sabato 21 marzo 2009

La società dello spettacolo

http://www.filosofico.net/socspettdebord.htm

La società dello spettacolo

Da Pier Paolo Pasolini a Guy Debord la metamorfosi neo-capitalistica in attività contemplativa

A cura di Andrea Pesce

Il senso della vista gode da millenni il privilegio di essere il più studiato e citato nelle riflessioni dei più grandi filosofi. Aristotele nella Metafisica lo elegge a senso privilegiato dall’uomo in quanto “noi preferiamo la vista a tutte le altre sensazioni, non solo quando miriamo a uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamo compiere alcuna azione. E il motivo sta nel fatto che questa sensazione, più di ogni altra, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una gran quantità di differenze”. Il vedere quindi implica, secondo lo Stagirita, l’entrare in contatto con l’alterità, con un qualcosa che non è parte di noi (in senso corporeo, materico) ma, allo stesso tempo, in intimo rapporto con noi: le cose che percepiamo attraverso l’occhio, penetrano nel nostro cervello e, in molti casi, permangono come traccia indelebile nella nostra memoria. Paradossalità dello sguardo: ciò che non può vederci è ciò che ci caratterizza, così come colui che vede non può scorgere il suo occhio che osserva.

Se è vero, come voleva Aristotele, che la filosofia nasce dalla meraviglia di fronte ai fenomeni naturali e l’interrogarsi dinanzi ad essi, risulta inevitabile il nascere di una disciplina che si occupi di queste faccende: l’estetica. Il filosofo A. G. Baumgarten usa per primo questo termine in un’opera del 1735 dal titolo Aesthetica, dedicata alla conoscenza sensibile attraverso l’arte e la bellezza. Va ricordato che l’irrompere in noi del sentire estetico, quel qualcosa che ci turba, commuove o emoziona nel profondo, non deriva solo dalla contemplazione o dalla mera partecipazione visiva nei confronti di opere d’arte plastiche o visive; una poesia o un romanzo, una sinfonia o un semplice brano musicale possono regalarci, con altrettanta forza, quel turbamento emotivo così assorbente ed esclusivo. Tutto ciò oggi, in forme degradate, offese, fraintese e avvilite è entrato a far parte della “società dello spettacolo”.

Dai tempi del teatro greco lo spettacolo è divenuto istituzione sociale in cui, gruppi di persone dette “spettatori”, passano il proprio tempo assistendo ad una recita in balìa delle proprie emozioni. Nulla di scandaloso in tutto ciò. Lo spettatore, dopo avere assistito alla tragedia che si rappresentava, tornava alla sua vita di sempre avendo magari imparato qualcosa in più sui problemi dell’umano vivere. I mezzi di comunicazione di massa hanno stravolto completamente questo assetto. La dimensione spettacolare è stata portata al massimo grado di esposizione: tutto è spettacolo: dai telegiornali alle guerre, dal farsi una doccia al friggersi un uovo.

Il principale apparato della società dello spettacolo è la televisione. Paradigmatico è il caso dei Telegiornali che, da alcuni anni a questa parte, hanno assunto la forma del varietà, in quella confusione tra informazione e spettacolo che ha dato vita al neologismo infotainment. Due esperti della teoria e tecnica della comunicazione di massa come Ugo Volli e Omar Calabrese si sono occupati di questo problema in un saggio dal titolo “I telegiornali: istruzioni per l’uso”. Un libro nel quale vengono analizzate le metamorfosi dei Tg nella storia d’Italia dai primi anni cinquanta fino all’era della Tv berlusconiana, di cui bene conosciamo gli effetti. Nel capitolo “Informazione e spettacolo” gli autori espongono il loro giudizio sui Tg con queste parole: “La regia degli eventi, la costruzione dei colpi di scena, il montaggio degli argomenti, la personalità e l’aspetto fisico degli interpreti, l’impaginazione e la titolazione seduttiva, la costruzione della suspense, il lavoro che continuamente l’apparato mette in opera per costruire un’illusione di realtà. […] In televisione anche le notizie esistono solo se fanno spettacolo e si sottopongono alle leggi dello spettacolo - la prima delle quali è naturalmente che il pubblico ha sempre ragione e non si deve mai annoiare”. I due esperti non dimenticano l’aspetto ideologico del problema per cui: “Lo spettacolo del mondo come è raccontato dai notiziari televisivi è, secondo il punto di vista di Edelman, una essenziale sorgente di legittimazione per lo Stato: là fuori ci sono terribili nemici e sfide complicate; per riuscire a vivere tranquilli qui dentro, nel salotto di casa dove il mondo è spettacolo, qualcuno deve pensarci per noi”. Spettacolo: genere Telegiornale.

E’ vero che Marx, già un secolo e mezzo fa, aveva capito che il capitalismo sarebbe degenerato verso la forma del più bieco consumismo. Egli tuttavia credeva che la morte del capitalismo si sarebbe verificata nel momento in cui l’offerta avrebbe superato la domanda, in una spaventosa abbondanza delle merci al consumo. Le cose sono andate un po’ diversamente. Nel nostro secolo almeno due “profeti” vanno menzionati in tal senso, per la loro opera di prosecuzione del pensiero di Marx nell’analisi della società consumistica: Pier Paolo Pasolini e Guy Debord rappresentano due punti di riferimento per tutti coloro i quali avvertono l’esigenza del cambiamento attraverso la critica sociale.

Dai primi anni sessanta entrambi si erano accorti che la situazione per le masse andava via via peggiorando per il sempre più invasivo e opprimente potere della televisione. Pasolini in un articolo dal titolo “Acculturazione e acculturazione” pubblicato sul Corriere della sera del 9 dicembre 1973 (ora contenuto nella raccolta Scritti corsari), arrivò addirittura provocatoriamente a lanciare una sfida ai dirigenti Rai nella promozione della lettura: veri e propri sponsor, non relegati solo ai programmi culturali, ma inseriti nei palinsesti secondo le regole pubblicitarie che impongono di consumare. Da queste affermazioni del poeta emerge l’aspetto “utopico”, se vogliamo idealistico, del suo pensiero. In un tentativo estremo di arginare il “genocidio culturale” o comunque il disastro politico-sociale verso cui ci si stava indirizzando, attraverso forme di rieducazione delle masse mediante la presa di coscienza della propria condizione di sfruttati e inebetiti, derivante dalla lettura dei libri, Pasolini credeva di poter salvare ancora parte del popolo italiano prima che l’omologazione diventasse totale. In una intervista per la Rai degli anni settanta lo scrittore confessava di non aver compreso il motivo per cui al regima fascista, non era riuscito il completo assoggettamento delle masse attraverso l’appiattimento e la sottomissione totale negli usi e costumi degli italiani: un contadino rimaneva tale e così gli appartenenti alla classe operaia o del sottoproletariato urbano. Capì che tutto questo stava perfettamente riuscendo a questa forma di neocapitalismo detta consumismo, ma non fece in tempo a cogliere le modalità in cui questo assoggettamento si stava attuando. Tutta questa terribile mutazione totalitaria il poeta l’argomentò, con sconcertante lucidità, nel già citato articolo Acculturazione e acculturazione della fine del 1973. All’epoca bollato come catastrofico, antimodernista, eccessivo e, da alcuni adddirittura ideologico, se riletto oggi risulta essere una delle più precise analisi della società italiana a venire, quella che dagli anni ottanta in poi sarebbe divenuta la massima espressione della cossiddetta “neo-civilizzazione berlusconiana”. L’articolo merita di essere riportato nella sua quasi totale interezza:



“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la oro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana.

Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero Paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo.

Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). […]

Il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello “televisivo” - che essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale – diviene stranamente rozzo e felice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.

La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. E’ il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E’ attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.

Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…”.



Al suo pensiero mancava ancora un tassello, un’ultima tessera del puzzle per avere l’immagine nitida della realtà sociale che si stava configurando. La genesi del cancro è stata descritta da Guy Debord quando, nel saggio “La società dello spettacolo” del 1967, ha compreso il segno dell’irreparabile nella deriva consumistica dei lavoratori. Il capitale non opprime più l’operaio solo all’interno della fabbrica o ufficio, ma è fuoriuscito convertendo il lavoratore in consumatore. Anche il concetto marxiano di alienazione subisce una mutazione, un cambiamento radicale portato dal fatto che lo spreco del tempo libero diventa essenziale all’abbattimento, da parte del capitale, di ogni velleità rivoluzionaria. Mentre in passato era essenziale per il rivoluzionario mettere a buon fine il proprio tempo libero, pianificando la lotta da porre in essere contro la classe dominante, oggi il consumatore passa le proprie ore ad istupidirsi di fronte agli spettacoli che i suoi sfruttatori generano per lui. Baudrillard ha egregiamente sintetizzato questo concetto nella frase: Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare.

Scenario da romanzo di fantascienza. Completamente imprigionati all’interno delle gabbie del consumo, i lavoratori, rimangono oggetti passivi da sfruttare (in forme sempre piu’ viscide e sottili) per la totalità della loro esistenza. Non va peraltro dimenticato che l’analisi debordiana rivelava che lo strumento principale di influenza politico-sociale è ludico e non tanto religioso o politico. Come ribadiscono Volli e Calabrese nel saggio succitato: “Che una società tesa al consumo piacevole del tempo sia dominata dallo spettacolo, è perfettamente naturale, dato che lo spettacolo è la forma più economica di divertimento organizzato: economica per chi ne fruisce, perché gli si richiede pochissima attività; economica per chi la produce, dato che egli può contare su una forte sproporzione tra attori e pubblico. Economica infine nei suoi mezzi e contenuti, dato che si basa generalmente su forme fortemente codificate di racconto”. Il tassello finale, si diceva, sta nell’introduzione, da parte di Debord, del concetto di conteplazione che egli riprende da Storia e coscienza di classe di Gyorgy Lukács abbinandolo all’elemento fondamentale del consumo. In un passo di quest’opera il filosofo di Budapest afferma: “[…] più aumentano la razionalizzazione e la meccanizzazione del processo lavorativo, più l’atteggiamento del lavoratore perde il suo carattere di attività per trasformarsi in un atteggiamento contemplativo…”, concetto, questo, a cui Debord dedica l’occhiello al secondo capitolo.

A proposito di questo termine (dal latino contemplari “trarre qualche cosa nel proprio orizzonte”, era lo spazio che l’augure circoscriveva per osservare il volo degli uccelli e divinare il futuro), mutuato dalla teoria estetica, non va trascurata l’origine che si ritrova in ambito filosofico e mistico-religioso. Già in Platone e Aristotele rappresentava la conoscenza intellettuale (theoria) da contrapporsi all’azione (praxis). Nel senso mistico-religioso l’atteggiamento contemplativo è quello in cui la mente si fissa su una realtà spirituale fino all’oblio di ogni altra realtà. Molto interessante risultano essere le tendenze mistico-contemplative fuori del cristianesimo, soprattutto nello yoga e nel buddismo, in cui la contemplazione è considerata il vertice nell’itinerario ascetico portando all’annullamento del pensiero e di tutti i desideri; sorta di comportamento ipnotico che fa pensare alla chiesa catodica del film Videodrome di David Cronenberg in cui il culto nei confronti video aveva raggiunto livelli di affascinante catastroficità.

Debord insiste fortemente nell’identificazione tra capitale e spettacolo giungendo ad una intuizione assolutamente geniale: “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”. L’offerta, come voleva Marx, ha sicuramente superato la domanda assumendo l’inconsistente forma dell’immagine. Aggiunge Debord: “Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale”. Questo è il surplus richiesto al lavoratore, non più inteso come proletario-operaio, come voleva l’economia politica nella prima fase dell’accumulazione capitalista, ma elevato al rango di consumatore durante il periodo di svago dal lavoro, bombardato da colossali investimenti in campo pubblicitario che garantiscono alla classe dominante di inculcare e imporre sempre più il modello di vita piccolo borghese, modello cinico, egoista, indifferente.

La società dello spettacolo G.E. Debord

da wikipedia


Guy Ernest Debord (Parigi, 28 dicembre 1931 – Champot/Bellevue-la-Montagne, 30 novembre 1994) è stato uno scrittore, regista e filosofo francese, tra i fondatori dell'Internazionale Lettrista e dell'Internazionale Situazionista.


Il pensiero di Debord sviluppa essenzialmente i concetti di alienazione e reificazione, già centrali nelle riflessioni di Karl Marx, ma reinterpretati alla luce delle trasformazioni della società europea nel secondo dopoguerra. Lo sviluppo dell'economia nell'età contemporanea, con l'emergere dei nuovi fenomeni sociali del consumismo e della centralità dei mass media, avrebbe segnato infatti una nuova fase nella storia dell'oppressione della società capitalista:
« La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima[1] »


Ciò che aliena l'uomo, ciò che lo allontana dal libero sviluppo delle sue facoltà naturali non è più, come accadeva ai tempi di Marx, l'oppressione diretta del padrone ed il feticismo delle merci, bensì è lo spettacolo, che Debord identifica come
« un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini[2] »


Una forma di assoggettamento psicologico totale, in cui ogni singolo individuo è isolato dagli altri ed assiste nella più totale passività allo svilupparsi di
« un discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo[3] »


Lo spettacolo, di cui i mass media sono solo una delle molte espressioni, è parte fondante della società contemporanea, ed il responsabile della perdita da parte del singolo di ogni tipo di individualità, personalità, creatività umane: la passività e la contemplazione sono ciò che caratterizza l'attuale condizione umana. Ciò che rende lo spettacolo ingannevole e negativo è il fatto che esso rappresenta il dominio di una parte della società, l'economia, su ogni altro aspetto della società stessa; la mercificazione di ogni aspetto della vita quotidiana rompe quell'unità che caratterizza la condizione umana propriamente detta:
« Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio[4] »


Proprio in risposta alla frammentazione ed alla passività della società dello spettacolo, il programma dell'Internazionale Situazionista si propone di rivendicare l'autonomia dell'esperienza individuale attraverso la creazione di situazioni, momenti di aggregazione ed esperienza artistica e culturale grazie ai quali l'individuo può ritrovare la sua condizione di soggetto attivo nella realtà. In questo senso l'approccio situazionista all'arte si richiama fortemente alle avanguardie del primo Novecento, in particolare il Dadaismo ed il Surrealismo, nel loro provocatorio rifiuto dell'arte tradizionale.

