i ‘terroristi”. Chi ha ancora questo privilegio e lo esercita, rischia di perdersi in un esercizio di pura compassione o nelle pallide banalità dei discorsi sui diritti umani, che con l’equidistanza morale tolgono urgenza politica e concretezza a queste battaglie che sono politiche, urgenti e molto concrete. Anche chi rifiuta la violenza sa bene che non si possono mettere sullo stesso piano la brutalità di un esercito d’occupazione e quella di chi gli oppone resistenza, oppure la violenza dei diseredati e quella degli approfittatori, la violenza del capitalismo delle multinazionali e quella delle comunità che lo combattono.Anche se la propaganda sulla “guerra al terrore” vorrebbe spingerci a fare di ogni erba un fascio, è ovvio che non tutte le lotte armate sono uguali. Alcune sono di massa e, almeno di nome, rivoluzionarie. Altre no. Alcune sono apertamente sessiste e decisamente retrograde.Nel complesso, però, non esiste qualcosa che si possa definire una lotta armata “gentile” o compassionevole. Ci sono sempre spargimenti di sangue. C’è sempre una gran puzza. È così se si combatte.Quando, sentendoci a disagio di fronte ai massacri, diciamo: “Non stiamo né con voi, né con i ‘terroristi’”, corriamo il rischio di sostenere lo status quo. D’altra parte, se rinunciamo a quella posizione, rischiamo di diventare sostenitori acritici della sottomissione delle donne, delle decapitazioni pubbliche e degli attentatori suicidi, o di chi promuove una visione del mondo ristretta, da incubo.È più importante che mai criticare quelli di cui sosteniamo le battaglie, di cui capiamo la rabbia, ma di cui rifiutiamo i metodi e le idee. Al tempo stesso, dobbiamo sempre tenere presente che in una zona di guerra ogni paragrafo, ogni frase che pronunciamo verrà saccheggiata e sfruttata per la propaganda delle due fazioni rivali. Con conseguenze che possono rivelarsi spiacevoli. Il silenzio, però, non è una scelta possibile.
La forza della poesiaForse la storia del ghiacciaio di Siachen, il campo di battaglia più alto del mondo, è la metafora migliore della follia dei nostri tempi. Qui sono stati schierati migliaia di soldati indiani e pachistani, costretti a sopportare il vento gelido e temperature che arrivano a meno quaranta. In quest’area sono morti centinaia di soldati, uccisi dal freddo, fiaccati dai geloni e dalle ustioni solari.Il ghiacciaio ormai è diventato una discarica ingombra di relitti: migliaia di bossoli d’artiglieria, bidoni di carburante vuoti, piccozze, vecchi scarponi, tende e ogni altro genere di residuato bellico prodotto da migliaia di esseri umani.Questi rifiuti restano lì, conservati dalle temperature bassissime, monumento alla follia dell’uomo. Mentre il governo indiano e quello pachistano spendono miliardi di dollari in armi e nella logistica per la guerra d’alta quota, il campo di battaglia ha cominciato a sciogliersi. Oggi le sue dimensioni si sono già ridotte della metà. Lo scioglimento non ha a che fare con i combattimenti. È dovuto soprattutto alle persone che vivono dall’altra parte del mondo e conducono una vita lussuosa. Brave persone, che credono nella pace, nella libertà di parola e nei diritti umani. Persone che vivono in ricche democrazie, i cui governi hanno un seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, con un’economia molto dipendente dalle esportazioni belliche e dalla vendita di armi a paesi come India e Pakistan (e Ruanda, Sudan, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Iraq... l’elenco è lungo).Lo scioglimento dei ghiacci provocherà gravi inondazioni nel subcontinente, seguite da una siccità che sconvolgerà la vita di milioni di persone. Tutto questo fornirà altre ragioni per combattere. Serviranno altre armi. Chissà, forse la fedeltà del consumatore al fornitore è proprio quello che serve al mondo per superare la recessione degli ultimi mesi. E così tutti gli abitanti delle ricche democrazie vivranno ancora meglio e i ghiacciai si scioglieranno ancora più in fretta.Mentre parlavo al pubblico concentrato e teso che riempiva l’auditorium di un’università di Istanbul (teso perché parole come “unità”, “progresso”, “genocidio” e “armeni” tendono a far infuriare le autorità turche quando sono pronunciate una vicino all’altra), vedevo in prima ila Rakel Dink, la vedova di Hrant, che piangeva ininterrottamente. Alla ine mi ha abbracciato e ha detto: “Noi continuiamo a sperare. Ma perché continuiamo a sperare?”. “Noi”, ha detto. Non “voi”. Mi sono venuti in mente i versi di Faiz Ahmed Faiz, cantati dalla bella voce di Abida Parveen: nahin nigah main manzil to justaju hi sahi/nahin wisaal mayassar to arzu hi sahi.Ho cercato di tradurli (alla meglio) a Rakel: se i sogni sono ostacolati, allora il desiderio deve prenderne il posto/se il ricongiungersi è impossibile, allora la brama deve prenderne il posto. Capite cosa intendo quando parlo di poesia?
gg
* Arundhaty Roy è una scrittrice indiana. Nel 1997 ha vinto il Booker prize con Il dio delle piccole cose (Guanda). Questo articolo è tratto dall’introduzione di Quando arrivano le cavallette, una raccolta di suoi articoli che sarà pubblicata l’11 giugno 2009 da Guanda.
Da sapereLe elezioni per la quindicesima legislatura indiana si svolgono in cinque giornate. Sono cominciate il 16 aprile 2009. L’ultima giornata di voto sarà il 13 maggio. I risultati saranno resi noti il 16 maggio 2009.Gli elettori registrati sono 714 milioni, il 48 per cento sono donne, il 25 per cento ha meno di 35 anni.Si sono presentati 1.055 partiti.I due principali candidati premier sono l’attuale primo ministro Manmohan Singh, del Congress, e Lal Krishna Advani, leader del partito nazionalista di destra Bharatiya janata party.Una terza candidata è Mayawati, la governatrice dalit (intoccabile) dell’Uttar Pradesh e leader del Bahujan samaj party, di ispirazione socialista. Nella camera bassa del parlamento (Lok sabha) saranno eletti 543 deputati. I partiti minori e regionali potrebbero conquistare il 50 per cento dei seggi. In caso di vittoria il premier Singh potrebbe allearsi con la sinistra, come nel 2004.
Le paroleAdivasi (tribale). Indica gli abitanti originari dell’India.Babri masjid. Il 6 dicembre 1992 centinaia di fondamentalisti indù hanno distrutto la moschea Babri ad Ayodhya. Al suo posto dovrebbe sorgere un tempio indù (Ram mandir).Bajrang dal. Organizzazione armata di fondamentalisti indù che prende il nome del dio Hanuman. Alleata del Bharatiya janata party, ha partecipato alla distruzione di Babri masjid.Bharatiya janata party (Bjp). Partito del popolo indiano, nazionalista di destra. Il suo braccio ideologico è il Rashtriya swayamsevak sangh, associazione culturale induista, antimusulmana, sostenitrice dell’hindutva.Dalit (gli intoccabili). Indica quelli che una volta erano definiti intoccabili.Hindutva. Ideologia che punta al rafforzamento della “identità indù” e alla creazione di uno stato induista. Tra i suoi principali promotori c’è il Vishwa hindu parishad, Consiglio mondiale indù, a cui aderiscono leader della comunità indù e parte del Sangh parivar.Sangh parivar. L’insieme delle maggiori organizzazioni induiste di destra.
Articolo pubblicato su Internazionale 794, 8 maggio 2009

