lunedì 21 settembre 2009

Caso B - ancora i giornali esteri

Commenti e messaggi a Repubblica dai principali mezzi di informazione europea

I giornali esistono per fare domande
E allora le pubblichiamo anche noi


JOFFRIN: "PUBBLICHIAMO LE 10 DOMANDE"

E' un inammissibile attacco alla libertà di espressione e di critica. Non mi stupisce che venga da un personaggio come Berlusconi, ma è un segnale inquietante per tutta l'Europa. Tra l'altro, non escludo che si possa fare ricorso alla Corte europea per contrastare questa palese minaccia al diritto dell'informazione. I metodi del primo ministro italiano mostrano un disprezzo assoluto delle regole democratiche. Rispondere alle domande dei giornalisti è infatti il minimo che gli elettori possono pretendere da ogni governante. Berlusconi invece è infastidito da ogni manifestazione di opposizione. Fa finta di dire che sono attacchi alla sua vita privata e cerca di nascondere alle troppe menzogne che ha detto in questi mesi. I suoi metodi mi ricordano quelli di Putin: manca soltanto che faccia uccidere i giornalisti più scomodi. In Francia non sarebbe pensabile una denuncia come quella che ha fatto Berlusconi a Repubblica. Sarebbe uno scandalo. Esiste una tacita regola repubblicana che impedisce al Presidente di portare in giustizia giornalisti e oppositori. Libération ha deciso che pubblicherà le 10 domande di Repubblica a Silvio Berlusconi.
Laurent Joffrin (direttore di Liberation)

GREILSAMER: "SEMBRA UNA BRUTTA FAVOLA"

Se il Presidente Berlusconi è il garante delle libertà pubbliche in Italia, come può fare causa contro Repubblica? Se il Presidente deve assicurare alla stampa le condizioni per il pluralismo, come ammettere poi che gli chieda un riscatto pari a 1 milione di euro? Se il Presidente è il padre della nazione, come comprendere che si rivolti contro uno dei suoi figli ombrosi e indipendenti? Un Presidente contro un Giornale: sembra una brutta favola. Si chiama scandalo.

Laurent Greilsamer (vicedirettore Le Monde)

THREARD: "BERLUSCONI FACCIA MARCIA INDIETRO"
Pochi presidenti francesi hanno brandito la minaccia legale contro un giornale. Nei rari casi in cui è successo, sono stati costretti a rinunciare. Il caso di Berlusconi mi ricorda la storia di Valery Giscard d'Estaing e del Canard Enchainé. Quando il settimanale pubblicò l'inchiesta sullo scandalo dei diamanti del ditattore Bocassa, il presidente promise di denunciarli. Poi, però, fece marcia indietro. Aveva capito che sarebbe diventato ancor più impopolare e che gran parte del paese lo avrebbe accusato di voler imbavagliare la stampa. E' auspicabile che Berlusconi faccia altrettanto. Un primo ministro deve essere al di sopra della mischia.
Yves Threard
(vicedirettore Le Figaro)

RUSBRIDGER: "ESISTIAMO PER FARE DOMANDE"

Gli organi di informazione indipendenti esistono per chiedere domande scomode ai politici. In Gran Bretagna, come nella maggior parte delle democrazie, sarebbe impensabile per un primo ministro fare causa a un giornale perché fa delle domande. Sarebbe anche impensabile usare le leggi sulla diffamazione per impedire ai cittadini di sapere quello che autorevoli giornali stranieri stanno dicendo sul loro paese. Le azioni contro la Repubblica somigliano molto a un tentativo di ridurre al silenzio o intimidire gli organi di informazione che rimangono direttamente o indirettamente indipendenti dal primo ministro italiano. Spero che i giornali di tutto il mondo seguano con grande attenzione questa storia.
Alan Rusbridger (direttore del quotidiano The Guardian di Londra)

CAMPBELL: "INIMMAGINABILE"
Chiunque abbia esperienza del modo in cui funzionano i media in Gran Bretagna, troverà piuttosto straordinario il fatto che un primo ministro faccia causa a un giornale per una serie di domande, e per avere riportato quello che scrivono giornali stranieri.
Il tutto è ancora più straordinario perché il primo ministro in questione è a sua volta un potentissimo editore. Un fatto, anche questo, che sarebbe inimmaginabile nella cultura politica del nostro paese.
Alastair Campbell (ex portavoce di Tony Blair)

DI LORENZO: "E' IN GIOCO LA DEMOCRAZIA"
Per il direttore di Die Zeit, "la questione non riguarda certo solo Repubblica, è in gioco il ruolo dei media in una democrazia. E non credo che Repubblica si lascerà intimidire, per cui non capisco il passo di Berlusconi nemmeno da un punto di vista tattico.
Giovanni Di Lorenzo (direttore di Die Zeit)

VIDAL: "UN AVVERTIMENTO A TUTTI I GIORNALISTI"
Questa denuncia è un avvertimento a tutti i giornalisti italiani, un modo di zittire la stampa. Il messaggio è chiaro: vietato criticare, vietato fare domande. E' molto preoccupante vedere che il premier italiano vuole colpire così platealmente una delle poche voci di informazione libera e indipendente. La cifra richiesta, poi, è disproporzionata. Nel merito il premier italiano sbaglia, perché il compito di un organo di stampa è anche quello di fare domande. La Repubblica ha posto domande non soltanto sono legittime ma sono anche doverose, visto che Berlusconi ha spudoratamente mentito al suo paese. Questo attacco legale dimostra che in Italia c'è un'anomalia, ovvero un premier proprietario di un impero mediatico che ha anche la tendenza a voler mettere sotto silenzio l'opposizione. Reporters Sans Frontières è pronta a denunciare in ogni sede internazionale questo grave attacco alla libertà di stampa in Italia.
Esa Vidal (responsabile Europa Reporters sans Frontieres)

WERGIN: "IN ITALIA POCA PLURALITA"
Secondo Clemens Wergin, editorialista di politica estera ed esperto di affari italiani della Welt, a proposito della querela di Berlusconi legata alle dieci domande poste da Repubblica, "il fatto è strano, visto che la pluralità del panorama mediatico in Italia mi sembra già abbastanza ristretto. La situazione appare a tinte forti in generale, uno scandalo in cui sembra essere coinvolto il capo del governo italiano, feste forse con prostitute seminude, sembra molto strana, vista dalla Berlino protestante, dove governa una Cancelliera tutt'altro che a forti tinte. Berlusconi ha commesso un grave errore, sembra che non capisca il ruolo di una stampa libera. Il semplice fatto che Repubblica abbia posto domande è parte del giusto ruolo dei media. Uno stile inquietante."
Clemens Wergin (editorialista del Die Welt)

GIESBERT: "LA DEMOCRAZIA E' MALATA"
Il conflitto tra il potere politico e la stampa è sempre latente ma quando esplode in questo modo significa che la democrazia è malata. Finora in Francia c'è stata una regola d'oro secondo la quale i Presidenti non si rivolgono a un giudice per difendersi dagli attacchi dei giornali. Per i francesi la funzione presidenziale è sacra. Il capo dello Stato sa che se si abbassasse a questi metodi contro la stampa perderebbe inevitabilmente prestigio. Il fatto che Berlusconi abbia attaccato legalmente Repubblica è un'ammissione di debolezza. Il vostro capo del governo si comporta come un qualsiasi cittadino, dimenticando il suo ruolo istituzionale. Ma per il vostro giornale è paradossalmente anche un attestato di libertà e di indipendenza.
Franz-Olivier Giesbert (direttore di Le Point)

THUREAU-DAUGIN: UN PRECEDENTE PERICOLOSO PER L'EUROPA

Courrier International aveva già pubblicato le prime 10 domande a Berlusconi. Dopo questo attacco legale degli avvocati del premier, abbiamo deciso che mostreremo ai nostri lettori anche le 10 nuove domande. Ci sembra un atto doveroso nei confronti di Repubblica, che ha condotto una campagna insistente e coraggiosa. Sarebbe molto preoccupante se i magistrati italiani stabilissero il carattere diffamatorio di questi dieci, semplici interrogativi. Potrebbe essere un precedente pericoloso per tutta l'Europa.
Philippe Thureau-Daugin (direttore di Courrier International)

sabato 19 settembre 2009

In Honduras il cambio di Obama stenta ad arrivare

http://temi.repubblica.it/limes/in-honduras-il-cambio-di-obama-stenta-ad-arrivare/6290?h=0

Dopo l’iniziale condanna, la posizione degli Usa sul golpe nel Paese centroamericano sembra essersi ammorbidita. Fra i Repubblicani cresce la mentalità da “guerra fredda regionale”. Le insidie per la Casa Bianca. Perché è stato deposto Zelaya.


Un golpe in America Latina non è certo una novità, anche se quella stagione si credeva chiusa; ciononostante il colpo di Stato honduregno è particolare per almeno due motivi: il ruolo dei militari, - i cui vertici sono stati addestrati alla tristemente famosa Scuola delle Americhe - che non hanno preso in mano il potere esecutivo, e il profilo politico del deposto presidente. Zelaya, figlio di un facoltoso agricoltore accusato dell'omicidio di militanti di sinistra, era stato eletto nel 2005 come candidato del Partito Liberale; dopo un anno al governo si era avvicinato a Chávez, accettandone il petrolio sovvenzionato ed entrando nell'Alba.

Populista e rivoluzionario a parole, nei fatti incapace di ridurre la violenza e la corruzione, il capo di Stato aveva promosso riforme minori ma gradite alle classi medio-basse, come l'aumento del salario minimo, in un Paese in cui più del 50% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Questi provvedimenti hanno spaventato l'oligarchia honduregna, che ha visto nella consultazione popolare l'inizio di un processo di cambio politico ed economico a lei sfavorevole.

Il governo del Paese è stato affidato al presidente della Camera Roberto Micheletti, trovatosi da subito isolato a livello internazionale: nessuno Stato ha riconosciuto la sua giunta, e il golpe è stato condannato, oltre che dagli Usa, da Onu, Oas (che ha sospeso la membership dell'Honduras) e Unione Europea, che insieme a Fmi, Banca Mondiale e banche regionali ha congelato prestiti e donazioni. Il presidente del Costa Rica Arías ha elaborato un piano di mediazione che garantirebbe il ritorno di Zelaya alla presidenza fino al termine del mandato in cambio dell'amnistia per i crimini politici commessi da giugno in poi, la formazione di un governo di unità nazionale e le elezioni anticipate. La Corte Suprema e Micheletti hanno però respinto il cosiddetto Accordo di San Josè.

Più di due mesi dopo, la situazione è in fase di stallo: il governo Micheletti è privo di riconoscimento internazionale ma ancora in piedi, mentre Zelaya è attualmente in esilio in Nicaragua e le violazioni dei diritti umani si moltiplicano.

Al termine di un incontro col presidente
deposto, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha annunciato il taglio di circa 30 milioni di fondi per l'Honduras (rimane in vigore solo l'assistenza umanitaria) e la revoca del visto per alcuni protagonisti del golpe. Foggy Bottom ha inoltre aggiunto che al momento non potrebbe riconoscere il risultato delle elezioni previste per novembre.

Il colpo di Stato non è però ancora ufficialmente considerato “militare” da Washington.

La questione non è puramente lessicale: il Foreign Assistance Act proibisce agli Stati Uniti di destinare aiuti “al governo di qualsiasi paese il cui capo di governo eletto sia stato rovesciato da un colpo di stato o da un decreto militare”. Nel caso di Tegucigalpa, sono in ballo fra l'altro 139 milioni di dollari della U.S. Millennium Change Corporation, che avendone già stanziati 76 ne ha bloccati 11 e ha annunciato che continuerà soltanto le attività previste da contratti già stipulati - il cui ammontare non è stato specificato.

In occasione dei golpe in
Mauritania e Madagascar Washington aveva interrotto rapidamente il flusso di aiuti; sospendere il commercio bilaterale strozzerebbe l'economia dell'Honduras, che destina agli Usa il 70% del suo export, mettendone in crisi la giunta illegittimamente al governo. Ma a più di due mesi dalla deposizione di Zelaya decisioni di questo tipo non sembrano prossime.

A ostacolarle ci sono interessi economici e politici: alcuni sono riconducibili a vecchie conoscenze repubblicane come Otto Reich, già al governo con Regan e i Bush, consulente di McCain per l'America Latina durante la campagna del 2008 e lobbista per il colosso delle telecomunicazioni AT&T – che certo non ama un oppositore delle privatizzazioni come Zelaya. Altri sono rappresentati da Lanny Davis, avvocato del presidente Clinton ai tempi dell'impeachment, che ora fa lobbying per il ramo honduregno Business Council of Latin America, l'equivalente della Camera di commercio.