Emergency Room


Il sindaco Iervolino fa rimuovere il Cristo nel profilattico
Via il Cristo nel profilattico esposto al Pan. L´opera di Sebastiano Deva, ideata nell´ambito del «format» Emergency Room (ideato dal franco-canadese Thierry Geoffroy), ha scatenato le ire di Palazzo San Giacomo. Il sindaco: "Questa non è arte". L´assessore Oddati: "Ha ragione e sono intervenuto". Ecco le foto del cristo incappucciato nel profilattico e un'altra installazione in mostra (Nicois/Agnfoto).


di Giulietto Chiesa – da «Galatea European Magazine», aprile

Una delle cose più comiche di questa società dello spettacolo è il vedere sfilare sugli schermi tv, una dietro l'altra, le facce impudenti di coloro che hanno prosperato creando la catastrofe per tutti noi, accuratamente nascondendoci quello che stavano facendo, o coprendo. Parlo di banchieri, “centrali” e meno centrali, ma anche di giornalisti, commentatori, di pagine economiche e di prime pagine. Tutti lautamente retribuiti per non dire quello che sapevano, o che avevano l'obbligo professionale almeno di supporre.
E ce l'ho in particolare con quelli che capivano, gli altri essendo troppo stupidi per capire, anche se non abbastanza da rifiutare di ficcare le mani nella cornucopia che si trovavano davanti.
Va de sé che, non avendo detto la verità prima, non la dicono neanche adesso. Anzi fanno a gara tra loro per dire due cose, entrambe false. La prima consiste nel mantra “io l'avevo detto”. La seconda - peggiore - consiste nel pronosticare i tempi della crisi. Quanto durerà? Chi dice un anno, e poi “ci sarà la ripresa”. I più onesti, e i meno ottusi - e sono pochini - ormai ammettono che sarà una lunga sofferenza. Ma il termine lungo, per gente che ha vissuto gli ultimi vent'anni “a trimestre” non può andare più in là di due anni.
Si capisce, qua e là, che siamo già oltre la gravità della “Grande Depressione” del 1929 e successivi. Che fu, infatti seguita da una “ripresa”, ma oltre dieci anni dopo, e ci volle una guerra mondiale prima di vederla. Ma di questo nessuna delle suddette facce disquisisce: troppi trimestri in là. Ora, a buoi usciti dalla stalla, sciorinano i loro pronostici edulcorati, dimenticando di ricordare, per esempio, che alla vigilia del crack del 1929 l'America era il più grande creditore netto del pianeta, mentre nel 2009 è diventato il più grande debitore mondiale. E dimenticano anche che allora il dollaro era ancora “una delle monete”, mentre ora è “la moneta” di riferimento mondiale e, se cade questa, non ci saranno argini per lo tsunami planetario.
Dopodiché non è escluso che ci sarà qualche “ripresa”, ma bisognerà allora vedere fin dove si sarà scesi prima di pensare a risalire. Discorso lungo e serio, per cui torniamo al comico.
Consistente, come s'è accennato, nel chiedere prognosi a coloro che le hanno sbagliate tutte. Questo sì che è fenomenale! Equivalente a fare la coda, quando si prende la polmonite, per farsi visitare dal macellaio, ovvero, a prestare la chiave di casa al ladro. È quello che fanno ogni giorno le più importanti istituzioni finanziarie mondiali. Per sentire il polso della crisi consultano quelle stesse agenzie di rating che, letteralmente, non ne hanno azzeccata una. Prendi, ad esempio, la prestigiosa Moody's. O la Standard & Poor's, o la Fitch. Il loro voto decideva l'andamento in borsa di una grande corporation, ma poteva condannare o salvare un intero paese. Adesso, se andassimo a vedere i loro registri dei voti - diciamo, per esempio, quelli degli anni 2000-2003, quando tutto era già evidente anche a un cieco - scopriremmo invariabilmente che davano dieci e lode anche ai più asini tra gli asini.
Quanto dovrebbero valere i loro voti adesso? Sussurriamocelo: zero.
E invece rieccoli al capezzale nostro a spiegarci, con il solito sussiego, come mai la banca che ci avevano consigliato di scegliere è fallita. Lo sappiamo da soli che è fallita. Il loro mestiere era quello di dirci in anticipo quante probabilità c'erano che fallisse. Ci dicevano invece il contrario. L'avessero fatto gratis potremmo solo strapparci i capelli, piangendo per avere affidato il nostro piccolo capitale a dei coglioni. Sfortuna, che altro? Invece scopriamo che si sono pure fatti pagare dai truffatori per raccontarci frottole.
E non sono ipotesi. I giornali hanno - finalmente- pubblicato le e-mail che si scambiavano tra di loro i dirigenti di queste società di rating. Alcune, s'intende, ma immagino che se ne potrebbero stampare volumi.
«Questo affare è ridicolo - scriveva uno - non dovremmo renderlo credibile con il nostro voto». E l'altro rispondeva: «Ma che dici? Il nostro compito è dare rating a tutti, anche a un titolo strutturato da una vacca».
Un altro - e siamo ai vertici di Standard & Poor's - scrive, malinconicamente (anche i furfanti hanno momenti di debolezza) : «la verità è che non solleviamo mai le tende delle nostre finestre per guardare fuori quello che succede, non ci facciamo domande sulle informazioni che ci forniscono. Abbiamo venduto l'anima per una frazione di fatturato».
E l'altro risponde - ed è l'epitaffio di tutta questa storia, che già viene pagata da decine di milioni di disgraziati -: «Speriamo di essere già pensionati, e ricchi quando tutto questo castello di carte cadrà».
Avete mai sentito una di queste benemerite istituzioni di rating che ci dicesse che il signor Bernard Madoff stava truffando tutto e tutti e che la sua era una graziosa catena di Sant'Antonio da 60 miliardi di dollari? Ovviamente silenzio, ma si scopre ora che il plurimiliardario Warren Buffet, di fronte al quale tutta la stampa economica si profonde in inchini a tutt'oggi, è proprietario del 20% delle azioni di Moody's. Adesso fa il broncio perché, dice, neanche lui fu avvertito.
Naturalmente gl'inchini continuano, forse perché gli sono rimasti abbastanza miliardi di dollari da poter mettere in riga anche l'Amministrazione di Washington, ma credo gli si potrebbe chiedere come mai - da genio della finanza qual è - ha taciuto mentre tutte le grandi banche d'investimento americane si scioglievano come neve al sole.
Forse era lui che doveva avvertire la “sua” Moody's, visto che stava partecipando più o meno segretamente, ad alcuni tentativi di salvataggio proprio delle banche che le agenzie di rating continuavano a dare per solide.
E, a proposito di banche d'investimento, vi siete accorti che sono sparite tutte? Erano cinque, i gioielli della globalizzazione americana. Il loro volume d'affari faceva impallidire i bilanci nazionali di interi stati, e non dei più piccoli.
Adesso possiamo dire, senza tema di smentite, che erano cinque truffe planetarie. Lehman Brothers e Bear Sterns sono fallite tout court; Merryl Lynch è stata assorbita da una banca commerciale (tutt'altro che immacolata), la Bank of America; Goldman Sachs e Morgan Stanley sono state trasformate in banche ordinarie sotto la garanzia dei soldi stampati dalla Federal Reserve.
In tutto questo il Mercato , con la M maiuscola, non c'entra niente. Se lo avessero usato non saremmo in questo pasticcio.
E adesso che fare, in attesa della “ripresina” che, come Godot, tutti attendono ma che non verrà?
Per rispondere sarebbe utile dare un'occhiata alla “quarta crisi” quella di cui nessuno parla, ma che è componente essenziale, concausa, compartecipe, complice del silenzio assordante che ha coperto l'arrivo della crisi finanziaria, di quella energetica, di quella climatica, per restare alle maggiori.
Parlo della crisi dell'informazione, del collasso morale e intellettuale del giornalismo. Quelli che dovevano raccontarci, spiegarci ciò che stava maturando non l'hanno fatto. Perché? La risposta è semplice: perché erano parte della truffa e, dunque, non potevano raccontarla. Non ci fossero stati i media, le televisioni in particolare, a costruire il grande spettacolo di questa società illusoria in cui credevamo di vivere, non fosse stata in funzione, 24 ore su 24 la colossale fabbrica dei sogni e delle menzogne che è divenuto il mainstream globale, tutto ciò di cui stiamo parlando non sarebbe stato possibile.
Segni di resipiscenza? Non molti. Prendo in mano l'ultimo numero della prestigiosa rivista «Time». Quella che, nel febbraio 1999 dedicò la sua copertina al “Comitato che ha salvato il mondo”. Indovina che era il comitato? Alan Greenspan, Larry Summers e Bob Rubin. Gli ultimi due dei tre, per altro, sono come le agenzie di rating, sempre sulla breccia.
Adesso il direttore di «Time», Richard Stengel, promette di guidare i suoi lettori nella navigazione in un mondo che cambia. «Quale sarà la nostra missione?» - dice: -«Spiegarti cosa sta cambiando e perché, e cosa tu puoi fare in proposito». Capito l'antifona? Adesso ti invitano a partecipare alla raccolta dei detriti. Ma come si può farlo? «Con grandi reportages - dice Stengel - grandi capacità di scrittura, grande fotografia, grande video on line».
Tutto qui? E fino a ieri che cosa hanno fatto?
Non solo «Time», ma tutti insieme, appassionatamente, i media? Penso a quell'oracolo del “Mercato” (sempre con la m maiuscola) dell'«Economist», che in tutti questi anni bastonava severamente le dita a chiunque osasse parlare dell'intervento dello stato nell'economia, il thatcheriano d'acciaio inossidabile che spiegava le meraviglie della globalizzazione finanziaria.
Ma, per restare in casa nostra, penso al «Sole 24 ore», alle pagine economiche del «Corriere della Sera» e di «Repubblica». Come mai non hanno avvertito? Riprendo in mano l'ultimo numero di «Time» e guardo i titoli. Il futuro, per «Time», è la fotocopia del passato. «Come si affitta un intero paese»; «Africa, il nuovo business»; «Come far diventare verde il consumo». Eccetera, eccetera.
Una specie di vademecum al suicidio.