Caccia al killer del suv

http://www.repubblica.it/2009/07/sezioni/esteri/srial-killer-carolina/srial-killer-carolina/srial-killer-carolina.html


WASHINGTON - E' il "serial killer del suv". Uccide a sangue freddo nel South Carolina, a Gaffney, cittadina di 50 mila abitanti, terrorizzata da un un uomo sulla quarantina, alto con i capelli brizzolati, che si muove su un suv grigio argento. Avvicina le sue vittime, già cinque in una settimana, e spara. Ha ucciso una donna di 83 anni, sua figlia di 50, un agricoltore di 63, un uomo di 48 e sua figlia di 15, l'ultima vittima in ordine di tempo. Cento agenti cercano l'assassino. un serial killer c'era già stato in passato. La cittadina della contea Cherokee ricorda ancora la serie di omicidi di Lee Roy Martin negli anni 1967-1968. Soprannominato lo "strangolatore di Gaffney', l'uomo venne condannato all'ergastolo per l'omicidio di 4 donne e fu accoltellato a morte dal compagno di cella nel maggio 1972.

sabato 4 luglio 2009

Giornalisti in Honduras minacciati di morte

http://www.gennarocarotenuto.it/author/gc/

Segnalo alcuni casi urgenti di giornalisti honduregni minacciati di morte. Si tratta di:

Eldras Amado Lopez (nella foto), direttore del canale 36, chiuso dalla dittatura e minacciato di morte. Aveva già sofferto un attentato nell’agosto 2008. Attualmente è in clandestinità.