Anche organi gestiti o finanziati dal governo o dal Congresso come Usaid (che ha congelato l'impiego di 2 milioni di dollari), l'International Republican Institute e il National Endowment for Democracy (Ned) – già protagonisti di interferenze negli affari interni di alcuni paesi latinoamericani - operano in Honduras. Una mozione di conservatori cubano-americani ha tentato senza successo di spostare 15 milioni di dollari dall'Organizzazione degli Stati americani (accusata di essere a disposizione di Chávez) al Ned. È spuntato fuori anche un reduce del tentato golpe venezuelano del 2002, Robert Carmona, oggi teoricamente dedito alla lotta alla corruzione tramite la fondazione Arcadia.

Oltre alle pressioni del mondo imprenditoriale, decisamente non a suo agio con Zelaya, i Repubblicani sono sensibili anche a considerazioni di politica interna ed internazionale: la notizia del taglio totale degli aiuti all'Honduras avrebbe una ricaduta positiva sull'immagine di Obama, proprio in un momento in cui, per via del difficile iter della riforma sanitaria, la sua popolarità è per la prima volta in calo. Naturale che il Gop non voglia fare al Presidente un tale regalo durante una battaglia così importante come quella per la sanità.

Nel partito di Lincoln pare inoltre rafforzarsi una mentalità da “guerra fredda regionale”: al tradizionale anti-castrismo dei rappresentanti degli Stati del sud si è affiancato negli ultimi anni l'anti-chavismo, alimentato dalla massiccia emigrazione di oppositori del presidente venezuelano, soprattutto in Florida. A giudicare dall'andamento della crisi honduregna, il leader bolivariano viene considerato molto seriamente, visto che molti Repubblicani preferiscono addirittura un governo frutto di un golpe ad un presidente democraticamente eletto ma alleato di Chávez. Nel ventennale della caduta del Muro di Berlino sembrano dunque tornati i tempi di Nixon o Reagan. A fare le veci dell'orso sovietico, un Paese dei Caraibi che dipende proprio dagli Usa per raffinare il petrolio, sua unica arma geopolitica.

L'impasse sulla crisi in Honduras ha per Obama due consequenze negative: innanzitutto sta bloccando al Congresso la nomina di Arturo Valenzuela a sottosegretario per gli affari emisferici e di Tom Shannon ad ambasciatore in Brasile. Inoltre sta dando adito alle critiche di chi accusa la Casa Bianca di disinteressarsi al rispetto della democrazia e dei diritti umani in America Latina; un bizzarro capovolgimento del destino, come ha notato anche il Presidente: “le stesse persone che si lamentavano delle interferenze Usa in America Latina oggi si lamentano perchè non interferiamo abbastanza”, ha dichiarato in agosto.

Per quanto potessero essere stretti i legami fra Tegucigalpa e Caracas, gli Stati Uniti non sono secondi a nessuno per influenza sull'Honduras, sia diretta (primo partner commerciale, presenza di una base militare con 600 soldati) sia indiretta (tramite Onu, Oas, e istituzioni di Bretton Woods). Il futuro della giunta Micheletti e del paese intero passa quindi per Washington. Il futuro politico di Obama non dipende certo dal paese centroamericano, ma una risposta ancora più netta al golpe di fine giugno dimostrerebbe all'America Latina e alla sinistra statunitense che alla Casa Bianca è davvero arrivato un change you can believe in.

Kabul - Il cordoglio non basta

http://www.megachipdue.info/component/content/article/42-in-evidenza/659-kabul-il-cordoglio-non-basta-unanalisi-storica-militare-e-politica.html

Fonte: http://www.clarissa.it/ultimora_nuovo_int.php?id=115.
di Gaetano Colonna - clarissa.it


Quanto accaduto a Kabul non richiede solo un'espressione di formale cordoglio per i soldati italiani che, ancora una volta, sono caduti compiendo il loro dovere. Se davvero si ha rispetto per le nostre Forze Armate e per i giovani che oggi muoiono prestandovi servizio, occorre spiegare in modo chiaro al Paese cosa sta accadendo in Afghanistan.

L'Afghanistan è un paese in guerra almeno dal 1979, quando gli Stati Uniti favorirono l'invasione del Paese da parte dell'Urss, secondo quanto ha dichiarato Zbigniew Brzezinsky, allora consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano Carter: "Noi non volevamo spingere i russi ad intervenire, ma consapevolmente accrescevamo le probabilità che lo facessero. (...) Il giorno in cui i russi ufficialmente attraversarono la frontiera, io scrissi al presidente Carter che noi avevamo ora l'opportunità di dare all'Urss il suo Vietnam. Infatti, per almeno dieci anni, Mosca ha dovuto portare avanti un conflitto insostenibile, un conflitto che ha condotto alla demoralizzazione prima ed alla dissoluzione finale dell'impero sovietico poi"(1).
Le forze islamiste sunnite, armate e addestrate dall'Occidente e usate per dieci anni come freedom fighters anti-comunisti, divennero dal quel momento utilissime sia in funzione anti-iraniana sia per estendere il controllo occidentale alle deboli repubbliche della Inner Asia, emersa come un'area strategica di importanza mondiale dopo il crollo dell'Urss, anche a causa delle sue enormi riserve energetiche. Ma, mentre servivano in tal modo gli interessi occidentali anche dopo il ritiro sovietico del febbraio del 1989, le fazioni che avevano condotto la resistenza anti-sovietica proseguirono in una guerra civile che non ebbe del tutto fine nemmeno dopo l'ascesa al potere del regime talebano, nel 1996, con la conquista di Kabul. Una guerra civile che ha portato ad oltre un milione e mezzo di vittime e a cinque milioni di profughi, riducendo di un terzo la popolazione del Paese.
La terza fase di disintegrazione dell'Afghanistan è iniziata il 7 ottobre 2001, con il lancio dell'operazione Enduring Freedom, conseguente alla risposta americana all'attacco dell'11 settembre: con gli accordi di Bonn del 5 dicembre e la risoluzione Onu n. 1386, il Consiglio di Sicurezza autorizzava la costituzione di una forza internazionale di sicurezza guidata dal Regno Unito, cui partecipano altri 18 Paesi, fra cui l'Italia. Ebbe così inizio la missione Isaf, prolungatasi fino ai nostri giorni con una serie di successive risoluzioni Onu (quella attualmente in corso è infatti la XI Isaf) che hanno progressivamente esteso, anche sul piano territoriale, i compiti delle truppe alleate, poi passate dal 2003 sotto il comando della Nato, mentre in parallelo rimane attiva l'operazione Enduring Freedom. Le due missioni sono oggi coordinate da un comandante americano che detta la strategia complessiva, sulla quale occorre dire qualcosa.
L'intensificazione della resistenza anti-occidentale in Afghanistan a partire dal 2005 e la "guerra delle moschee" esplosa in Iraq con l'attentato a Samarra il 22 febbraio 2006 hanno infatti imposto un cambiamento di rotta che ha portato all'elaborazione di una dottrina di impiego, denominata Anaconda Strategy, la cui paternità è attribuita al generale Petraeus, comandante in capo delle forze alleate in Iraq. Petraeus ha riportato in auge le antiche dottrine sulla contro-insurrezione che integrano strategie militari, politiche ed economico-sociali per sradicare la resistenza, cercando di spostare i compiti di presidio del territorio sulle forze armate e di polizia locali; sulla creazione di sistemi di controllo per aree provinciali, sperimentato inizialmente proprio in Afghanistan; sulla formazione di contractors stipendiati, come nel caso degli oltre novantamila iracheni del programma Sons of Iraq, addestrati ed armati direttamente dal governo americano ed utilizzati in operazioni di contro-guerriglia.
Ma i fenomeni insurrezionali presenti nel teatro mediorientale non sono assimilabili a quelli dei conflitti anti-coloniali degli anni Cinquanta e Sessanta o alla cosiddetta "guerra rivoluzionaria" d'Algeria e della lunga stagione delle guerre in Indocina, culminate con la sconfitta americana in Vietnam del 1975. In Medio Oriente, infatti, non si è davanti ad una strategia politico-militare collegata ad un'ideologia unitaria, a un movimento centralizzato, rigidamente organizzato e compartimentato: vi sono invece molteplici centri di opposizione, spesso in conflitto fra loro sul piano etnico e religioso, che hanno come motivazione prioritaria la resistenza all'occupante. Per questo, oltre la obiettiva difficoltà di sradicare un avversario così indefinito, alla prova dei fatti la sola componente della strategia di Petraeus che ha dato frutti, presentata come un'ondata risolutiva (Iraq troop Surge), è stata quella che a Baghdad ha fatto sì che, a colpi di orribili stragi, le popolazioni di diversa appartenenza religiosa si riposizionassero nei quartieri della capitale, creando di fatto aree settariamente contrapposte, costituendo un precario equilibrio sul territorio, tanto precario da essere già rimesso in discussione con le nuove stragi di questa estate 2009.
Qualcosa di simile si sta tentando di ottenere anche in Afghanistan, come dimostrano gli avvicendamenti al vertice del comando integrato, gen. David McKiernan è stato sostituito, dopo appena undici mesi di comando, dal gen. Stanley A. McCrystal, fino ad oggi comandante del Joint Special Operations Command, l'unità di comando che dirige tutte le operazioni delle forze speciali alleate. La motivazione di questa scelta, secondo fonti americane, è che "abbiamo una nuova strategia e con una nuova strategia dovranno esserci alcuni cambiamenti di leadership per portarla avanti"(2). Ufficiali che provengono dalle forze speciali americane sembrano cioè più idonei alla propagazione della Anaconda Strategy anche in Afghanistan, dove tuttavia il problema è, se possibile, ancora più complesso di quello iracheno per il quadro etnico-tribale del Paese che ha da tempo provocato il diretto coinvolgimento nella guerriglia del Pakistan occidentale, dove è in corso di ulteriore estensione.
Il naufragio di questa superata strategia contro-insurrezionale è già da tempo dimostrato dalle decine di migliaia di vittime tra la popolazione irachena che hanno portato il bilancio di quel conflitto, all'agosto 2009, a una cifra fra i 90.000 ed i 100.000 iracheni caduti (altre stime parlano di 30.000 militari e quasi 700.000 civili caduti) e a 4331 soldati americani, 933 contractors e 318 soldati di altre nazionalità caduti; mentre per l'Afghanistan parliamo di 682 soldati americani, 75 contractors e 382 caduti di altre nazionalità, oltre a più di 11.000 soldati afgani e oltre 7.500 vittime civili, che a loro volta si vanno a sommare alla cifre spaventose di quasi trent'anni di una guerra ininterrotta.
Si aggiunga a questo disastro militare il fatto che, in Afghanistan come in Iraq, abbiamo assistito al fallimento anche della strategia politica, costruita a tavolino dai teorici nordamericani, del democracy building con la quale si è tentato e si tenta di giustificare un attacco, come quello all'Iraq, ingiustificato da tutti i punti di vista, compreso quello del diritto internazionale. Le elezioni in Afghanistan di agosto sono state un'altra dimostrazione dei fallimenti di questa costruzione in vitro della democrazia: mentre i media italiani continuavano a celebrarle come una vittoria politica, sappiamo che la partecipazione al voto è stata inferiore al 50%, che la vittoria di Kharzai è contestata dal suo oppositore e, negli ultimi giorni, che si è reso necessario il riesame dei suffragi per l'estensione dei brogli elettorali - con buona pace di quanti si sono stracciate le vesti a proposito della vittoria di Ahmadinejad in Iran, incontestabile in termini numerici.
Infatti, a differenza di quanto avvenuto nel secondo dopoguerra, quando fu possibile imporre la democrazia a Germania, Giappone e Italia, trattandosi di Paesi unificati e culturalmente omogenei, ad un livello di sviluppo socio-economico paragonabile a quello delle grandi democrazie atlantiche - in un Medio Oriente devastato da decenni di conflitti insanabili la democrazia occidentale suona, nel migliore dei casi, come un'opportunità per i ristretti gruppi di potere legati agli Alleati di imporre i propri interessi per lo più di clan o economici: negli altri casi è una vuota parola, priva di qualsiasi possibile applicazione in contesti sociali completamente disintegrati, lacerati da conflitti religiosi ed etnici, spesso spregiudicatamente alimentati da forze esterne. Si aggiunga a questo che gli Stati Uniti hanno diretto la politica di occupazione, sia in Iraq che in Afghanistan, con una visione, tipica del pensiero wilsonista che predomina nelle amministrazioni nordamericane da un secolo, che non ha tenuto in alcun conto la complessa storia di questi Paesi.
Ora gli Stati Uniti sono impegnati in uno sforzo bellico internazionale le cui dimensioni ed il cui peso sul Paese sono notevolissimi: più di 350.000 uomini, pari a oltre il 25% delle forze armate Usa, sono attualmente all'estero; di questi, 190.400 erano impegnate in Iraq e nelle aree limitrofe alla fine dell'anno fiscale 2008; altri 32.300 erano dislocati in Afghanistan, ma sappiamo già che nel corso del 2009 almeno altre 17.000 unità sono state aggiunte a questo contingente e nell'agosto del 2009 si sta parlando di impiegare altre 40.000 unità, provvedimenti che porteranno a quasi 100.000 uomini la presenza militare americana in quel Paese. A causa della complessiva situazione del reclutamento Usa, che rappresenta un fattore critico di cui si parla pochissimo in Occidente, la maggior parte di queste unità saranno sottratte all'area irachena e del Golfo Persico, grazie agli accordi per il disimpegno. Il costo complessivo di questa presenza, secondo valutazioni attendibili, è stato nel 2008 di 102,5 miliardi di dollari, pari al 42% del bilancio per la sicurezza globale degli Usa che assommava a 630 miliardi di dollari per l'anno fiscale 2008.
Il ruolo della Nato e quindi delle forze italiane inserite nella missione Isaf è quindi chiaramente di contribuire a colmare i vuoti che queste missioni stanno provocando nell'apparato militare americano: questo è il dato di fatto che occorre comprendere e valutare in sede politica. Non stiamo quindi combattendo in Afghanistan per il fantasma di una democrazia che questi Paesi non intendono avere da noi: stiamo combattendo per sostenere gli interessi strategici nordamericani nell'area mediorientale e centro-asiatica. Ora, la coincidenza di questi interessi con quelli europei e, nel loro ambito, italiani è la questione che dovrebbe essere posta al centro del dibattito, se finalmente un serio dibattito si aprisse nel nostro Paese su questa missione delle nostre Forze Armate.
A nostro avviso, né l'Europa né l'Italia hanno alcun interesse a proseguire l'occupazione dell'Afghanistan, soprattutto ora che, come molti sembrano dimenticare, questo conflitto si sta estendendo anche alle regioni occidentali del Pakistan, destabilizzandolo ulteriormente e introducendo così un ulteriore fattore di rischio nell'area del Medio Oriente allargato, tenuto conto del fatto che stiamo parlando di un Paese dotato di armamenti nucleare e con un contenzioso territoriale ed etnico-religioso aperto da sessant'anni con l'India.
Né vale continuare a richiamarsi, come fanno i nostri ministri, al pericolo costituito dal "terrorismo internazionale" perché è ben chiaro che questa strategia di occupazione militare sembra fatta apposta per alimentare il terrorismo in tutte le sue forme, oltretutto fornendo ad esso un'eccezionale motivazione, quella appunto della resistenza contro gli occupanti occidentali.
La complessiva pochezza della nostra classe politica fa sì che essa stia cercando in ogni modo di evitare che si affronti la questione nei suoi termini reali, giacché questo richiederebbe ben altro profilo nei confronti dell'alleato americano. Noi riteniamo invece che affrontare la questione nei suo veri termini sia la sola maniera seria di onorare i nostri caduti.