mercoledì 11 marzo 2009

L'Obama CANCELLATO

non mi stupisco... ho testimoni che possono riportare che "l'avevo detto"....
Ovviamente la cosa non mi consola affatto...che tristezza!

L'America che non piace ai media italiani - 10/03/09
http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=8814


Il nuovo capo della Casa bianca sta rimediando alle violazioni dei diritti umani dell'era-Bush, a partire da Guantanamo. Ma i nostri giornali e le nostre televisioni passano oltre, minimizzano, ne parlano poco. O, persino, lo osteggiano.




obamaLa nuova America di Barack Obama mantiene le promesse riguardo i diritti umani violati a più riprese dall'amministrazione di Bush Jr. La Commissione di intelligence del Senato americano indagherà a breve sui metodi di interrogatorio e sulle modalità di detenzione messe in atto negli anni scorsi dalla Cia nei confronti di presunti terroristi. La notizia - confermata da fonti del partito democratico del Congresso - è stata ignorata dalla maggior parte dei mezzi di informazione italiani, anche da quelli che parlano molto - ma un po' ritualmente - di diritti umani.

Il silenzio è sconcertante, specie se si considera, per esempio, che nel lager di Guantanamo, dove i detenuti erano reclusi in celle simili a stie per polli, dal 2001 al 22 gennaio di quest'anno, quando il nuovo presidente degli Stati uniti, evidentemente anche lui turbato da questo quadro, ha dato l'ordine di chiuderlo, sono transitati 775 prigionieri dei quali 420 sono stati liberati, dopo torture e offese, senza nessuna accusa o incriminazione.
Un contesto tragicamente simile a quello descritto da Claudio Fava, giornalista, scrittore e parlamentare europeo, presidente della Commissione che ha indagato sulle extraordinary rendition, in un passaggio della prefazione per il libro di Giulietto Chiesa Le carceri segrete della Cia in Europa: «Questa storia è anche un viaggio nell'orrore e nel ridicolo: nomi storpiati, abbagli, menzogne. Con un più tragico e grottesco dettaglio: delle venti extraordinary rendition che la Commissione di inchiesta ha ricostruito, almeno diciotto riguardavano casi di persone totalmente innocenti. Catturate, detenute, torturate e infine - un anno dopo, due anni dopo, cinque anni dopo - liberate con un'alzata di spalle 'c'eravamo sbagliati'. E' solo una stolta avventura della Cia? Non credo. Quegli abusi, quelle menzogne, quegli eccessi sono anche i nostri».