Luis Galdanas, direttore del programma “Tras la Verdad”, di radio Globo. Minacciato di morte ha resistito alla chiusura della radio, si è chiuso nel suo studio, i militari hanno distrutto la porta ma lui è riuscito a scappare dalla finestra e da allora, domenica 28, è in clandestinità.



Golpe in Honduras

http://www.giannimina-latinoamerica.it/visualizzaNotizia.php?idnotizia=251

HONDURAS: VERSO UN MURO CONTRO MURO SENZA SOLUZIONE?

Gennaro Carotenuto
(03 luglio 2009)

Resistenza popolare contro manifestazioni di appoggio al golpe, con grandi mobilitazioni dall’una e dall’altra parte. È oramai stato d’assedio in Honduras con la sospensione del “diritto all’inviolabilità del domicilio, al diritto di associazione, libertà di spostamento e di espressione” come ha comunicato senza vergogna il deputato Rolando Dubón Buezo, portavoce della giunta golpista. La diplomazia è compatta nell’isolare il dittatore Roberto Micheletti (il paisà tifoso dell’Atalanta che riscuote una scandalosa fortuna nei media di regime italiani) ma allo stesso tempo, anche per la posizione di retroguardia assunta dagli Stati Uniti, non siamo alla vigilia di una sconfitta politica del golpe.
Micheletti nelle ultime ore confonde le acque promettendo di anticipare le elezioni mentre domani il presidente deposto Mel Zelaya vorrebbe rientrare in patria sotto braccio a José Miguel Insulza (segretario dell’OSA) e Cristina Fernández de Kirchner (presidente argentina). Sarà arrestato come dichiarato da Gorilletti Micheletti, ucciso come temono molti, riprenderà il suo posto nella Casa Presidenziale, come spera la Resistenza o resterà impantanato in trattative che tradiranno i movimenti indigeni, sociali e popolari che l’appoggiano rinunciando all’Assemblea Costituente?
In ogni caso sta diventando difficilissimo orientarsi nell’evoluzione del golpe in Honduras e capire cosa può succedere nella giornata campale di domani. Da una parte si rafforza la Resistenza e atti di ribellione al governo di fatto si moltiplicano in ogni angolo del paese. A Tegucigalpa, nel pomeriggio del 2 luglio un’immensa marcia pacifica ha invaso la città senza incontrare né esercito né polizia. Contemporaneamente a San Pedro Sula, la capitale industriale ed economica, la repressione è stata fortissima, con almeno 60 arresti e molti feriti. Una manifestazione nazionale più grande è convocata per oggi nella capitale in un paese paralizzato dallo sciopero generale e sarà aperta dalle comunità indigene garifuna, quelle che hanno pagato forse il prezzo più alto con il Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti che una nuova Costituzione avrebbe potuto rivedere.
E vero anche che i golpisti ogni giorno schierano in piazza le loro truppe cammellate dando oggettiva dimostrazione di forza: sono fedeli delle chiese terrorizzati dal comunismo e soprattutto dal “chavismo” (persone miti e devote che dunque preferiscono la sicurezza delle camere di tortura all'incognita del voto popolare), classe media benestante, studenti delle università per ricchi che organizzano nelle piazze penosi reading della costituzione del 1982 scritta dal dittatore Policarpo Paz, millantata come fosse la "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo".
Mentre si alza forte l’allarme delle associazioni per i diritti umani per lo stato d’assedio proclamato, nel paese sono segnalati tra l’altro reclutamenti illegali di adolescenti nelle forze armate, si profila una strategia golpista per annacquare la compattezza del fronte diplomatico internazionale. Il dittatore Roberto Micheletti, che continua a sostenere che Zelaya sarebbe arrestato al momento di rimettere piede su suolo honduregno, ha infatti aperto all’anticipo delle elezioni presidenziali previste per fine novembre. Ben poco, per non dire nulla.
Insulza intanto anticiperà Zelaya già oggi a Tegucigalpa: “Non vado a negoziare ma solo a restaurare la democrazia e lo stato di diritto ha dichiarato”. Sullo sfondo però c’è almeno l’amnistia per la giunta golpista e probabilmente il ricatto che di una nuova Costituzione in Honduras non si parli più almeno per un bel pezzo.

venerdì 3 luglio 2009

Perché il biologico può sfamare il mondo

Perché il biologico può sfamare il mondo

1RESE PIÙ ELEVATE

Passare al biologico aumenta le rese agricole nel Sud
del mondo ed è in grado di soddisfare il fabbisogno alimentare,
purché si riduca drasticamente il consumo di
carne e si promuovano piccole produzioni orticole domestiche.