(1) Jauvert V., Les révélations d'un ancien conseiller de Carter, «Oui, la CIA est entrée en Afghanistan avant les Russes...», in "Le Nouvel Observateur" , n. 1732, 15-21 gennaio 1998.
(2) International Herald Tribune, 15 maggio 2009.

venerdì 18 settembre 2009

Caso B - Sarkozy è l’uomo politico che Berlusconi vorrebbe essere

http://www.cafebabel.com/ita/article/29624/jeff-israely-intervista-berlusconi-sarkozy-libro.html

Jeff Israely: «Sarkozy è l’uomo politico che Berlusconi vorrebbe essere»

Intervista con il giornalista 41enne americano, corrispondente per l’Europa meridionale del Time, che oggi vive a Parigi. Ha appena pubblicato Stai a vedere che ho un figlio italiano. Un riassunto della mentalità italiana? «Giocare al pareggio». Parliamo di Saviano, di Sarkozy e, ovviamente, di Berlusconi.

Se sei un italiano all’estero devi portare il fardello delle battute sul Paese: mafia, pasta, mamma, simulazioni nel calcio, Chiesa, bella vita... Tutti immortali e tutti più o meno veri. Negli ultimi quindici anni questo concentrato di luoghi comuni è incarnato in Berlusconi, cosa che scatena tutta una serie di burle che vanno dal compatimento, al giudizio, fino alla messa in discussione della stessa democrazia del sistema italiano. L’immigrato si difende dallo stereotipo ma, al tempo stesso, il suo assestamento all’estero avviene sull’identità nazionale. In altri termini: mai sentita tanto italiana da quando in Italia non vivo più. Banale quanto reale.

Per caso capito sul libro – Stai a vedere che ho un figlio italiano (Mondadori 2009)– di un personaggio del quale leggevo gli articoli ripresi da Internazionale: Jeff Israely è un giornalista americano, corrispondente prima dell’Associated Press e del Boston Globe, poi per il Time dall’Italia, dove ha vissuto per dieci anni, sposato un’italiana e fatto due figli. Una conversazione dove confronta l’Italia e gli Usa, gli Usa e l’Europa.

«Non si vive di solo pane, e neanche di deliziose bruschette»

Nel descrivere la moglie usa il termine “grazia europea”. E che sarà mai? «(Mondadori, Strade Blu)(Mondadori, Strade Blu)Intelligenza, il talento semplicemente nel vivere e saper stare con la gente. L’insieme di culture dalle quali siete formati risalta nella quotidianità. Diciamo che se la prospettiva americana è l’ambizione, voi avete una “grazia” nello stare nel presente». Lusinghiero: che è un po’ l’effetto del libro. Ti fa sentire orgoglioso e deluso (ma non imbarazzato) della tua appartenenza nazionale. Se si tratta, invece, di descrivere gli italiani, parla di “soft power”: «È il modo in cui riescono a farsi amare con le cose più belle: la simpatia, il cibo, l’umorismo, la cultura. Il rovescio della medaglia è che quest’abilità di “fare simpatia” spesso loro basta». Vista da New York e da un Paese dove l’immobilismo è sconosciuto, questa inettitudine al rischio, che diventa un continuo «giocare per il pareggio», ha come risultato la persuasione che «non si deve rischiare, che le cose debbano stare come sono». Detto in altri termini: «Non si vive di solo pane, e neanche di deliziose bruschette».

Caso Sud, caso Saviano, caso Italia

Da un anno, grazie ad una promozione della moglie e a un’occasione al Time, Israely e la famiglia si sono trasferiti a Parigi, anche perché se i figli fossero «un po’ meno italiani» non sarebbe poi un male. Ho l’occasione di incontrarlo in un bistrot Marais, nel quale ho la pessima idea di scegliere il tavolo vicino alla porta: il più freddo e rumoroso. Torniamo all’immobilismo . È visibile nei grandi scandali della società italiana: storie che i media passano per mesi, dibattiti infiniti, urla... e poi tutto resta com’è. Questo vale per il terrorismo degli anni Settanta, per la politica e in ultimo, il “caso Saviano”. «Eh... effettivamente Saviano ha scritto un bellissimo libro e fa bene a fare quello che fa – andare in giro per far capire il mondo della criminalità organizzata e il Sud – ma c’è il rischio che il sud e le mafie vengano ridotti a Saviano». Nonostante la letteratura sulle “Mafie” abbia tradizione antica, «pare che questo in Italia sia l’unico modo di parlare delle cose: tutto è un caso. Il “caso Saviano” andrà avanti. Ma il vero problema è il “caso Sud”, non quello Saviano».

Berlusconi e la democrazia

Per un corrispondente in Italia Berlusconi, più Mafia e Papa – a cui Israely ha dedicato un libro, Benedetto XVI. L'alba di un nuovo papato, con Gianni Giansanti (WhiteStar 2007) – sono il pane quotidiano: «Noi giornalisti stranieri abbiamo cercato di capire se Berlusconi significa qualcosa per il resto dell’Occidente: un personaggio mediatico, hollywoodiano, che si può paragonare a Ronald Reagan o a Schwarzenegger. Mentre Schwarzenegger ora fa il governatore più o meno serio, e Reagan è considerato uno dei grandi uomini politici del Ventesimo secolo, al punto che pochi ricordano che fosse un attore, Berlusconi è al quindicesimo anno in politica e sembra più che mai un comico. Allo stesso tempo, il sistema politico e il Paese sono nelle sue mani. La cultura e la mentalità italiane sono state cambiate da Berlusconi. Io sono americano: non criticherei Berlusconi per aver portato la “cultura del privato” nel mondo televisivo. Il problema è che poi si è buttato in politica, continuando a fare anche il resto».

Molti, in Italia e all’estero, mettono in dubbio, per questo, i fondamenti democratici dello Stato italiano. Israely argomenta sorridendo, e mi viene in mente che assomiglia Peter Sellers: «L’Italia resta una democrazia, ma da studiare. È un po’ bloccata, soprattutto da un sistema di informazione lungi dall’essere “perfettamente democratico”. Sicuramente dipende da Berlusconi, ma prima di lui la Rai era lottizzata dalla politica. C’è una parte dell’elettorato disinteressata dalla politica e lui riesce a comunicare in modo semplice, con battute a volte “tremende”. Il fenomeno Berlusconi non è solo il conflitto d’interessi: capisce qualcosa della comunicazione, nel senso più generale della parola».

E visto che siamo in Francia, e i paragoni tra Sarkozy e Berlusconi (così come le discussioni su chi sia peggio) si sprecano, mi ci avventuro: «Dopo dieci anni in Italia, la Francia ti dà un’idea di cosa potrebbe essere l’Italia con una spinta in più verso il futuro, verso il mondo. Un paragone Berlusconi-Sarkozy? Si potrebbe dire che Sarkozy è la versione riuscita dell’uomo politico che Berlusconi vorrebbe essere. Sarkozy non sta forse cercando di rifare la Francia a sua immagine e di far entrare il “sarkozysmo” nella mentalità della gente? Ma ha ancora molto da fare per raggiungere il Cavaliere!». Comunque c’è ancora molto da capire su Berlusconi: «Volevo scrivere un libro su di lui ma è troppo presto forse. Per capire cosa è successo devo aspettare che la sua avventura, almeno politica, sia finita. Ma forse, non è successo niente...».

Ci sono un paio di personaggi sui quali non posso esimermi dal chiedere un'opinione:

Giuliano Ferrara: «Ferrara è un bene che ci sia, e la stessa cosa vale per Sgarbi. Tra l’altro per capire l’Italia basterebbe studiare la biografia di Ferrara. Il buono di queste persone è che riportano il dibattito sulle questioni reali come, ad esempio, l’aborto. In Italia non c’è un dibattito reale sull’aborto. Neanche i vescovi dicono “dobbiamo cancellare la 194” ma parlano di procreazione assistita. Se il centro sinistra fosse un centro sinistra serio Ferrara sarebbe un bene perché tirerebbe fuori i problemi veri».

Gianfranco Fini: «Tutti gli italiani si chiedono “che pensa veramente Fini? È ancora fascista?” Il punto non è tanto quello che pensa, ma quello che dice pubblicamente e l’operazione di “pulizia” che ha fatto. Si tratta di un’operazione di “cambiamento” della propria linea storica. Credo che non si possa chiedere ad un personaggio pubblico di fare di più. Bisogna considerare che la gente lo ascolta. Quando dice che “Mussolini non è stato il più grande statista del Ventesimo secolo” si deve capire che la sua gente lo guarda e che questo ha un impatto. Le affermazioni pubbliche sono quelle veramente importanti, e lui sono sette anni che lo sta facendo. Ma il problema di Fini è lo stesso della politica italiana: gioca per il pareggio. Stuzzica Berlusconi, ma poi ci crea un partito unico. Berlusconi è ingombrate sia per la destra che per la sinistra. E Fini non ha ancora capito come gestire Berlusconi. Sembra però sia bravo a gestire i suoi».

Caso B - dove l’impossibile diventa realtà

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Fine giugno 2009. In Italia impazza da un paio di mesi – ormai stancamente, a dire il vero – il Papigate, ovvero lo scandalo personale e sessuale, ma in fin dei conti mai veramente politico, di un premier che, a detta della sua quasi ex moglie, Veronica Lario, «frequenta le minorenni». Inchiesta sul tracollo di un Paese.