Anche i dati che abbiamo citato sopra sono indiscutibili e fino a qualche tempo fa, perfino nell'Italia democristiana, avrebbero imposto almeno una riflessione di prima pagina. Ora invece sono letteralmente spariti, anche in quotidiani prestigiosi come il Corriere della Sera che ha ben due vicedirettori che si dichiarano esperti nell'argomento diritti umani, Magdi Cristiano Allam, candidato dell'Udc alle europee, che appena può lancia una fatwa contro il mondo islamico, per lui radice di ogni violenza del mondo moderno, e Pierluigi Battista che, nei suoi fondi, senza nessun rispetto per i lettori, chiama «dittatore» Ugo Chavez, che in dieci anni di governo del Venezuela ha affrontato una dozzina di consultazioni elettoriali o referendarie, perdendone una sola, e accettando nell'occasione e senza discussione quel risultato.

Mi viene naturale, allora, ricordare con fastidio le faccie stolide di quei presunti esperti di strategie militari che nello studio televisivo di Bruno Vespa, fra il 2001 e il 2003, giocavano a RisiKo con i plastici raffiguranti l'Afghanistan e successivamente l'Iraq convinti, in entrambi i casi, che gli Stati Uniti avrebbero archiviato quelle pratiche strategiche in poche settimane e avrebbero «esportato la democrazia».

Invece l'Afghanistan è nuovamente in mano ai talebani, ai mercanti d'oppio e ai signori della guerra. Mentre nella terra della civiltà babilonese le vittime civili sono ormai 900mila e a Falluja e in altre zone è provato siano state utilizzate dall'armata Usa armi chimiche.

Lo sconcerto, poi, diventa totale leggendo la conclusione preliminare dell'inchiesta voluta da Barack Obama, addirittura all'indomani dell'investitura, che afferma «Nonostante gli ingenti finanziamenti disposti a partire dal 2003, con i soldi dei contribuenti americani, è impossibile trovare testimonianza di un solo cantiere aperto nella capitale irachena, fatta eccezione per quello del complesso che da pochi giorni ospita la nuova ambasciata Usa», la più faraonica sede diplomatica del governo nordamericano nel mondo, un complesso di ventuno edifici costato quasi due miliardi di dollari.

In compenso quella che fu la terra della civiltà babilonese è stata inondata di denaro, 125 miliardi di banconote che Paul Bremer, allora scelto da Bush Jr. per «ricostruire» un paese appena raso al suolo, aveva preteso in contanti.

Ora l'indagine governativa in corso sta rilevando che la metà dei soldi risulta sparita nel nulla, 57,8 miliardi di dollari, che dovevano essere destinati a scuole, ospedali, strade, abitazioni e a ricostruire i servizi essenziali, e che invece sono finiti nelle tasche degli speculatori internazionali, o fanno parte dei bilanci di ditte come la Hullyburton, creatura cara all'ex vice presidente Dick Cheney, i cui manager arrivavano in Iraq accompagnati da guardie del corpo chiamate contractors e pagate non meno di 15mila dollari al mese.

Al Pentagono, gestito allora dal disinvolto ministro Donald Rumsfeld, che stava conducendo la guerra e aveva già approvato informalmente la pratica della tortura, Bush aveva infatti affidato, senza scrupolo anche l'incarico della ricostruzione. L'ordine era di sospendere sia la legge irachena, sia quella americana.

In questo modo gli investitori hanno potuto godere di una immunità tale da traformare l'Iraq in una «zona di libera frode», in cui milioni di dollari in contanti sono stati consegnati a truffatori per opere mai portate a termine.

La stampa occidentale, compresa quella liberal nordamericana (era l'epoca dei giornalisti uccisi a Baghdad o a Falluja dal «fuoco amico») che, nell'occasione, come mi disse Noam Chomsky, aveva abdicato alla sua storia, non ebbe il coraggio e la dignità di denunciare quello scempio. Paura o cinismo? Forse solo opportunismo.

Silenzi interessati
Certo, ora che la realtà viene a galla, così meschina, così feroce, è sconcertante scoprire che, salvo alcuni casi, l'atteggiamento dell'informazione non è cambiata. Ignorare, eludere, queste notizie continua a essere la linea dei media occidentali, specie in Italia dove è passato sotto silenzio perfino l'inquietante lavoro di lobby che il presidente Bush nell'estate del 2006 fece con i senatori repubblicani McCain, Warner, Graham e Collins, compagni di partito che, assaliti evidentemente da un sussulto di coscienza, si opponevano all'approvazione della legge che avrebbe autorizzato la tortura, ora subito sospesa da Barack Obama.

Una storiaccia senza morale che avrebbe meritato, allora come adesso, uno straccio di editoriale, due righe di commento, delle penne democratiche del nostro paese o della satolla Europa. Ma la latitanza morale dei più prestigiosi editorialisti e commentatori tv diventa ancor più colpevole quando, meno di una settimana dopo, è arrivata la notizia che Bush Jr. aveva trovato un accordo con i senatori «ribelli». Ribelli a che cosa? Al cinismo e all'ipocrisia della nazione guida delle democrazie occidentali?

Eppure le conclusioni preliminari dell'inchiesta amministrativa in corso sono esplicite: «L'intero progetto di ricostruzione in Iraq è stato un pieno fallimento. Si è passati da una guerra lampo all'idea di mettere insieme uno stato dalle fondamenta, senza avere un progetto degno di questo nome alle spalle. La Coalition Provisional Authority ha dato prova di cattiva gestione, di assoluta mancanza di controllo, spalancando le porte ad ogni tipo di attività criminale».

Sono parole che mi fanno venire in mente il bellissimo documentario Ma dove sono finiti i soldi del giovane medico e giornalista iracheno Ali Fadhil, trasmesso all'epoca alle undici di sera a "C'era una volta", il programma di Rai Tre di Silvestro Montanaro, dove si vedevano i marines durante le operazioni di scarico di un aereo in Iraq prendere a calci, come se giocassero a football, i sacchi di dollari inviati per la «ricostruzione».

Norma Rangeri, nella rubrica sui programmi televisivi che tiene sul manifesto, si domandò giustamente perché nemmeno una di quelle immagini fosse stata mostrata in un telegiornale e, aggiungo io, nemmeno nei programmi di Vespa, Ferrara, Mentana, Santoro, Floris e Piroso.