2MENO ENERGIA FOSSILE

Per produrre 1 caloria sotto forma di cibo, l’agricoltura
convenzionale consuma 10 calorie di petrolio. In agricoltura
biologica il consumo di energia è del 25% in
meno, senza contare i risparmi della vendita diretta.

3MENO GAS SERRA
Nel 2003 la produzione di nitrato d’ammonio, il fertilizzante
più usato in agricoltura convenzionale, ha causato
il 10%delle emissioni industriali di gas serra in Europa.
Con l’agricoltura biologica si aumenta la sostanza organica
del suolo, che imprigionando il carbonio nel terreno
impedisce il rilascio di CO2 nell’atmosfera.

4MENO ACQUA
Il mercato agricolo mondiale oggi è dominato da frumento,
mais e riso che insieme consumano il 72% dell’acqua
dolce del pianeta. Con l’agricoltura biologica si
risparmia acqua perché i concimi organici e la pacciamatura
stimolano i processi di mineralizzazione e aumentano
il contenuto di sostanza organica del suolo
che trattiene l’acqua.

5PIÙ CIBO LOCALE
Per arrivare dal campo al piatto, gli ingredienti di un pasto
medio percorrono mediamente circa 1600 km. Il biologico
tende a promuovere il cibo locale, premiando i
produttori e riducendo l’impatto ambientale dei trasporti.

6NIENTE PESTICIDI
Negli ultimi 45 anni, il numero dei pesticidi di sintesi in
commercio è passato da 22 ad oltre 450. In tutto il
mondo, le morti accidentali dovute a esposizione o avvelenamento
da pesticidi, sono stimate in 20.000 l’anno.
In agricoltura biologica non si utilizzano pesticidi di sintesi,
perché una pianta sana in un terreno sano è più resistente
ai danni causati dai parassiti.

7RIDOTTO IMPATTO AMBIENTALE
Occupando il 44%del nostro territorio nazionale, l’agricoltura
è l’attività che più influisce sull’ambiente. Lamonocultura
e le tecniche agricole intensive hanno portato,
a partire da 1962, ad una diminuzionemedia del 30%degli
uccelli di campagna, insieme anche ad altre specie
animali e vegetali. Al contrario, l’agricoltura biologica incoraggia
la biodiversità per mantenere la fertilità del
suolo e sostenere il controllo naturale dei parassiti.

8PIÙ VALORE NUTRIZIONALE
I prodotti biologici contengono livelli più elevati di elementi
nutritivi essenziali, compresi ferro, magnesio, fosforo
e vitamina C e contenuti inferiori di nitrati, che
possono essere tossici per l’organismo.

9SALVAGUARDIA DELLE VARIETÀ LOCALI
L’agricoltura intensiva si basa su un’elevata specializzazione
e sulla coltivazione di un numero ristretto di
specie vegetali, portando alla sparizione di migliaia di
antiche varietà. L’agricoltura biologica invece promuove
la biodiversità e valorizza specie e varietà locali.

10NUOVI POSTI DI LAVORO
Dal 2003 al 2005 in Italia sono scomparse 235.000
aziende agricole. Il declino della forza lavoro rurale è una
conseguenza dell’industrializzazione dell’agricoltura.
L’agricoltura biologica crea nuovi posti di lavoro e richiama
nuove forze nelle campagne.


…e gli ogm no

1RISULTATI FALLIMENTARI
Malgrado il grande martellamento pubblicitario,
le piante modificate geneticamente fino ad oggi
hanno dato scarsissimi risultati.

2COSTI ESORBITANTI

Le coltivazioni ogm costano ai governi e agli agricoltori
più di quello che rendono. Fino ad oggi le
coltivazioni ogm sono costate all’economia degli
Stati Uniti circa 8 miliardi di euro. In India la coltivazione
di cotone ogm costa il 10%in più e dà profitti
del 40% in meno.