Anche quando la barca sembrerebbe affondare – perché in realtà non affonda mai, sondaggi alla mano – Berlusconi non perde il vizio di trattare le donne, siano escort o ministre, come delle prede: «Non ho mai pagato una donna. Non ho mai capito che soddisfazione ci sia se non c'è il piacere della conquista», dichiara ai giornali per smentire la escort Patrizia D'Addario che ha, da poco, rivelato di aver passato una notte con lui proprio mentre Barack Obama veniva eletto Presidente degli Stati Uniti. Qualche giorno fa, in pieno torpore agostano, Berlusconi rilancia: «I giornali continuano a dire che odio le donne. Se c'è qualcosa che adoro sono le donne, anche ministre». Non ne dubitavamo. Ma gli exploit di Berlusconi – ormai noiosissimi déjà vu, ammettiamolo, buoni solo per una conversazione sotto l'ombrellone – forse aiutano a capire qualcosa di un Paese sempre più impazzito e stanco, dove l'impossibile è da tempo diventato realtà.
Viviamo in una “videocracy”

Il Papigate è un fenomeno che va ben al di là del folklore berlusconiano, è una rivoluzione antropologica e culturale, come hanno raccontato nei loro documentari Erik Gandini, autore di Videocracy, e il tandem Lorella Zanardo Marco Malfi Chindemi, regista de Il corpo delle donne. I corpi femminili, sui media italiani, sono dappertutto e spesso gli stessi: giovani, ammiccanti, rilucenti, esibiti, curati fino all'ossessione, adulati ma anche ridicolizzati, e chi non ci ride su, secondo l’opinione dominante, è per forza invidioso o frustrato. Per il quotidiano di centrodestra Libero, la ex moglie di Berlusconi è una «velina ingrata» perché ha accusato pubblicamente il marito, e le giovani precarie che affollano le redazioni dei giornali durante l’estate lo spunto per distrazioni pseudoletterarie. Dai media alla politica, poi, la distanza è breve. C’era una volta l’Italia di Nilde Iotti e Tina Merlin, quella di oggi è piena di categorie socioprofessionali sconosciute in altri paesi: veline, meteorine, letterine e letteronze, ovvero showgirl di varia specie, ormai assunte a vere e proprie icone pop e spesso prestate alla politica, anche con grande successo di popolarità, dopo un sapiente restyling.

Dai calendari sexy alla politica

Il caso più celebre è il Ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna, passata in un paio d'anni da un calendario senza veli di Max all'elogio di «Dio, patria e famiglia» e di «Roma culla della cristianità». Ugualmente anticonformista, almeno per i corridoi di Bruxelles, il cursus honorum della neoeuroparlamentare Barbara Matera, classe 1981, ex attrice di fiction televisive, annunciatrice RAI e prefinalista al concorso di Miss Italia. Scarno il curriculum pubblicato sul suo sito istituzionale, tristemente deserte le pagine sulla sua attività politica. Una cosa è certa, però, a 28 anni suonati Matera si sta per laureare: «Nel 2009, ultimati gli esami universitari, accetta la candidatura al Parlamento Europeo nelle liste del Popolo della Libertà per il Collegio Sud. Discuterà una tesi di laurea sulla Riforma della Scuola Media in Italia». Degna di nota anche Francesca Pascale, ex collaboratrice del programma Telecafone in onda su una TV locale – ormai di culto la sua performance nel video «Se abbassi la mutanda si alza l'auditel» –, ideatrice del comitato in rosa «Silvio ci manchi» – Silvio Berlusconi, ovviamente, ai tempi in cui era all’opposizione – e oggi consigliere provinciale a Napoli per il PDL nonché collaboratrice dell'ufficio stampa del Ministero per i Beni culturali.
«Non essere docili, ripartiamo da qui»

Insomma, sembra che ci sia davvero di che ribellarsi. In tutto questo bailamme dove sono finite le donne? E le femministe? Se lo sono chiesti in molti, a partire dalle dirette interessate. Dopo il j’accuse lanciato dalle pagine dell'Unità dalla politologa Nadia Urbinati («Bisogna ripartire da capo. Dalle cose essenziali. Lanciare un appello, per esempio. Alcune donne si preparano a farlo: lanciare appelli non è un modo vecchio di agire. È nuovo, oggi. Non essere docili, ripartiamo da qui») e gli interventi di scrittrici, attrici e docenti universitarie, ultimo dei quali quello di Chiara Volpato sul New York Times (26 agosto), il dibattito sembra almeno riaperto. È sempre lo stesso, però: autoreferenziale, fatto di appelli e controappelli, appunto, qualche conferenza e poco altro.

I gruppi femministi sono numerosi e molto attivi, in Italia, ma faticano a fare rete e, se ci riescono, non intercettano molti consensi tra le nuove generazioni. Mancano non solo luoghi di aggregazione – con qualche eccezione, come la Casa internazionale delle donne di Roma –, ma soprattutto un nuovo modo di fare politica, più strutturato e meno di testimonianza, e quindi attento alla mobilitazione e al reclutamento di nuove attiviste con strumenti vecchi e nuovi, inclusi i social networks. Parafrasando Kissinger, viene da chiedersi: «Dove devo chiamare se voglio parlare con il movimento delle donne?»

Caso B - una triste commedia all’italiana

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Scandali sessuali, infami battute sulle donne, una noncuranza imbarazzante: il premier italiano non smette di far parlare di sé. Scambio di opinioni tra un ragazzo e una ragazza su questa triste commedia che è diventata l’Italia.

Alessandro, 29 anni, romano d'adozione, dopo anni di studi in scienze della comunicazione, film, dischi, viaggi e concerti macinati, deve ancora trovare la propria strada nella vita. Per ora lavora come giornalista free lance.

«Se si dovesse tenere, in Europa, un concorso per scegliere il politico più sessista, vincerebbe senza dubbio Silvio Berlusconi». Parola del Guardian, quotidiano inglese che da mesi prosegue nelle inchieste sulle «attività morali» del premier italiano. Tanto che anche il Times ha consigliato al Presidente del Consiglio «una clinica per dipendenze sessuali». Pudicizia o meno, ciò che interessa gli italiani – ma soprattutto le italiane – è ben altro.
Innanzitutto quanto ci sia di lecito o illecito nell’inchiesta sul presunto giro di squillo messo in piedi dall’imprenditore Gianpaolo Tarantini. Sulla vita privata dovrebbe esserci meno da indagare. Ciò che irrita è l’atteggiamento di Berlusconi: arrogante, volgare, gallo tra galline, macho abbronzato in cerca di prede su una spiaggia assolata. Non proprio quel che s’immagina di una figura istituzionale. La vita privata dovrebbe rimanere tale, ovvio. Meno il comportamento verso un intero universo, quello femminile.
Purtroppo pare che questo status sia quello vincente. Perché Berlusconi rappresenta, da oltre dieci anni, il modello decadente della società italiana: arrivista, furbetto, ruffiano, “muscoloso”, tanto elegante quanto cafone. Perfetta descrizione di un qualsiasi italiano lobotomizzato da programmi televisivi e mode effimere. È così per il rapporto con le donne: s’invocano la parità, le quote rosa, ma restano pur sempre considerate come “oggetti”. Per mero piacere personale.
Chi ha votato e tuttora sostiene il partito del leader, pensa che i suoi comportamenti sessisti non siano in fondo malvagi. Chi non ha mai tradito la moglie? Che male c’è se poi si torna all’ovile? Anzi, più si batte il chiodo e si tiene alto il nome del maschio italico, più si è “cool”. Tanti vorrebbero essere come lui. E lo sono. Perché si truccano da persone perbene invocando come modelli la famiglia, la patria, la sicurezza. Vantano le proprie conquiste, per giudicare “puttana” l’equivalente femminile di un atteggiamento identico.
Il dramma antropologico dell’Italia anno di grazia 2009 è davvero tremendo.


Giulia, 30 anni, ha studiato Storia dell’Arte a Venezia. «Espatriata a Berlino, posso vedere il mio Paese meglio da lontano perché qui in Germania non c'è una censura così forte, o perlomeno si è fuori dal caos anestetizzante dell'anticultura predominante in Italia».
Quello di Berlusconi è da sempre un atteggiamento apertamente sessista. Ma è comunque lecito interessarsi alla sua vita privata? Direi di sì, visto che il casting per entrare in politica non prevede meritocrazie, ma sembra avvenire in altre sedi e canali, fra cui Villa Certosa, la televisione, e forse le lenzuola di un celebre lettone. Se il capo del Governo si fa inoltre portavoce di antichi valori, quali la famiglia e la fede, la questione diventa di natura morale e, di conseguenza, assume rilevanza pubblica. Pena, la decadenza oramai in atto di un’intera nazione.
Predicare bene e razzolare male è un’antica tradizione che in Italia sembra non generare disappunto. Ma, all’estero, la nostra immagine si fa sempre più pietosa. Dal Daily Telegraph sono giunte a tutti gli italiani accuse di sesso-dipendenza. Ecco che il fenomeno Berlusconi trascina l’intera nazione nello stereotipo del Casanova, instancabile satiro alla ricerca di ninfe da disvelare. Come difenderci se anche il tipo di donna che predomina nella nostra televisione è quella, raccapricciante e impudica, presentata nel documentario Il corpo delle donne di Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi? Dopo anni di lotte, ed un diritto al voto conquistato ahimè appena una sessantina d’anni fa, veniamo rappresentate da un raggelante «ciarpame senza pudore» secondo Veronica Lario, che arriva persino a dettar legge, e non in senso metaforico. L’assuefazione al sessismo è un fenomeno pericoloso e non riguarda solo Berlusconi. Ci rendiamo davvero conto di, in che misura, ogni volta che una donna diviene oggetto di “battute” più o meno gravi, questo non venga percepito come un atto di razzismo sessista? E le continue affermazioni imbarazzanti e lesive del premier? Non si tratta d’innocue bagatelle, ma di un esempio comportamentale offerto ad intere generazioni. Ricordate la sua affermazione in merito agli stupri? «Servirebbero tanti soldati quante sono le belle donne italiane». L’elenco delle sue gaffe sarebbe lungo, ma la pazienza per giustificarle è terminata.

Italia 2009: anno della decadenza o di una rivoluzione culturale? Ribelliamoci.

Caso B - Il corpo delle donne

http://www.cafebabel.com/ita/article/31370/il-corpo-delle-donne-tv-documentario-nudita.html

Il documentario Il corpo delle donne, in circolazione dalla primavera 2009, ha ottenuto, in pochi mesi, una straordinaria diffusione in rete, grazie alla sua critica intelligente e spietata della Tv italiana. Intervista ad una delle sue autrici, Lorella Zanardo.

Antologia di brani tratti dalla tv italiana, pubblica e privata, Il Corpo delle donne è dedicato all’immagine e al ruolo della donna: ne risulta un quadro raggelante. L’autrice di questo saggio visivo, Lorella Zanardo, imprenditrice ma ormai soprattutto consulente e docente sulle tematiche legate al femminismo, ci ha raccontato con passione il suo impegno: una campagna di sensibilizzazione al tema del rispetto della differenza di genere e dei diritti espressi nel terzo articolo della Costituzione italiana. Come far sì che tutto questo prezioso lavoro non si affievolisca, rivelandosi solo una moda passeggera? Continuando la militanza quotidiana, forte del consenso raccolto in rete, ma anche attraverso un progetto educativo, Nuovi occhi per la TV, rivolto a scuole ed educatori consultabile sul suo sito ufficiale.

La situazione Italiana è unica, oppure vi sono altri paesi europei in cui l’immagine e il ruolo delle donne è in pericolo?

Tutto parte dal concetto di differenza di genere, di pari opportunità. In altri paesi del Nord Europa, come l’Inghilterra, da tempo, questo è stato assimilato come diritto costituzionale, quindi non se ne discute. In un Paese come la Francia si è creato un’associazionismo femminile molto forte che ha contrastato eventuali “cadute” nel rispetto della dignità femminile, così come anche in Spagna dove, peraltro, vi sono forti problemi di violenza sulle donne. L’Italia e la Grecia sono state invece definite dal Censis (Centro Studi Investimenti Sociali) Paesi in cui il tema delle pari opportunità è «in resistenza». Cioè, si tratta di una problematica degna di essere trattata a livelli istituzionali, poiché ritenuta di scarso valore e non minacciosa per le istituzioni politiche esistenti. E lo vediamo anche da come viene affrontata in politica.
Nel corso della tua carriera d’imprenditrice hai incontrato donne come quelle presentate nel documentario, che hanno assunto atteggiamenti maschili, lontani dalle naturali caratteristiche femminili?

Lorella ZanardoLorella Zanardo | (foto © "Il Corpo delle Donne" gruppo Facebook Questo è quello che ho visto di più! Io mi sono salvata perché ho sempre avuto un orgoglio innato, derivatomi probabilmente da mia madre, ma ho lavorato in un ambiente in cui ho visto, con dolore, moltissime donne abdicare alle qualità dell’indole femminile per poter far carriera. Le perdono, perché allora lavorare ed essere sole in un ambiente di maschi era difficile, ma adesso è diverso; è ora che noi donne ci prendiamo la responsabilità di affermare le nostre qualità, proprie all’esser donne, all’interno delle organizzazioni. Ne ha bisogno la società come ne hanno molto bisogno anche gli uomini.
La Presidentessa dell’India Pratibha Patil quando è stata nominata ha detto che le donne devono diventare responsabili dello sviluppo sostenibile della terra, e ha dato un messaggio enorme. Ecco, io mi muovo per quello. Voglio occuparmi dello sviluppo sostenibile del mondo, e dobbiamo tutte prendere coscienza che siamo chiamate a questo. Mi sento però prima costretta a occuparmi delle miserie della televisione per fare pulizia.
Qual è la strategia migliore per portare avanti una militanza concreta ed efficace?