Purtroppo i giornalisti liberali o riformisti, come si dice ora, sono in Italia, tendenzialmente, distratti o servili. Non provano nemmeno il disagio che Barack Obama ha espresso già il giorno successivo al suo insediamento, quando ha deciso di chiudere il lager di Guantanamo, fermare le commissioni militari, veri illegali tribunali speciali che vi agivano e mettere al bando l'uso della tortura da parte della Cia. Insomma, tentando di smontare alcuni dei passaggi più inquietanti della politica di Bush Jr. Anzi al Corriere ultimamente non nascondono la loro antipatia per le scelte di Obama. Da noi gli otto anni nefasti di W., che Oliver Stone, il regista di Platoon, Nato il 4 luglio e JFK, ha accusato pubblicamente di «aver infranto ogni limite morale», hanno trovato eco solo recentemente nella rubrica del critico televisivo del Corriere della Sera.

Aldo Grasso si è offeso perché Miguel d'Escoto, antico combattente per i diritti dei più poveri e degli esclusi, prete sospeso a divinis dal Vaticano, aveva accettato l'incarico di ministro degli esteri dell'esausto Nicaragua sandinista, scampato alla guerra sporca dei contras, le milizie del dittatore Somoza, sostenute dal presidente Usa Ronald Reagan, si era augurato, in un collegamento con il Festival di Sanremo, di poter superare l'isolazionismo che aveva caratterizzato la politica nordamericana negli anni della presidenza di Bush Jr.

D'Escoto parlava da New York come presidente (eletto per il suo prestigio internazionale) della 63a sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, estemporaneamente intervistato da Paolo Bonolis in una di quelle iniziative spericolate della tv generalista, quando vuole dare prestigio a un programma nazionale e popolare.

Aveva affermato d'Escoto: «O ci amiamo o affondiamo tutti (...) Cogliamo, con l'aiuto della musica l'occasione di rinnovare lo spirito per lottare tutti insieme per un mondo migliore», accenando alla speranza di superare l'atteggiamento non collaborativo dell'America di Bush nei riguardi delle Nazioni unite.

Ma tanto era bastato al critico del Corriere per sollecitare addirittura le alte cariche dello Stato italiano a chiedere scusa agli Stati uniti.

Scusa di che, Aldo Grasso? Se è vero, come è vero, che d'Escoto ha affermato una verità inconfutabile, specie per un cittadino di un paese latinoamericano, massacrato dalla «guerra sporca» benedetta trenta anni fa da Ronald Reagan?
Questa purtroppo è la nostra informazione. Tutte le notizie non gradite agli Stati Uniti, o che sottolineano una loro sconfitta materiale e morale, vengono eluse, evitate, respinte, quasi fosse il pedaggio da pagare ancora ai vincitori della seconda guerra mondiale, per antonomasia indiscutibili, democratici e liberatori.

Invece, le «gesta» dei nordamericani, nell'ultimo mezzo secolo, sono state spesso anche scorrette, egoiste, poco eroiche. Dalla guerra in Vietnam, per di più persa miseramente, al crudele Plan Condor, voluto dal presidente Nixon e dal segretaio di stato Kissinger per coordinare fra loro le dittature militari latinoamericane degli anni '70, e aiutarli ad annientare tutte le opposizioni progressiste del continente, fino alla guerra in Iraq.

Quando si verificano eventi così inquietanti c'è, in Italia, una sorta di consegna del silenzio, una fuga dalla realtà.

Per capire con quale superficialità vengono spesso decisi i nostri destini c'è voluta, per esempio, la testardaggine di Oliver Stone, un vecchio cacciatore di documenti inoppugnabili, che diventano sceneggiature di indimenticabili film di denucnia. Questa volta, raccontando nel film W., le «imprese» del Presidente degli Stati uniti negli anni in cui è crollato anche il muro del capitalismo, si può permettere perfino il lusso di essere magnanimo e di leggere il catastrofico bilancio del suo governo come la frustrazione di un piccolo uomo schiacciato dalla figura del padre, che fu direttore della Cia, vice presidente di Reagan e poi, a sua volta, presidente.

Tutto questo però senza dimenticare di sottolineare la follia di una politica avida, corrotta e guerresca, che solo la malafede della nostra informazione ha continuato pervicacemente a ignorare.

domenica 8 marzo 2009

L’arte di comunicare così nuova e così antica

estraggo da
http://www.gandalf.it/arianna/artcom.htm

...
Quella che sto cercando di dire è una cosa molto semplice, anche se spesso dimenticata. Comunicano le persone, non gli strumenti. Le tecnologie possono essere affascinanti. Se e quando funzionano bene – e sono usate con criterio – possono essere molto utili. Ma la risorsa fondamentale della comunicazione è una: la nostra umana capacità di ascoltare e di farci capire.

mercoledì 4 marzo 2009

Yunus: «Contro la crisi serve il social business»

http://www.liberazione.it/ pag. 2

Valerio Venturi
Milano
Muhammad Yunus, il "banchiere dei poveri", è venuto nella capitale della finanza nostrana per spiegare agli italiani qual è l'antidoto alla crisi economica. La cosa curiosa è che il premio Nobel per la Pace 2006, inventore del social business, dice che solo l'etica ci può salvare dall'abisso. Ideatore di un sistema di piccoli prestiti destinati ad imprenditori poveri per ottenere denari dai circuiti bancari tradizionali, Yunus si dedica anima'e'core alla Grameen Bank, di cui è direttore dall'83. Alla fondazione Cariplo, che lo ospita, è applauditissimo.

Per quale motivo ha inventato il microcredito?
Ho avuto l'impressione che ci fosse qualcosa, nel sistema generale, che non andasse bene; ben prima della crisi economica. Continuo a fare quello che ho cominciato a fare 33 anni fa, quando ero all'università e chiesi alle banche del mio villaggio di prestare soldi ai poveri. Mi dissero che non si poteva fare perchè sono insolvibili. Per me non aveva senso.
...E così ha fondato la Grameen Bank.
Siccome una banca come volevo io non c'era, l'ho fatta. Ha funzionato. Mi dicevano: «se vai avanti crollerà tutto». Invece di passi ne ho fatti molti e la Grameen ha funzionato. Questo perchè non conoscevo le attività bancarie. Il mio pensiero era fresco, slegato da regole e idee; se avesi fatto un corso, per dire, non sarei riuscito nel mio obiettivo. Ho usato il buonsenso, facendo cose semplici. La nostra banca appartiene ai beneficiari del credito, non ai ricchi, e quindi fa tutto il contrario delle banche convenzionali. La nostra è dei poveri e delle donne: 8 milioni di persone in Bangladesh sono state aiutate, più di 100 milioni di $ al mese sono dati in prestito.

L'attuale crisi economica colpirà anche la Graamen Bank?
Non abbiamo problemi per una ragione semplice: siamo vicini all' economia reale. Se prestiamo 100 dollari, ci sono animali, frutta, beni che fanno garanzia..Conta qualsiasi cosa abbia valore. Non c'è niente che si basa su carta che rincorre carta, speculazioni; niente che appartiene ad un mondo estraneo. Noi siamo terra terra e non rischiamo perchè viviamo nel mondo reale. Detto ciò: chi soffrirà sul serio, per la crisi? I poveri, ovvero la metà della popolazione: perderanno tutto. Il paradosso è che i degenti sono le vittime ultime; non hanno creato la crisi, che è nata semmai in un solo paese, ma saranno puniti.