3RISCHIO CONTAMINAZIONE
Per quanti sforzi si facciano, èmolto difficile evitare
l’inquinamento genetico.

4DIPENDENZA DAI PESTICIDI
Anziché ridurre la dipendenza da pesticidi e fertilizzanti,
le coltivazioni ogm spesso fanno aumentare
l’impiego di questi prodotti, che poi ci ritroviamo
nel piatto.

5CIBO INDESIDERATO
Malgrado i grandi sforzi dell’industria biotech per
curare la propria immagine, i consumatori rimangono
fortemente contrari ai cibi ogm.

6SUPER ERBACCE
Sono già emersi numerosi casi di specie resistenti
alle coltivazioni ogm, rendendo necessario l’uso
di erbicidi ancora più nocivi.

7SCIENZA O MARKETING?
Le soluzioni offerte dall’industria biotech, di fronte
ad un’analisi scientifica obiettiva, si rivelano delle
operazioni di marketing prive di fondamento.

8RISCHI PER LA SALUTE
Test su animali nutriti con ogmhanno dato risultati
preoccupanti, mentre uno studio realizzato nel
2002 su un gruppo di persone ha dimostrato che la
soia ogmpuò trasferire il suomateriale genetico ai
batteri del sistema digestivo.

9FAME E MALNUTRIZIONE
A differenza di quanto affermano i loro sostenitori,
gli ogmfanno registrare rese più basse e quindi non
rappresentano una soluzione valida contro lo spettro
della fame e della malnutrizione.

10DIPENDENZA DAL PETROLIO
Le colture ogm dipendono dai combustibili fossili
per la produzione di fertilizzanti e sono pensate in
funzione di un’agricoltura industriale intensiva su
vasta scala.

IL MENSILE PER L’ECOLOGIA DELLA MENTE E LA DECRESCITA FELICE • DAL 1977
www.aamterranuova.it
Allegato al numero di settembre 2008 di AamTerra Nuova

mercoledì 1 luglio 2009

Le bugie di Reporter senza frontiere su Cuba

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=9304


di Salim Lamrani - da comedonchisciotte.org

Un reportage con telecamera nascosta, ampiamente diffuso dai maggiori canali televisivi occidentali, mostra la direzione del Melia Cohiba all'Avana vietare l'accesso a internet ai cubani e riservarlo ai clienti dell'hotel. Reportage questo, su cui si fonda la campagna di denuncia promossa da Reporter Senza Frontiere (RSF) contro la censura politica castrista. Problema: questa piccola messa in scena è contraddetta da altri documenti citati dalla stessa pseudo-ONG.

Il 20 maggio 2009 RSF ha pubblicato una dichiarazione su Cuba nella quale si afferma: “chiunque può navigare su internet...a meno che non si tratti di un cubano”. Per sostenere la sua tesi RSF presenta un video, filmato tramite telecamera nascosta, di una scena durante la quale un cubano si vede vietato l'accesso a internet in un hotel [1]. L'organizzazione aggiunge che “colui che naviga su internet rischia fino a vent'anni di prigione per la pubblicazione di un articolo contro-rivoluzionario (articolo 91) e 5 anni per connessione illegale”. Inoltre RSF ricorda che: “Cuba resta la seconda prigione per giornalisti al mondo, dopo la Cina” sottolineando che “24 professionisti dei media” sono “imprigionati col falso pretesto di essere mercenari al soldo degli Stati Uniti” [2].

Risulta semplice mettere RSF davanti alle sue contraddizioni. In effetti, mentre l'organizzazione parigina afferma che nessun cubano può connettersi ad internet, ecco spuntare il link..."il testo della blogger Yoani Sanchez” che vive a Cuba e che si pronuncia apertamente contro il governo dell'Avana tramite internet. Come può la Sanchez esprimersi, se non ha l'accesso ad internet? Il suo ultimo intervento risale al 27 maggio 2009. Ha inoltre scritto il 25 maggio, il 23 maggio, il 22 maggio, il 19 maggio, il 18 maggio, il 16 maggio, il 15 maggio, il 13 maggio, il 10 maggio, il 9 maggio, il 7 maggio, il 6 maggio, il 4 maggio, il 2 maggio, il 29 aprile, il 28 aprile, il 27 aprile, il 26 aprile, il 25 aprile, il 23 aprile e il 21 aprile 2009. Così, durante il mese che ha preceduto la pubblicazione della dichiarazione di RSF riguardo internet a Cuba, Yoani Sanchez ha potuto connettersi a internet, da Cuba, almeno 18 volte [3].