Io credo molto alle campagne di advocacy. Ovvero, sensibilizzare i cittadini con un blog, dei siti, dei documentari, e crearsi una piattaforma di consenso abbastanza solida, per esempio in rete, per poi trattare con le aziende televisive o con le grosse agenzie pubblicitarie. Funziona, ed in America è una pratica molto diffusa. Non sono minacce, anzi; sono trattative educate ma ferme, che rientrano nell’interesse di tutti. L’acqua Rocchetta, ad esempio, ha ritirato la pubblicità nella quale la modella Cristina Chiabotto gareggia contro una ragazza “normale” per sapere a chi stava meglio un abitino succinto, perché si è resa conto che stava diventando un danno per il prodotto stesso. E non è l’unico riscontro positivo della nostra campagna di sensibilizzazione.
Come combattere lo sconforto che deriva da immagini di escort ed aspiranti attrici che, pavoneggiandosi, percorrono passerelle un tempo storiche come quella del Festival del Cinema di Venezia? Non hai la sensazione di essere davanti a una catena degenerativa impossibile da frenare?

Lo sconforto ce l’abbiamo tutti e voi giovani, secondo me, avete tutto il diritto di essere molto arrabbiate. Io ero a Venezia e, lì, quando ho visto che le uniche scene di delirio sono state per Briatore in ciabatte e la Gregoraci in mutande ho pensato al Lido, a Silvana Mangano, a Luchino Visconti…. Insomma, non ha senso raccontarsi che la situazione sia facile. Cesare Lanza, autore di quasi tutte le trasmissioni riprese nel documentario, ospitato come me in una trasmissione del giornalista Gad Lerner, mi ha detto: «Lei ha un atteggiamento da missionaria, non si rende conto che l’Italia vuole vedere questi programmi?» Che l’Italia voglia questi programmi credo sia vero; ma che l’Italia voglia questi programmi perché sono venticinque anni che gli facciamo vedere solo questo credo sia ancora più vero. Io ritengo che la TV abbia un dovere educativo. Negli anni Sessanta, quando era ritenuta una delle tre televisioni migliori al mondo, nel programma Non è mai troppo tardi, il mitico maestro Manzi insegnò la lingua italiana a una nazione frammentata che nel dopoguerra parlava in dialetto. Non dimentichiamo che oggi l’80% della gente che guarda la TV, la usa come unico mezzo d’informazione. Penso che se avessimo almeno la rete pubblica che rispetta il suo ruolo educativo, le cose cambierebbero. Ma ci vuole tempo.

Nel mondo dell’economia ci hanno inculcato questa idea dei tempi brevi, dell’avere tutto e subito. In realtà non è affatto così: bisogna avere molta pazienza. Quando porto avanti la mia militanza quotidiana sono assolutamente certa che le cose cambieranno, ma so che non sarà a breve. Dobbiamo modificare il nostro atteggiamento: è nella fatica del percorso che dobbiamo trovare un senso. Ci potrebbe essere una soddisfazione davvero forte anche per voi, generazione di trentenni, nel sentirvi fautori del cambiamento di questo Paese.

Il mondo cerca affannosamente un'alternativa al petrolio

è un articolo del Sole24ore... ora lo allego.. poi ci rifletto...

Il mondo cerca affannosamente un'alternativa al petrolio. Dovrebbe fare tutto ciò che è plausibile per promuovere le energie alternative, ma anche questo non ha senso. Ci sono pressioni finanziarie, politiche e tecniche, oltre che vincoli temporali, che costringeranno a scelte difficili: le soluzioni dovranno andare nel senso di ottenere le maggiori riduzioni possibili di emissioni al minor costo e nel minor tempo possibile.

Le macchine a idrogeno, la fusione fredda e altre tecnologie ipotetiche potranno anche sembrare accattivanti, ma rischiano di distogliere risorse preziose da idee che sono già ora raggiungibili e che sono efficienti sul piano dei costi. È divertente l'ipotesi di poter alimentare la propria automobile con gli scarti delle liposuzioni, ma questo non significa che sia il caso di sovvenzionarla.

In questi anni, l'idea di combustibili rinnovabili è parsa meravigliosa: le lobby agricole hanno convinto i paesi europei e gli Stati Uniti a varare programmi davvero ambiziosi per promuovere le alternative agricole alla benzina. Fino a questo momento, le cure (per lo più etanolo derivato dal granturco negli Usa e biodiesel ottenuto dall'olio di palma, dalla soia e dalla colza in Europa) si sono rivelate peggiori delle malattie. Siamo ancora in tempo per scegliere una via realmente alternativa. Ma faremmo meglio a darci una mossa, cominciando ad abbattere i sette falsi miti sulle energie rinnovabili.

1) Bisogna azzerare la dipendenza dal petrolio
I combustibili fossili stanno producendo sfracelli sul clima e lo status quo è insostenibile. Attualmente il mondo scientifico concorda sulla necessità, per il bene del pianeta, di ridurre le emissioni di gas serra di oltre il 25% da oggi al 2020, e di oltre l'80% da ora al 2050. Anche se di mezzo non ci fossero le sorti del pianeta, mettere fine alla dipendenza dal petrolio e dal carbone servirebbe anche a ridurre l'influenza globale dei "petro-banditi" e la vulnerabilità alle impennate dei prezzi dell'energia. Le persone ragionevoli possono non essere d'accordo con l'idea che i governi devono scegliere fra soluzioni vincenti e soluzioni perdenti. Ma perché non accettare almeno il concetto che i governi non devono dare la priorità alle soluzioni perdenti? Purtroppo è quello che sta succedendo. Il mondo si sta affannando a promuovere combustibili alternativi che di fatto accelereranno il riscaldamento globale, per non parlare di una fonte energetica alternativa che rischia di vanificare gli sforzi per fermare il riscaldamento globale.

2) Gli effetti perversi causati dalla deforestazione
Nel 2007, i ricercatori hanno riconosciuto gli effetti perversi in termini di deforestazione provocati dai biocombustibili. Ci vorranno quattrocento anni di utilizzo dei biocombustibili per "ripagare" l'anidride carbonica emessa con la bonifica delle torbiere finalizzata alla coltivazione della palma da olio. I danni indiretti rischiano di essere altrettanto devastanti: in un pianeta affamato, se si usano per i biocombustibili le piantagioni destinate al consumo alimentare, bisognerà trovare un altro luogo per gli alimenti. Ad esempio, i profitti dell'etanolo stanno spingendo i coltivatori di soia statunitensi a passare al granturco, e i coltivatori brasiliani di soia, per coprire l'ammanco di soia, si stanno espandendo sui terreni da pascolo, e gli allevatori brasiliani, a loro volta, invadono la foresta amazzonica. La richiesta di biocombustibili fa crescere la domanda di cereali spingendo i prezzi e rendendo profittevole saccheggiare la natura.

La deforestazione pesa per il 20% sulle emissioni globali: a meno che il mondo non riesca a eliminare le emissioni provenienti da tutte le altre fonti, bisognerà salvaguardare le foreste. Ciò significa limitare l'impatto ecologico dell'agricoltura: è un compito impegnativo considerata la crescita della popolazione; è un compito impossibile se vasti terreni agricoli vengono convertiti alla produzione di piante utilizzate per produrre mediocri quantità di combustibile. Se gli Usa destinassero il loro intero raccolto di granturco all'etanolo, servirebbe a rimpiazzare solo un quinto della benzina consumata nel paese.

I cereali necessari per riempire il serbatoio di un Suv di etanolo basterebbero a nutrire una persona affamata per un anno: produrre biocombustibili scatena un costante rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari e tante rivolte per il cibo nei paesi poveri. Nonostante questo, gli Stati Uniti, in dieci anni, hanno quintuplicato la produzione di etanolo; prevedono di quintuplicarla ancora nel prossimo decennio. Così ci saranno più soldi per i sovvenzionatissimi agricoltori americani, ma anche più malnutrizione, più deforestazione e più emissioni.

3) Biocombustibili di seconda generazione
La normativa americana, pur offrendo un sostegno generoso all'etanolo da granturco, include nuovi ingenti fondi per i biocombustibili di seconda generazione, come l'etanolo cellulosico, derivato dal panico verga, erbaccia della prateria. Sarebbero meno distruttivi dell'etanolo da granturco (per produrlo servono trattori e fertilizzanti). Anche l'etanolo di prima generazione derivato dalla canna da zucchero - in Brasile fornisce metà del carburante per trasporti - è più ecologico dell'etanolo da granturco. Studi recenti indicano che qualunque biocombustibile che abbia bisogno di terreni agricoli per essere coltivato sarebbe comunque peggiore della benzina, quanto a effetti sul riscaldamento globale. Un disastro meno disastroso dell'etanolo da granturco resta comunque un disastro.

I biocombustibili derivati da alghe, spazzatura, scarti agricoli o da altre fonti potrebbero rivelarsi utili: per produrli non ci sarebbe bisogno di terreni, o al limite solo di terreni generici. Ogni volta pare che manchino parecchi anni per giungere a un loro sviluppo commerciale su larga scala. Alcuni scienziati, poi, sono fiduciosi riguardo alla possibilità di usare erbe perenni a crescita rapida, come il miscanthus, per convertire la luce del sole in energia. Per ora i terreni agricoli sembrano particolarmente indicati per produrre il cibo di cui abbiamo bisogno e per immagazzinare il carbonio che serve per salvarci; non sembrano indicati per generare carburante. Nuovi studi suggeriscono che se vogliamo convertire le biomasse in energia, la cosa migliore è trasformarle in elettricità. E allora che cosa dobbiamo usare in auto e camion? Nel breve termine ...benzina. Semplicemente, dobbiamo usarne meno.

Invece di regolamentare i biocombustibili e sovvenzionare l'etanolo, i governi devono fissare parametri di efficienza energetica per fare in modo che il miliardo di automobilisti emetta meno gas di scarico. I sussidi vanno destinati al trasporto pubblico, alle piste ciclabili, alle ferrovie, al telelavoro, al car sharing e ad iniziative che inducano gli automobilisti a rinunciare all'auto. I politici devono smetterla di sovvenzionare progetti che non portano a nulla, di promulgare misure che comportano parcheggi in eccesso e limitano la concentrazione abitativa. Nessuna di queste misure è allettante come l'invenzione di un nuovo carburante magico, ma questi sono atti realizzabili e riducono le emissioni. Sul medio termine, il mondo ha bisogno di macchine elettriche, unica risposta alla dipendenza petrolifera che non sia collocata in un futuro distante decenni. Già ora la produzione di energia elettrica causa più emissioni del petrolio, il che significa che bisogna dare una risposta anche alla dipendenza dal carbone.

4) Non basta progettare nuove centrali nucleari
L'energia atomica è a emissioni zero: tanti politici, e perfino qualche ambientalista, l'hanno sposata come alternativa a carbone e gas naturale. Negli Usa, che ricavano il 20% dell'energia elettrica dalle centrali nucleari, le società di servizi pubblici stanno pensando a nuovi reattori per la prima volta dopo il disastro di Three Mile Island, nonostante i timori per incidenti o attacchi terroristici e la mancanza di un sito di stoccaggio per le scorie radioattive. Russia, Cina e India si preparano a rilanciare l'atomo. L'energia nucleare non risolve la crisi. La prima ragione è la tempistica: l'Occidente ha bisogno di operare tagli importanti delle emissioni nei prossimi dieci anni. Il primo nuovo reattore negli Usa sarà pronto nel 2017. Nel resto del mondo, gran parte dei discorsi sul nucleare sono rimasti tali: non c'è alcun paese occidentale che abbia più di un impianto nucleare in costruzione, e, nei prossimi dieci anni, decine di sedi esistenti diventeranno obsolete: è impossibile che il nucleare possa intaccare anche minimamente le emissioni derivanti dalla produzione di energia elettrica prima del 2020.

Poi, ci sono i costi. In teoria, per le centrali nucleari servono molti denari per la costruzione, ma meno per la gestione. In realtà, si stanno rivelando molto costose da edificare. L'esperto Amory Lovins ha calcolato che le nuove centrali nucleari costeranno tre volte di più di una centrale eolica (e questo prima che i prezzi di costruzione esplodessero per varie ragioni: la stretta creditizia globale, l'atrofizzazione della forza lavoro nel settore e un restringimento dell'offerta causato dal monopolio mondiale di una società giapponese per la fucinatura dei reattori). Un nuovo impianto in Finlandia è già in forte ritardo e ha sforato il budget. Ecco perché, di recente, il Canada e diversi stati americani hanno accantonato i piani per la costruzione di nuove centrali; ecco perché Moody's ha appena avvertito le società di servizi pubblici che rischiano il declassamento se cercheranno di dotarsi di nuovi reattori; ecco perché le energie rinnovabili hanno attirato 71 miliardi di dollari di capitali privati in tutto il mondo nel 2007, mentre il nucleare ha attirato zero dollari.