Il sistema è colpevole. Ma cosa intende per "sistema"?
I concetti, le istituzioni, le politiche. L'istituto della finanza, fatto di componenti settarie. Solo 1/3 della popolazione mondiale fa ricorso alle banche convenzionali, gli altri vivono come se non esistessero. Quando l'economia non riesce ad avere finanziamenti dagli istituti di credito, il sistema fallisce: la banca non dà, se non ha. Ma questo come può coinvolgere chi non ha mai avuto rapporti con una di esse?

Quale la filosofia di fondo del microcredito?
Alla base c'è un altro concetto di essere umano, cui corrisponde un altro mondo possibile. La massimizzazione del profitto si basa sul fatto che gli umani sono egoisti. Si può accettare; ma abbiamo anche un altruismo a volte più forte. E' in tutti gli esseri umani e non si può rinnegare. Partiamo da qui. Perchè dobbiamo lasciare l'economia, scienza sociale, se la si puo' usare per il bene? Posso fare carità, ma con il microcredito apro alla prospettiva di un cambiamento. Fare i soldi diventa un mezzo. Se si nega questo concetto, tutto rimarrà uguale.

Chi vuole fare business per gli altri?
Non tutti, ma la gente è più folle di quello che si crede. Si tratta di usare il denaro per rendere felici le persone. Molti bangladesi con il microcredito sono usciti dall'analfabetismo. Quelli che chiedevano soldi hanno mandano i figli a scuola. Sono diventati docenti, ingenieri, medici... Generazioni nuove che hanno capacità professionali incredibili, libere dalla povertà e autonome. Tutto questo è nato dalla banca. La realtà è che se c'è supporto cambia tutto. La povertà è creata dal sistema che abbiamo costruito; se una piccolo gesto può cambiare l'esistenza, come biasimare i poveri perchè sono poveri? Loro sono come i bonsai: il seme è quello di un albero altissimo che in un vaso da fiori non cresce. ...Non abbiamo dato spazio sufficiente a certe persone. Ma il potenziale del seme è sempre lo stesso. I degenti, solo, non sono sul terreno "vero".

Le aziende vogliono profitti.
Ma le aziende sono fatte di uomini come noi. Occorre aprirsi a nuova attitudine. Se introduciamo il social business nel sistema, la crisi non tornerà. Dobbiamo chiedere, porre le domande giuste che provocano cose, per fare in modo che ogni generazione costruisca un mondo migliore e più bello. Magari un giorno si creeranno i musei della povertà; perchè nessuno saprà più che cos'è.


03/03/2009

martedì 3 marzo 2009

USA, OGGI OBAMA ANNUNCIA IL RITIRO DALL'IRAQ

http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=obama

lunedì 2 marzo 2009

Fallimento strategico

http://www.economiaepolitica.it/index.php/editoriale/fallimento-strategico/

Luigi Cavallaro e Riccardo Realfonzo - 18 Febbraio 2009

Le dimissioni di Walter Veltroni da segretario del Partito democratico hanno un significato eminentemente politico, ma segnano anche un punto di svolta nella contesa tra paradigmi alternativi di politica economica. Esse ratificano infatti un percorso fallimentare che sarebbe ingeneroso attribuire alla sola volontà del segretario dimissionario, ma che questi ha comunque perseguito con tenacia: la rescissione di ogni legame fra gli eredi del Partito comunista italiano e quella tradizione, che potremmo definire “solidaristico-keynesiana”, che aveva ispirato la redazione delle norme fondamentali della nostra “costituzione economica”.

Quali esse siano è ben noto. L’art. 41 Cost., che – dopo aver affermato che l’iniziativa economica è libera – stabilisce che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da ledere la sicurezza, la libertà e la dignità umana e demanda alla legge il compito di definire i “piani e programmi” opportuni perché l’iniziativa pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. L’art. 42, che enuncia il diritto di proprietà solo per attribuirgli una funzione sociale e disciplinarla in modo da renderla accessibile a tutti. L’art. 43, che riserva alla proprietà pubblica (ed eventualmente a “comunità di lavoratori”) la produzione e distribuzione di servizi pubblici essenziali o di beni in regime di monopolio naturale o che abbiano preminente interesse generale. L’art. 44, che disciplina la proprietà terriera prevedendo obblighi e vincoli che assicurino equi rapporti sociali.

Ma si debbono aggiungere (e approssimando comunque per difetto) l’art. 36, che assicura al lavoratore una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente a garantire a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa; l’art. 37, che garantisce piena equiparazione fra uomo e donna anche sul lavoro (non senza precisare che il raggiungimento dell’eguaglianza richiede una legislazione di favore per le donne); l’art. 38, che garantisce che siano provveduti i mezzi a chi si trova nell’impossibilità di lavorare per infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria; e certamente l’art. 39, che istituisce il contratto collettivo nazionale come forma principe per la determinazione della “giusta retribuzione”.

Ebbene, ripercorrendo a ritroso le scelte di politica economica sostenute dalla maggioranza di coloro che del Partito democratico sono stati ispiratori (ossia i superstiti dell’ala cattolico-sociale della Democrazia cristiana e i liquidatori del Partito comunista italiano) è agevole verificare come siano state tutte di segno opposto rispetto al quadro delineato dalla nostra Costituzione. L’adesione acritica – talora perfino ridicola – a tutti i dettami dell’ortodossia economica di ispirazione neoclassica e di segno politico monetarista ha fatto sì che, durante le loro esperienze di governo (incluse quelle immediatamente successive al terremoto politico del 1992), essi hanno provveduto a privatizzare il patrimonio industriale, bancario e produttivo pubblico, depotenziare fino a svilirlo il contratto nazionale di lavoro, comprimere l’area di applicazione della legislazione a tutela del lavoro, abbattere la garanzia pubblica per le pensioni, liberalizzare i prezzi dei mercati immobiliare e mobiliare, imbrigliare entro rigidi paletti quantitativi e “federalisti” le leve collettive della politica fiscale e di bilancio e ridurre consequenzialmente il lavoro pubblico ad un’area di nullafacenti (poco) privilegiati – quasi mai per cattiveria loro, beninteso, ma spesso semplicemente per mancanza di mezzi con cui lavorare. E dall’opposizione, essi hanno contestato i governi in carica solo perché (ed in quanto) non facevano altrettanto.