RSF si contraddice scioccamente da una pubblicazione all'altra. Così in un rapporto del marzo 2008 riguardo al giornalismo indipendente a Cuba, l'ente parigino sottolinea che "il blog di Yoani Sánchez fa parte di un più ampio portale, Consenso/Desdecuba.com, animato da 5 blogger e con una redazione formata da 6 persone, il cui obiettivo è essenzilamente commentare l'attualità politica del paese. Il sito può vantarsi di aver raggiunto quota 1,5 milioni di visitatori nel febbraio scorso, a un anno dalla nascita, di cui 800.000 grazie al blog Generacion Y. Più impressionanate ancora, il 26% dei visitatori ha domicilio a Cuba, in terza posizione a seguito di Stati Uniti e Spagna"[4]. Una semplice domanda: come possono "il 26% dei lettori cubani" consultare il blog della Sánchez se è vietato loro l'accesso a internet?[5]

RSF ha utilizzato il caso isolato di un hotel, col supporto di una telecamera nascosta, per generalizzare il divieto d'accesso ad internet all'isola intera e stigmatizzare le autorità cubane. Il colmo della storia è l'intervento di Yoani Sánchez del 23 maggio: "abbiamo fatto un'inchiesta tramite una dozzina di blogger in più di 40 hotel della città e tutti, tranne l'Occidental Miramar, hanno affermato di non essere a conoscenza del regolamento che vieterebbe l'accesso a internet ai cubani". La blogger preferita dei media occidentali è la prima a contraddire le citazioni pretestuose di RSF.[6].

RSF afferma in seguito che chiunque pubblichi un articolo critico nei riguardi del governo cubano è passibile di vent'anni di reclusione e cita, con l'intento di supportare la sua tesi l'articolo 91, senza fornire abbastanza precisazioni. Cosa dice l'articolo 91 del Codice Penale cubano? Eccolo nella sua integrità: "colui che, nell'interesse di una nazione straniera, svolge attività il cui fine è di danneggiare l'indipendenza dello Stato cubano o la sua intergrità territoriale, sarà passibile dai 10 ai 20 anni di reclusione, o di pena di morte". La menzogna sfacciata da parte di RSF è facilmente constatabile. L'articolo in questione, infatti, non vieta affatto la pubblicazione di analisi di carattere eterodosso su internet e non limita in alcun modo la libertà d'espressione. Ciò che viene sanzionato, sono invece gli atti di tradimento alla patria [7].

Questa stessa logica porterebbe ad utilizzare l'articolo 411-2 del Codice Penale francese ("Il fatto di offrire a una potenza straniera, o a un'organizzazione estera o sotto controllo estero, o ai loro agenti o soldati appartenenti alle forze armate francesi, in tutto o in parte il territorio del paese, è punibile con la detenzione per la vita e 750000 euro d’ammenda") o la sezione 411-4 ("il fatto di tenere rapporti di intelligence con una potenza straniera, un'impresa o un'organizzazione straniera o sotto controllo straniero o con i loro agenti, al fine di suscitare ostilità o atti di aggressione contro la Francia, è punito con 30 anni di detenzione e 450.000 euro di ammenda. È punito allo stesso modo il fatto di fornire ad una potenza straniera, ad un'impresa o ad un'organizzazione straniera o sotto controllo straniero o ai loro agenti, i mezzi per intraprendere ostilità o compiere atti di aggressione contro la Francia") per accusare il governo di Nicolas Sarkozy di repressione contro coloro che navigano in internet.

D'altro canto, basta consultare il blog di Yoani Sánchez, estremamente critico nei confronti delle autorità cubane, o leggere gli scritti dell'opposizione per rendersi conto di quanto le accuse fatte dall'organizzazione parigina siano prive di fondamento.

RSF certifica ugualmente che ogni cubano è passibile di "una pena di 5 anni per connessione illegale ad internet". Qui l'ente francese si limita a sentenziare un'affermazione perentoria senza nemmeno prendersi la briga di citare un testo di legge che, evidentemente, non esiste. Ancora una volta, RSF asserisce l'ennesima anti-verità.