I produttori di energia nucleare negli Usa stanno cercando di convincere i politici ad aggiungere alle facilitazioni già esistenti (garanzie sui prestiti, sgravi fiscali, sovvenzioni dirette e altre gentili concessioni che beneficiano il settore dalla culla alla tomba), altre elargizioni. Costruire i reattori non ha molto senso a meno che non sia qualcun altro a pagare.
Ecco perché la spinta più forte per il nucleare viene da paesi dove l'energia gode di finanziamenti pubblici. Si parla di sanzioni: se il mondo vuole colpire l'economia iraniana, forse bisognerebbe lasciare che i mullah si costruiscano le loro centrali nucleari. A differenza dei biocombustibili, il nucleare non aggrava il riscaldamento globale. Un'espansione nucleare, come il recente piano dei repubblicani americani, che vogliono cento nuove centrali da oggi al 2030, costerebbe migliaia di miliardi di dollari garantendo vantaggi modesti in un futuro lontano.

La lobby del nucleare ha un solo argomento forte dalla sua: se il carbone è troppo sporco e il nucleare è troppo costoso, come produrremo il succo che ci serve per tirare avanti? L'eolico va alla grande ed è in crescita: lo scorso anno quasi metà della nuova energia prodotta negli Usa è venuto dall'eolico; nel 2007 la sua capacità globale è cresciuta di un terzo. Nonostante abbia decuplicato la produzione di watt a livello mondiale in un decennio (ora il primo produttore è la Cina e anche l'Europa ha imboccato quella via), l'energia eolica rappresenta ancora meno del 2% dell'elettricità mondiale. Anche il solare e il geotermico sono tecnologie magnifiche e inesauribili, ma restano trascurabili a livello globale. Una famiglia americana mediamente possiede 26 apparecchi che funzionano con l'energia e il resto del mondo si sta mettendo in pari: il dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti prevede che il consumo di elettricità a livello mondiale per il 2030 sarà cresciuto del 77 per cento. Come soddisfare questa domanda senza rimettere seriamente mano al nucleare? Non possiamo.

5) I risparmi di tutti per salvare il salvabile
Alcune ricette per risolvere la crisi energetica sono migliori di altre: vanno esplorate a fondo e con impegno prima di sperimentare modelli decisamente inferiori. C'è solo una risorsa energetica rinnovabile più pulita, economica e abbondante delle altre, che non provoca deforestazione e non richiede procedure di sicurezza, che non dipende dal tempo e che non richiede anni per realizzarla o portarla sul mercato. È l'efficienza: significa sprecare meno energia, usare meno energia per avere la birra fredda come prima, la doccia calda come prima e la fabbrica produttiva come prima. Non è una vecchia brontolona che ti assilla per dirti di farti la doccia con l'acqua più fredda, di spegnere le luci, di abbassare il termostato, di guidare meno, di volare meno, di comprare meno roba, di mangiare meno carne, di rinunciare al McDonald's e di cambiare il tuo comportamento per risparmiare energia. Fare di meno con meno si chiama risparmio. Efficienza significa fare di più o fare lo stesso con meno. Non richiede grandi sforzi o sacrifici, ma elettrodomestici più efficienti, un'illuminazione più efficiente, fabbriche più efficienti ed edifici e veicoli più efficienti: fattori che potrebbero eliminare fra un quinto e un terzo dei consumi energetici mondiali senza sopportare nessuna privazione reale.

L'efficienza non è sexy. L'idea che possiamo usare meno energia senza troppa fatica non è molto in sintonia con l'odierna cultura del more is better. Il modo migliore per evitare che le centrali nucleari ci prendano in contropiede, diano più potere ai petro-dittatori o mettano in pericolo il pianeta è innanzitutto non costruirle. I "negawatt" risparmiati grazie a misure per il miglioramento dell'efficienza energetica generalmente costano fra uno e cinque centesimi di dollaro per kilowattora, contro costi previsti fra i 12 e i 30 centesimi per kilowattora per le nuove centrali nucleari. Gli americani, in particolare, e gli esseri umani, in generale, sprecano quantità incredibili di energia. Le centrali elettriche Usa scialacquano abbastanza energia da alimentare il Giappone; gli scaldabagni, i motori industriali e gli edifici americani sono ridicolmente inefficienti, come anche le automobili. Solo il 4% dell'energia usata per alimentare la lampadina a incandescenza produce luce: il resto viene sprecato. Secondo le previsioni, nei prossimi quindici anni la Cina costruirà più metri quadri di immobili di quanti ne hanno costruiti gli Stati Uniti in tutta la storia: là non esiste alcun parametro di edilizia verde o esperienza in materia.


Noi sappiamo già che fissare parametri di efficienza energetica può fare meraviglie: è già servito a ridurre i consumi energetici americani da livelli astronomici a medie semplicemente alte. Ad esempio, grazie ai regolamenti federali, i moderni frigoriferi americani usano tre volte meno energia dei modelli degli anni Settanta, pur essendo più grandi e tecnologicamente più raffinati.
I principali ostacoli all'efficienza sono gli incentivi perversi con cui molte società di servizi pubblici si trovano a fare i conti: fanno più soldi se vendono più energia, e quindi devono costruire nuove centrali. In California e nel Nord-Ovest Pacifico (gli stati Usa e le province canadesi della costa nordoccidentale) i profitti delle società di servizi pubblici sono stati scorporati dalle vendite di energia elettrica, permettendo alle aziende di aiutare i clienti a risparmiare energia senza arrecare danno agli azionisti. Così, in quell'area l'impiego energetico procapite rimane stabile da trent'anni, mentre nel resto degli Stati Uniti è cresciuto del 50 per cento. Se le società di servizi pubblici in tutto il mondo potessero fare soldi aiutando i loro clienti a usare meno energia, il dipartimento dell'Energia americano non pubblicherebbe cifre tanto inquietanti.

6) Serve una rivoluzione tecnologica
Sul lungo periodo è difficile pensare (in assenza di scoperte rivoluzionarie) che riusciremo a ridurre le emissioni dell'80% entro il 2050, considerando che la popolazione mondiale aumenta e i paesi in via di sviluppo crescono. Perciò un programma Apollo per le tecnologie pulite, modellato sul progetto Manhattan, è un'idea sensata. Bisogna imporre un prezzo alle emissioni per far capire agli operatori di mercato e agli innovatori che è necessario promuovere attività a basso livello di emissioni: il programma di scambi di quote di emissioni dell'Unione europea dopo una partenza titubante sembra funzionare bene. I capitali privati che già si riversano sul settore delle energie rinnovabili potrebbero riuscire un giorno a produrre un pannello solare a buon mercato, o un carburante sintetico, o una batteria superpotente, o una centrale a carbone realmente pulita. A un certo punto, dopo che avremo spremuto tutti i "negawatt" e i "negabarili" possibili, ci servirà qualcosa di nuovo.

Disponiamo già di tutta la tecnologia necessaria per cominciare a ridurre le emissioni tagliando i consumi. Anche solo mantenendo stabile la domanda di energia elettrica, possiamo sottrarre un megawatt di elettricità ricavata dal carbone ogni volta che aggiungiamo un megawatt di elettricità ricavata dal vento. Con una rete intelligente, con regole per l'edilizia verde e parametri di efficienza energetica rigorosi per qualsiasi cosa, dalle lampadine ai televisori al plasma alle batterie di server, possiamo fare di più che limitarci a mantenere la domanda stabile. Al Gore ha un piano ragionevolmente plausibile per un'energia a zero emissioni di qui al 2020: l'ex vicepresidente americano pensa a un decremento della domanda del 28% attraverso l'efficienza, sommato a incrementi altrettanto ambiziosi dell'offerta di energia eolica, solare e geotermica. Per raggiungere i nostri traguardi del 2020 non è necessario ridurre a zero l'impiego di combustibili fossili. Basta che ne usiamo meno. Se qualcuno avrà un'idea migliore da oggi al 2020, benissimo! Per il momento, concentriamoci sulle soluzioni che consentono di tagliare più emissioni possibile al minor costo possibile.

7) Iniziamo cambiando i nostri stili di vita
In questo periodo, è politicamente scorretto suggerire che diventare più verdi possa comportare correzioni anche minime al nostro stile di vita, ma affrontiamo la realtà. Jimmy Carter aveva ragione. Non moriremo mica se abbassiamo il riscaldamento e indossiamo un maglione. L'efficienza è una droga miracolosa, ma il risparmio è ancora meglio: una Prius consuma meno benzina, ma una Prius parcheggiata in garage mentre tu ti sposti in bici non ne consuma affatto. Anche le più efficienti fra le asciugatrici consumano più energia dello stendino dei panni.
Fare di più con meno è un ottimo inizio, ma per arrivare all'obbiettivo dell'80% di emissioni in meno il mondo industrializzato potrebbe, occasionalmente, dover fare di meno con meno. Forse dovremo disattivare qualche cornice digitale, sostituire in alcuni casi il viaggio d'affari con la teleconferenza, e andarci piano con i condizionatori. Se questa è una verità scomoda, è meno scomoda delle migliaia di miliardi di dollari che costano i nuovi reattori, della dipendenza perpetua da petro-stati ostili o di un pianeta in affanno.

Dopo tutto, i paesi in via di sviluppo hanno il diritto di crescere. I loro cittadini sono comprensibilmente smaniosi di mangiare più carne, guidare più automobili e vivere in case più belle. Non sembra equo che il mondo industrializzato dica: fate quello che diciamo, non quello che abbiamo fatto in passato. Ma se i paesi in via di sviluppo seguiranno, per giungere alla prosperità, la strada dello spreco già percorsa dai paesi industrializzati, la terra che tutti condividiamo non reggerà. Perciò dobbiamo cambiare modo di comportarci. A quel punto potremo almeno dire: fate quello che facciamo, non quello che abbiamo fatto in passato.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

giovedì 17 settembre 2009

Scudo, la svolta annunciata - Obama abbandona il progetto Bush

http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/esteri/obama-presidenza-11/obama-scudo-spaziale/obama-scudo-spaziale.html

Il Wall Street Journal conferma: l'amministrazione Usa rinuncia
a costruire un sistema antimissile in Polonia e Repubblica Ceca

WASHINGTON - L'amministrazione di Barack Obama intende accantonare il progetto, messo a punto sotto la precedente Presidenza Usa di George W. Bush, per un ampliamento all'Europa dell'Est del sistema nazionale di difesa anti-missilistica, il cosiddetto 'scudo', attraverso l'installazione di batterie di intercettori in Polonia e di una stazione radar di primo avvistamento nella Repubblica Ceca. Lo scrive oggi il quotidiano finanziario 'The Wall Street Journal', che fa riferimento a proprie anonime fonti governative, sia in carica sia passate.

"Gli Stati Uniti - spiegano le fonti anonime sul giornale - fondano la loro decisione sulla valutazione secondo cui il programma dell'Iran per dotarsi di missili a lunga gittata non ha compiuto progressi tanto rapidi quanto era stato stimato anteriormente, riducendo così la portata della minaccia per il territorio continentale statunitense e per le principali capitali europee". Si tratta, è sottolineato nell'articolo, di una mossa prevedibilmente destinata a "placare la Russia", ma anche a "inasprire il dibattito sulla sicurezza in Europa".

Mosca è sempre stata una fiera oppositrice del piano di estensione dello 'scudo anti-missile' promosso da Bush, ritenuto un'iniziativa volta proprio contro il Cremlino. "Le conclusioni, che si prevede saranno completate per l'inizio della prossima settimana al termine di un periodo di analisi di sessanta giorni ordinato dal presidente Obama, costituiranno", prosegue il 'Wall Street Journal', "un'essenziale inversione di tendenza rispetto all'amministrazione di Bush che, prima di lasciare l'incarico lo scorso gennaio, premette aggressivamente per intraprendere la costruzione del segmento est-europeo del sistema".

Ufficialmente, l'ampliamento dello 'scudo' all'Europa orientale avrebbe dovuto avere una funzione protettiva, e dissuasiva, nei confronti di eventuali atti di aggressione da parte di 'Stati-canaglia' quali la Corea del Nord o, per l'appunto, lo stesso Iran.
(17 settembre 2009)

Reddito base e disoccupazione

Repubblica di mercoledì 16 settembre 2009, pagina 33
Gallino Luciano

Sul fronte dell'occupazione la crisi ci consegna, uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d'accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare. Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un'aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant'anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell'agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazio ne internazionale che si è ormai affermata in luogo di reddito garantito , reddito di cittadinanza e altri.In sintesi l'idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito eillavorosalariato. Poichéilavoro tende a scomparire, male persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma idealeilreddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra comunità politica al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importasesiapoveroono, sepossa dimostrare quando sia disoccupato di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbé ovviamente un maggior onere fiscale, o l'impegno a svolgere un certo numero di ore di volontarlato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accertare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche unvantaggio per l'economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fail bagnino, o la biologa che lavora da commessa in'un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in formazione gettato al vento. MasÒprat tutto il reddito base viene visto come un mezzo efficace per combattere insienie sia la povertà, sia il pi insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l'insicurezza socio-economica. In realtà l'idea di reddito base ha più di due secoli.
E stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. E' comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento. In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori delredditobase. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal reddito sociale garantito sino all'ultimadi un reddito incondizionato d'esistenza . Ma è nell'ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, varicordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.
La massa di studi oggi disponibilihaallungato l'elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base vabene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che ditale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Miiton Friedman, Fredrich ayek, erbert Simon; altri invece pi vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso quando il suo ammontare sia congruo favorisce l'offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un'aggiunta, bensl sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità che costano comunque miliardi l'anno. Infine nessuno pensa di proporre l'introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un'ampia discussione in sede politica.In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi annia sinistra dello Spdcheha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2 settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l'idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.

lunedì 14 settembre 2009

Caso "B" - la stampa estera

http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/politica/berlusconi-divorzio-28/rassegna-13-sett-bis/rassegna-13-sett-bis.html

Duro commento del quotidiano francese, intitolato "Basta"Stampa inglese: "Il ferreo controllo di Berlusconi sul potere si sta indebolendo"Le Monde: "Agonia di una democrazia"Telegraph: "E' scontro con Fini"Il magazine del "Sunday Times" parla di "piccoli Hitler" a propositodelle ronde: "Gruppi di vigilantes di estrema destra pattugliano le strade italiane"
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI

LONDRA - "Sesso, scandali e divisioni nel partito". Il Sunday Telegraph di oggi titola così un servizio di una pagina sul caso Berlusconi, a cui la stampa britannica continua a dare grande rilievo. Dopo essersi scontrato con la Chiesa cattolica, la stampa internazionale e l'Unione Europea, afferma l'articolo, "Silvio Berlusconi ora rischia di farsi un nemico ancora più temibile, il suo più stretto alleato politico", ovvero Gianfranco Fini, numero due del Pdl e presidente della Camera. La frattura con Fini "ha aumentato la sensazione di crisi attorno al governo di centro-destra e intensificato le supposizioni secondo cui, dopo 15 anni in prima linea nella politica italiana, il ferreo controllo di Berlusconi sul potere si stia indebolendo", scrive il Telegraph.
Un'estate di "scandali di sesso" sembra lasciare il passo a "un autunno di antagonismo sia con gli avversari che con i propri amici". Il giornale elenca i segnali a partire dal fatto che il premier sta esagerando, lasciandosi andare a un tono "troppo pomposo perfino per uno come lui". Soltanto nell'ultima settimana si è paragonato a Superman, si è descritto come un torero che respinge gli attacchi dei tori infuriati della stampa italiana, ha detto che tutti gli italiani vogliono essere come lui e che lui è il migliore premier d'Italia in 150 anni. A proposito dei party con le giovani donne portate a casa del premier dall'uomo d'affari Giampolo Tarantini, il Telegraph nota che alcune erano "est europee o del Sud America", sollevando "imbarazzanti domande per Berlusconi sulla possibilità che i suoi appuntamenti amorosi possano esporlo a ricatti da potenze straniere". L'articolo si conclude ricordando che in ottobre la Corte Costituzionale potrebbe abolire la legge che ha dato a Berlusconi l'immunità da azioni giudiziarie e cita in proposito il parere del politologo Marc Lazar: "E' la sua paura ossessiva".
Ma la stampa internazionale sembra avere deciso di occuparsi di Berlusconi non solo dal punto di vista degli scandali a sfondo sessuale e dei problemi giudiziari, bensì anche e soprattutto sul piano dei suoi errori politici. Il magazine del Sunday Times dedica un'ampia inchiesta alla discussa questione dei vigilantes. Con questo titolo: "Piccoli Hitler. Incoraggianti da Silvio Berlusconi, gruppi di vigilantes di estrema destra stanno pattugliando le strade dell'Italia, risvegliando paure di un ritorno al fascismo". Con tanta attenzione concentrata sulle avventure sessuali del premier, afferma l'articolo, "questo brutto rigurgito di razzismo si è potuto diffondere quietamente e insidiosamente. E' una decisione che suscita allarme".
Una strada simile viene percorsa da El Pais, il quotidiano spagnolo oggetto di pesanti critiche da parte di Berlusconi. Da un lato, il Pais ritorna sulla affermazione del premier sul fatto che non avrebbe mai pagato una donna per non perdere il piacere della conquista, e si chiede in un ironico editoriale: "Davvero crede di poter conquistare tutte col suo tupè artificiale e la sua dentatura posticcia?" Ma poi, in un lungo articolo di inchiesta intitolato "L'Italia attraversa il deserto", El Pais analizza la gravità della crisi economica italiana e le promesse mancate di Berlusconi per riformare il sistema e risolvere i problemi. Lo stesso discorso si applica, in Francia, a un'inchiesta del Figaro, che parla di un nuovo fronte giudiziario apertosi per il premier italiano, questa volta non per questioni di tasse e bustarelle ma per un'accusa molto più grave, quella di "presunte connivenze con la mafia", e a tale titolo il quotidiano parigino ricorda le "oggettive collusioni" sottolineate dalla condanna in primo grado a nove anni di reclusione per Marcello Dell'Utri, "stretto collaboratore" di Berlusconi, appunto per "connivenze mafiose". Sempre in Francia, Le Monde pubblica un articolo sulla libertà di stampa nel nostro paese, intitolato "Berlusconi e i media, agonia di una democrazia", accompagnato da un editoriale sul Cavaliere intitolato semplicemente "basta!" E in America, il Chicago Tribune intervista il politologo Giovanni Sartori, che definisce ancora una volta Berlusconi "non un dittatore, ma un sultano", lo stesso titolo del suo ultimo libro dedicato allo strapotere del premier.
A Londra, anche l'Observer parla di Berlusconi, affermando che la decisione di dare a Mike Bongiorno dei funerali di stato poteva avvenire solo nell'Italia odierna: "Forse soltanto nella videocrazia di Berlusconi poteva accadere che un presentatore televisivo ricevesse esequie di stato", scrive il giornale. Il Sunday Times dedica una pagina pure all'intervento di Marina Berlusconi, figlia di prima nozze del premier e presidente della Fininvest, che ha dichiarato che gli attacchi a suo padre sono come "coltellate alla schiena": ma il più diffuso domenicale britannico ricorda che, "dopo un'estate in cui la Chiesa cattolica ha pesantemente criticato il primo ministro, ora egli potrebbe fare ulteriori passi falsi per le critiche rivoltegli dal suo principale alleato di partito, Gianfranco Fini". Il giornale nota anche che il primo ministro spagnolo Zapatero ha "nascosto a malapena il suo imbarazzo" nell'apparire insieme a Berlusconi a una conferenza stampa nei giorni scorsi.
Sulla vicenda scrive anche l'Evening Standard, pubblicando un estratto di "Tendenza Veronica", il libro di Maria Latella su Veronica Lario, intitolando l'articolo "la signora Berlusconi va al contrattacco".
(13 settembre 2009)

domenica 13 settembre 2009

Briatore, vita da F1 - Una storia italiana

(gianni barbacetto, da «diario della settimana», 3 novembre 1999)


1. La Formula 1 è un business
2. Che playboy, il «Tribüla»
3. Dalle stalle alla stella
4. Donne e motori
5. Stinchi di santo
6. La seconda bomba

1. La Formula 1 è un business

«La Formula Uno non è uno sport. È soltanto un business» ripete uno che se ne intende, uno che ha vinto due campionati del mondo di Formula 1: Flavio Briatore, uomo dalla vita spericolata. Oggi vive tra i neopaparazzi che lo ritraggono con la fidanzata del momento o la Formula 1 dell'anno, tra i cronisti-invitati che raccontano le notti al Billionaire, tra i nuovi nani e ballerine di regime che ne condividono le gesta.
Ma per arrivare alla Costa Smeralda, allo yacht con i quadri d’autore, a Naomi e alle altre, ce n’è voluta di fatica. Una vita intensa, da Formula Uno. Difficile da raccontare: perché
sono due le storie di Flavio Briatore. Una è la favola di un giovane brillante e ambizioso che compie un salto dal bollito misto alla nouvelle cousine, che parte dalla campagna piemontese, dalla Provincia Granda, fa mille mestieri, dall’assicuratore al maestro di sci, fino ad approdare al successo: ai trofei di Formula 1 e, ancor più in alto, alle copertine patinate al fianco di Naomi Campbell e di quelle che l'hanno seguita. L’altra è la storia di affari non sempre limpidi, bische clandestine, polli da spennare al poker o allo chemin-
de-fer, una latitanza in isole esotiche, bombe e autobombe, cattive compagnie, trafficanti d’armi e boss mafiosi. Le due storie hanno in comune il punto di partenza: Verzuolo, vicino a Saluzzo, provincia di Cuneo. Qui, il 12 aprile 1950, nasce Briatore Flavio, segno zodiacale Ariete, messo al mondo da due insegnanti elementari che sognano il figlio avvocato. Invece a Flavio basta e avanza il diploma di geometra, ottenuto («con il minimo dei voti», dice di sé) all’istituto Fassino di Busca, con tesina dal titolo «Progetto di costruzione di una stalla».

2. Che playboy, il «Tribüla»
Giovanotto, a Cuneo lo ricordano già smanioso di fare strada. Frequenta il Country club, allora luogo d’incontro della Cuneo bene. È un po’ playboy, un po’ gigolò. Ma il nomignolo che gli sibilano alle spalle, quando passa sotto i portici di corso Nizza, è «Tribüla»: si dice di uno che fa fatica, che si arrabatta. Ma il «Tribüla» ha fretta di arrivare. Diventa l’assistente, il factotum, il faccendiere di un finanziere locale, Attilio Dutto, che tra l’altro aveva rilevato la Paramatti vernici (ex azienda di Michele Sindona). Ma alle 8 di un mattino fine anni Settanta, Dutto salta in aria insieme alla sua auto: gran finale libanese per un piccolo uomo d’affari cuneese. La verità su quel botto del 1979 non si è mai saputa; in compenso sono fiorite leggende di provincia, secondo cui a far saltare in aria il finanziere era stato il clan dei Marsigliesi... Di certo c’è solo che il «Tribüla», dopo quel botto, sparisce da Cuneo. Ricompare a Milano. Casa in piazza Tricolore, molta ricchezza esibita, cattivo gusto profuso a piene mani. Occupazione incerta. Frequenta agenti di cambio e remisiers, bazzica la Borsa, si dà arie da finanziere. Riesce a convincere il conte Achille Caproni (erede della famiglia che aveva fondato la Caproni Aeroplani) a rilevare la Paramatti. Diventa consulente della Cgi, Compagnia generale industriale, la holding dei conti Caproni. Risultati disastrosi: la Paramatti naufraga nel crac; la Cgi viene spolpata, il pacchetto azionario venduto all’Efim (cioè allo Stato), le società del gruppo subiscono fallimenti a catena, gli operai sono messi in cassa integrazione, banche e creditori sono lasciati con un buco di 14 miliardi. Per un certo periodo, però, Briatore si presenta in pubblico come discografico, gira per feste e salotti con Iva Zanicchi al seguito. Il «Tribüla» continua faticosamente a inseguire il grande colpo, a sognare il grande affare. Intanto però trova una compagnia da Amici miei con cui tira scherzi birboni ai polli di turno. C’è un finto marchese, Cesare Azzaro, che si ritiene il miglior giocatore di carte del mondo. C’è un conte vero, Achille Caproni di Taliedo, rampollo della famiglia che ha fatto volare gli aerei italiani. C’è un avvocato dal nome altisonante. Adelio Ponce de Leon. E uomini dello spettacolo e della tv, Pupo (al secolo Enzo Ghinazzi), Loredana Berté, Emilio Fede, al tempo - erano i primi anni Ottanta - al vertice della sua carriera in Rai, vicedirettore del Tg1 e conduttore del programma Test. L’ambiente è una sorta di laboratorio dell’«edonismo reaganiano»: soldi, affari, gioco, belle donne. Luoghi d’incontro, case e bische clandestine a Milano e Bergamo, le ville del conte Caproni a Vizzola Ticino e a Venegono, hotel e casinò in Jugoslavia e in Kenya.