Infine, RSF ripete la stessa manfrina assicurando che "24 professionisti dei media" sono "detenuti con la falsa accusa di essere mercenari al soldo degli Stati Uniti". L'organizzazione non è in grado di mostrare coerenza e rigore nei propri documenti. Infatti, nella versione spagnola di questo articolo, parla di non più di "19 detenuti" [9]. Ma i numeri importano poco, la beffa è doppia ancora una volta. Da un lato, sui "24 professionisti dei media" citati dall’organizzazione, solo uno è in possesso di una formazione da giornalista, Oscar Elias Biscet. Gli altri non avevano mai esercitato il mestiere prima di prendere la parte del dissenso. D'altro canto, questi individui non sono stati condannati per la loro produzione intellettuale sovversiva, bensì per aver accettato compensi in denaro offerti da Washington, passando così da agenti all'opposizione a collaboratori pagati da una potenza straniera, commettendo automaticamente un reato grave punito non solo dalla legge cubana, ma dal codice penale di ogni paese del mondo. Vi sono molteplici prove a sostegno di quanto finora affermato: gli Stati Uniti riconoscono di finanziare l'opposizione interna cubana e i loro stessi documenti lo attestano, i dissidenti confessano di ricevere aiuti finanziari da parte di Washington e anche Amnesty International ammette che le persone incarcerate sono state condannate "per aver ricevuto fondi o materiale dal governo statunitense per delle attività percepite dalle autorità come sovversive o dannose per Cuba"[10].

RSF non è un'organizzazione degna di credito poiché la sua agenda è innanzitutto politica e ideologica. Come si è potuto constatare, è facile mettere l'organizzazione parigina di fronte alle sue contraddizioni e svelarne le manipolazioni. D'altronde, RSF non può godere di nessuna legittimità poiché riconosce di essere finanziata dal National Endowment for Democracy (NED) che altro non è che la facciata ufficiale della CIA , come ha osservato il New York Times nel marzo 1997 affermando che il NED "è stato creato 15 anni fa per continuare a eseguire pubblicamente ciò che la CIA ha fatto per decenni di nascosto"[12].

Salim Lamrani Docente presso l’Université Paris-Descartes e all'Université Paris-Est Marne-la-Vallée e giornalista francese, specialista nelle relazioni tra Cuba e Stati Uniti. Autore di "Cuba di fronte all'impero: Propaganda, guerra economica e terrorismo di Stato", ultimo libro pubblicato in francese: "Double Morale. Cuba, l’Union européenne et les droits de l’homme".

[1] « Restricción del acceso a Internet para cubanos en el hotel Melia Cohíba », YouTube

[2] Reporters sans frontières, « N’importe qui peut naviguer sur Internet… sauf s’il est cubain », 20 maggio 2009 (sito consultato il 20 maggio 2009).

[3] Yoani Sánchez, Generación Y (sito consultato il 24 maggio 2009).

[4] Claire Vœux, Cuba. Cinq ans après le « Printemps noir », les journalistes indépendants font de la résistance, Reporters sans frontières, marzo 2008. Document téléchargeable (site consulté le 20 mai 2009).

[5] Reporters sans frontières, « Cuba : rapport 2008 » (sito consultato il 20 maggio 2009).

[6] Yoani Sánchez, «‘Sentada’ blogger », Generación Y, 23 maggio 2009 (sito consultato il 27 maggio 2009).

[7] Ley n°62, Código Penal de Cuba, Libro II, Artículo 91, 29 dicembre 1987. Documento scaricabile (sito consultato il 24 maggio 2009).

[8] Codice Penale Francese, Parte Legislativa, Libro IV, Titolo 1, Capitolo 1, Sezioni 1 e 2.

[9] Reporters sans frontières, « Cualquiera puede navegar por Internet...salvo los cubanos », 20 maggio 2009 (sito consultato il 26 aprile 2009).

[10] Amnesty International, « Cuba. Cinq années de trop, le nouveau gouvernement doit libérer les dissidents emprisonnés », 18 marzo 2008 (sito consultato il 23 aprile 2008).

[11] « La NED, nébuleuse de l’ingérence "démocratique" », di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 22 gennaio 2004.

[12] Salim Lamrani, Cuba. Ce que les médias ne vous diront jamais (Paris : Editions Estrella, 2009), di prossima pubblicazione.

Titolo originale: "Les mensonges de Reporters sans frontières sur Cuba"

Fonte: http://www.voltairenet.org

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RAMONA RUGGERI