3. Dalle stalle alla stella
Le feste del contino Attilio, spalleggiato dal brillante Briatore, fanno rivivere alla villa di Vizzolo i fasti degli anni Trenta, quando sulle rive del Ticino arrivava il Duce per pranzare con l’amico Giovanni, l’inventore della Aeroplani Caproni. Nella versione anni Ottanta, invece, le feste, le battute di caccia, i safari in Africa sono occasioni per proporre affari, business che restano però sempre progetti: di concreto c’è sempre e solo un mazzo di carte che spunta all’improvviso su un tavolo verde. Cadono nella rete l’imprenditore Teofilo Sanson, quello dei gelati (su quel tappeto verde lascia 20 milioni), il cantante Pupo (60 milioni), l’armatore Sergio Leone (158 milioni in due serate all’Hotel Intercontinental di Zagabria), l’ex vicepresidente della Confindustria Renato Buoncristiani (495 milioni), l’ex presidente della Confagricoltura Giandomenico Serra (1 miliardo tondo tondo, in buona parte in assegni intestati a Emilio Fede). E tanti, tanti altri... A posteriori, il «Tribüla» la racconta così: «Mi piacevano scala quaranta, scopa, poker, chemin... No, il black jack non l’ho mai capito, la roulette non mi ha mai preso. Tra noi c’erano anche bari, io non c’entravo nulla, però, lo ha scritto anche Emilio Fede nel suo libro. Dall’83 non gioco più, qualche colpo a ramino, stop». In verità la storia era più complessa: un gruppo di malavitosi di rango, eredi del boss Francis Turatello, dedito al traffico di droga e al riciclaggio, aveva pianificato (e realizzato per anni) una truffa alla grande, con carte truccate e tutti gli optional del caso; e i polli da spennare, chiamati gentilmente «clienti», erano individuati con un’azione scientifica di studio e di ricerca, dopo aver «comprato» informazioni da impiegati compiacenti dentro le banche e dopo aver compilato accurate schede informative (complete di disponibilità finanziarie, interessi, relazioni, gusti: meglio agganciarli proponendo una battuta di caccia o portando un paio di ragazze molto disponibili?). Briatore, a capo di quello che i giudici chiamano «il gruppo di Milano», nel business aveva il delicato compito di «agganciare» i «clienti» di fascia alta, ingolosirli con qualche buon affare, farli sentire a loro agio con una adeguata vita notturna. E poi spennarli. Il gioco s’interrompe con una retata, una serie d’arresti, un’inchiesta giudiziaria e un paio di processi. Fede è assolto per insufficienza di prove, Briatore è condannato in primo grado a 1 anno e 6 mesi a Bergamo, a 3 anni a Milano. Ma non si fa un solo giorno di carcere, perché scappa per tempo a Saint Thomas, nelle isole Vergini, e poi una bella amnistia cancella ogni peccato. Cancella anche dalla memoria un numero di telefono di New York (212-833337) segnato nell’agenda di Briatore accanto al nome «Genovese» e riportato negli atti giudiziari del processo alle bische: «È un numero intestato alla ditta G&G Concrete Corporation di John Gambino, con sede in 920, 72 Street, Brooklyn, New York. Tanto il Gambino quanto il Genovese sono schedati dagli uffici di polizia americana quali esponenti di rilievo nell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra».

4. Donne e motori
Il «Tribüla» di Cuneo ne ha fatta di strada. Malgrado la latitanza, Briatore ha finalmente conquistato, tra Saint Thomas e New York, la vita che ha sempre inseguito: soldi, affari e belle donne da esibire. Arie da playboy se le è sempre date («A sei anni il mio primo bacio, a 14 la prima donna vera, Marilena, credo di Saluzzo. Vera, in quel senso lì»). Allora le sue fidanzate si chiamavano Anna Zeta, Beba. Più tardi arrivano Cristina, Nina, Giovanna, Emma. Poi ancora Naomi. E tante altre. Un’amica di Giovanna racconta a chi scrive – dopo un giuramento e mille assicurazioni di anonimato e segretezza – una di-sperata telefonata notturna: Giovanna, in lacrime, le confidava di aver trovato Flavio in compagnia, a letto: ma – e ciò la faceva più soffrire – in compagnia di un uomo. Vita privata, fatti suoi. Figurarsi se qualcuno vuol mettersi a
giudicare i suoi gusti. È la vita pubblica di Briatore, invece, che dopo l’“incidente” delle bische compie un salto: Flavio, ricercato, condannato e latitante, alle isole Vergini spicca il volo definitivo verso il successo.
Prima della tempesta, ai bei tempi della casa di piazza Tricolore, aveva conosciuto Luciano Benetton. A presentarglielo era stato Romano Luzi, maestro di tennis di Silvio Berlusconi e poi suo fabbricante di fondi neri. Aveva poco o nulla in comune, Benetton con Briatore: trovava di cattivo gusto la sua casa, il suo stile di vita, la sua esibizione di donne e di ricchezza. Ma il «Tribüla» è un grande seduttore, conquista uomini e donne, è affascinante, sa farsi voler bene. In più, il rigoroso Benetton era rimasto affascinato dalla diversità del suo interlocutore, dal suo lato oscuro: «È un po’ teppista ma è tanto simpatico», rispondeva Luciano agli amici che gli chiedevano che cosa avesse mai in comune con quel tipo, dopo averlo messo in guardia per le brutte storie che giravano sul suo conto. Fatto sta che Briatore apre alle isole Vergini qualche negozio Benetton e fa rapidamente carriera nel ristretto gruppo di manager dell’azienda di Ponzano Veneto. Come venditore è bravo. Riuscirebbe a vendere anche il ghiaccio al Polo Nord, dice di lui chi lo conosce bene. E aggiunge: venderebbe anche sua madre. Passa nel dimenticatoio dunque anche un’altra storia che sfiora Briatore nei primi anni Ottanta. Una vicenda complicata di azioni Generali, mica noccioline, che passano di mano: un pacchetto di oltre 330 miliardi. Protagonisti: Anthony Gabriel Tannouri, libanese, noto alle cronache (e all’inchiesta del giudice Carlo Palermo) come trafficante d’armi; Mazed Rashad Pharson, sceicco arabo e finanziere internazionale; Florio Fiorini, padrone della finanziaria Sasea, ex manager Eni, esperto di mercato petrolifero. Il pacchetto di Generali passa di mano per sette anni, prima di tornare in Italia, perché diventa la garanzia di opache transazioni internazionali: di petrolio tra la Libia e l’Eni, di armi ed elicotteri da guerra (gli americani Cobra) che dopo qualche triangolazione (con il Venezuela, con il Sudafrica) finiscono a Gheddafi malgrado l’embargo. La vicenda, in verità, è rimasta oscura. Certo è che per recuperare le azioni si è mosso anche il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia e che, nel suo giro del mondo, il superpacchetto di Generali è passato anche per una sconosciuta fiduciaria milanese, la Finclaus, sede in corso Venezia, capitale sociale soltanto 20 milioni, fondata nel 1978 da Luigi Clausetti, ma per qualche tempo nelle mani di Flavio Briatore.

5. Stinchi di santo
Ma i personaggi che Briatore frequenta, quelli con cui discute di affari, donne e motori, continuano a non essere proprio stinchi di santo. Tanto che il suo nome finisce dritto in una megainchiesta antimafia condotta dai magistrati di Catania, accanto ai nomi di mafiosi dalla caratura internazionale. Niente di penalmente rilevante, intendiamoci: lui, Briatore, non è stato indagato; ma la sua voce resta registrata in conversazioni con boss di rango. Felice Cultrera, uomo d’affari catanese che fa riferimento al boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola, è il centro dell’inchiesta antimafia. Stava imbastendo business di tutto rispetto: la costruzione di 5 mila appartamenti a Tenerife; l’acquisto di quote dei casinò di Marrakech, Istambul, Praga, Malta, Montecarlo, da usare per riciclare denaro sporco; la commercializzazione e la ricettazione di titoli al portatore; l’intermediazione di armi pesanti e l’acquisto di elicotteri (con la presenza nell’affare di una vecchia conoscenza delle inchieste sul traffico d’armi e droga, il miliardario arabo Adnan Khashoggi); l’avvio di attività finanziarie in Spagna, Arabia Saudita, Israele, Giordania, Egitto, Marocco, Turchia, Cecoslovacchia, Russia, Corea, Hong Kong, Montecarlo... Un vortice d’affari, di contatti, di relazioni. Ebbene, chi è uno degli interlocutori dell’attivissimo Cultrera? Proprio Flavio Briatore (del resto, il gruppo dei catanesi coltivava buoni rapporti anche con i fratelli Alberto e Marcello Dell’Utri e con il generale dei carabinieri Francesco Delfino). Nel maggio 1992, dunque, Cultrera e Briatore, intercettati dalla Dia (la Direzione investigativa antimafia), conversano amabilmente di affari e affaristi. Briatore chiede consigli: racconta che un certo Cipriani (è il rampollo della famiglia veneziana), spalleggiato da tal Angelo Bonanno, aveva cercato di intromettersi nella fornitura di motori di Formula 1; per convincere l’uomo del team Benetton, Cipriani gli aveva squadernato le sue referenze: «Sono amico di Tommaso Spadaro, sono amico di Tanino Corallo». Nomi d’oro, nell’ambiente: Spadaro è il ricchissimo boss padrone dei casinò dell’isola caraibica di Saint Maarten; Corallo è l’uomo che qualche anno prima aveva tentato, per conto della mafia, la scalata dei casinò italiani di Saint Vincent e di Campione. Cultrera ascolta con interesse, poi conferma all’amico Briatore che sì, è tutto vero: Bonanno «È uno pesante, inserito in una famiglia pesante». Infatti: Bonanno è un narcotrafficante del clan mafioso catanese dei Cursoti, coinvolto anche nell’indagine sull’Autoparco di Milano. Dunque meglio non contrariarlo.

6. La seconda bomba
Quando, il 10 febbraio 1993, una bomba esplode (è la seconda, nella vita di Briatore) davanti alla porta della sua splendida casa londinese in stile re Giorgio, in Cadogan Place, nell’elegante quartiere di Knightsbridge, distruggendo una colonna del porticato e facendo saltare i vetri tutt’attorno, qualche voce cattiva la mette in relazione con i traffici d’armi o altri commerci. Ma i giornali inglesi scrivono che si tratta di una «piccola bomba» dell’Ira e che i terroristi potrebbero averla abbandonata per paura di essere stati scoperti. Intanto Briatore è giunto al culmine (per ora) del suo successo. Il «Tribüla» si è preso le sue rivincite. Esibisce i suoi soldi, le sue donne, le sue case. Appartamento a New York, villa a Londra, attico a Parigi, pied-à-terre ad Atene, tenuta in Kenya («Lion in the sun»). Aereo privato. Yacht di 43 metri, «Lady in blue», con un Fontana e un Giò Pomodoro nel salone. Ha amici importanti soprattutto in Inghilterra (Eccleston innanzitutto, ma anche David Mills, avvocato londinese di Berlusconi, specialista nella costruzione di sistemi finanziari internazionali «riservati», tipo All Iberian). Briatore è «arrivato» e lo fa vedere, senza risparmio. All’inizio degli anni Novanta aveva preso in mano la scuderia Benetton di Formula 1, creata nel 1986 da Davide Paolini e Peter Collins sulle ceneri della Toleman. Nel 1994 e nel 1995, con Michael Schumacher come pilota, la porta alla vittoria mondiale. «Ma la Formula 1 non è uno sport, è un business», ripete. E lui da questo business (off-shore per definizione, fuori da ogni regola e da ogni trasparenza) ha saputo spremere miliardi. A trovare sponsor è bravissimo. Per il team spendeva molto, è vero, ma i suoi bilanci non hanno mai chiuso con disavanzi superiori ai 3 miliardi: la Benetton, dunque, ha ottenuto una copertura pubblicitaria planetaria, del valore di almeno 15 miliardi all’anno, con esborsi piccolissimi o addirittura, dopo il 1993, con un guadagno di alcune centinaia di milioni. Ma Briatore non sta fermo. Mentre macina soldi in Benetton, cura anche business in proprio: compra e rivende la Kicker’s (scarpe per bambini), acquista un’altra scuderia di Formula 1, la Ligier (dopo qualche tempo la rivenderà ad Alain Prost), prende una quota della Minardi, poi diventa socio del team Bar. Forse è troppo anche per Luciano Benetton, che nel 1996 divorzia dall’amico «un po’ teppista ma tanto simpatico». Niente di male, Briatore incassa una buonuscita di 34 miliardi (ma nulla È sicuro in questo campo) e subito si ripresenta con una sua azienda, la Supertech, in società nientemeno che con Ecclestone, che sviluppa i motori Renault e li fornisce a tre team, Bar, Williams, Benetton. Poi compra la casa farmaceutica Pierrel. E ora pensa al calcio. è juventino sfegatato, ma anche il football è per lui, più che uno sport, un business; il suo pensiero oggi è: come spremere soldi dal pallone? Ma apparire gli piace almeno quanto possedere. Le due cose si sono ben sposate nel Billionaire, discoteca con piscina ottagonale infarcita di vip a Porto Cervo, in Sardegna: buon investimento, ma soprattutto ottimo palcoscenico per le sue apparizioni in pantofoline di velluto bordeaux al fianco di Naomi Campbell (storia inventata, dicono i bene informati, dalla pierre Daniela Santanché da Cuneo, amica di gioventù di Briatore e oggi pasionaria di Alleanza Nazionale, novella Marta Marzotto della destra, consigliere provinciale a Milano e presidente nientemeno che della locale commissione cultura). Per Flavio Briatore la vita spericolata è diventata ormai vita dorata. Le brutte storie del passato nessuno le ricorda più. Il «Tribüla» di Cuneo è sparito: al suo posto, un uomo di successo, non raffinatissimo, ma ugualmente coccolato dai salotti di ogni tipo, in cui si rimpiangono gli anni Ottanta e si ripete il motto di Briatore: «Se vuoi, puoi».