I risultati di questo lavoro ultradecennale, certificati dalla perdita secca dei salari sul piano distributivo e dal correlativo innalzamento delle quote appropriate dalla rendita (specie finanziaria e immobiliare) e dai profitti, hanno progressivamente eroso il bacino di consenso dell’Ulivo, poi dell’Unione e ora del Partito democratico, fino a ridurlo all’attuale lumicino. Mentre il “bisogno di comunità” indotto dalla feroce dinamica che un mercato concorrenziale assume in una periferia capitalistica, quale indubbiamente è il nostro Paese, ha aperto spazi prima inimmaginabili al voto a destra: un voto pesantemente segnato da Dio, Patria e Famiglia, ma che ai lavoratori, sommersi e non, appare ormai senz’altro preferibile rispetto allo stolido inno alle magnifiche sorti e progressive del capitalismo concorrenziale, al quale credono ormai soltanto gli ultimi giapponesi de lavoce.info.

E’ comprensibile che dal Popolo delle Libertà si levi commosso l’onore delle armi per il segretario dimissionario: nessuno come il capo dell’attuale classe dirigente del Partito democratico ha fatto così tanto per assicurare all’avversario una vittoria così durevole. Altra questione è se quel partito potrà risollevarsi dopo una bancarotta materiale e ideale così pesante: si tratta al momento di una scommessa così aleatoria che si farebbe fatica a trovare un buon credit default swap.

Un supermoltiplicatore degli investimenti pubblici

http://www.economiaepolitica.it/index.php/mercati-competizione-e-monopoli/economie-ad-alta-intensita-di-conoscenza-un-supermoltiplicatore-degli-investimenti-pubblici/

Ugo Pagano* - 10 Febbraio 2009

Un lungo periodo di dominio ideologico neo-liberista sta volgendo al termine. Si è trattato di un’ambigua egemonia culturale: in essa sono state incluse cose, come la difesa dei diritti di proprietà (ovvero i monopoli) intellettuali o il lasciar fare all’autoregolamentazione dei gruppi d’interesse, che poco hanno a che fare con il liberismo classico senza “nei”. Sfortunatamente, non è tanto la fine di un’inerzia intellettuale accademica ma una difficile crisi economica che spazza via questa confusa costruzione ideologica che spesso aveva identificato negli USA la sua terra promessa mentre questi portavano avanti politiche (incoscientemente e inconsciamente) keynesiane motivate, fra l’altro, dalla guerra e da un traballante consenso politico.
“Vecchie teorie” (considerate fino a un paio di mesi fa dei paria accademici, o al più dei gingilli interessanti solo per gli storici del pensiero) sembrano offrire il principale quadro intellettuale di riferimento per le politiche di comprensione e di contrasto della crisi. Indubbiamente, esse offrono un’utile base per ridare un ruolo interpretativo e propositivo alla nostra disciplina che in anni recenti ha concentrato la sua attenzione quasi esclusivamente sulle situazioni di equilibrio di mercato come se esse fossero lo stato naturale dell’economia, non un possibile momento di quiete di un complesso processo dinamico. Nella presente situazione di crisi, in cui le politiche di sostegno alla domanda non possono più essere inconsce o incoscienti, le vecchie teorie keynesiane offrono un quadro che permette di comprendere in modo più adeguato sia quanto è successo nell’ultimo decennio, sia i problemi che occorre urgentemente affrontare.
Anche se parte del quadro teorico di riferimento viene dai lontani anni trenta, nel suggerire delle politiche anti-crisi non si dovrebbe ignorare quanto sia cambiata frattanto l’economia reale. A quel tempo, l’attenzione delle politiche orientate a stimolare la domanda aggregata era rivolta principalmente alle infrastrutture tradizionali: ponti, strade, ecc.. Difficilmente le politiche di sostegno alla domanda aggregata possono avere successo se non si tiene conto del fatto che, nelle moderne economie ad alta intensità di conoscenza, la composizione dei settori produttivi e dell’occupazione è ormai molto diversa.
Le politiche anti-crisi dovrebbero sfruttare le nuove opportunità che le economie contemporanee offrono a misure di tipo keynesiano. Esse dovrebbero accettare che non tutte le buche che si scavano sono egualmente utili per stimolare l’economia e che qualcuna di esse può, talvolta, diventare una voragine che forma un buco nero da cui può diventare difficile riemergere. La “policy” proposta nei paragrafi seguenti non pretende di essere l’unica e nemmeno la più importante per affrontare la crisi. Essa vorrebbe, invece, costituire un esempio utile per mostrare che una politica di sostegno alla domanda aggregata può essere più efficace, e in senso keynesiano supermoltiplicativa, se tiene anche conto delle dinamiche microeconomiche di una società contemporanea.
Le moderne economie ad alta intensità di conoscenza sono ormai anche caratterizzate da una quota senza precedenti di conoscenza posseduta privatamente (o, in altre parole, di diritti di monopolio in forma di brevetti, copyright ecc.). Mentre le istituzioni globali (il WTO e i relativi accordi TRIPs) hanno reso più redditizia la proprietà intellettuale privata, nessuna istituzione globale ha contribuito ad aumentare la convenienza della proprietà intellettuale pubblica. Le istituzioni correnti (e ancor più quelle assenti) dell’economia globale hanno reso conveniente un eccesso di privatizzazione e di monopolizzazione dell’economia attraverso una rete intensiva di diritti di proprietà intellettuale (Intellectual Property Rights, IPR). Le lobby nazionali e internazionali non hanno poi mancato di sommare a questi perversi incentivi le loro motivazioni intrinseche, da sempre orientate ad acquisire posizioni di monopolio.
I diritti di proprietà intellettuale possono essere causa di stagnazione economica. I prezzi di monopolio restringono la produzione. La corsa ad acquisire monopoli può inizialmente stimolare gli investimenti ma, dopo un po’, lo stimolo è progressivamente compensato dalla paura che l’uso di nuova conoscenza possa essere bloccato da monopoli esistenti su conoscenze complementari pregresse (la cosiddetta tragedia degli anticommons). Inoltre, gli IPR hanno effetti asimmetrici su paesi ricchi e paesi poveri. Mentre i paesi in via di sviluppo esportano i loro beni in condizioni concorrenziali, molte imprese dei paesi del primo mondo possono vendere beni ad alto contenuto di conoscenza sotto lo scudo protettivo degli IPR. Nonostante siano presentati come un ingrediente necessario per il libero commercio, gli IPR offrono una protezione più forte della più elevata tariffa protezionistica. Garantiscono una protezione totale non solo nel mercato domestico ma anche in ogni altro mercato nel mondo. Analogamente a tariffe doganali e altre forme di protezionismo, possono solo contribuire a peggiorare la crisi economica.
Anche se la crisi è partita nel settore finanziario, è probabile che le istituzioni in essere nella produzione della conoscenza possano contribuire a generare una stagnazione prolungata. Allo stesso tempo, le economie ad alta intensità di conoscenza offrono grandi opportunità per politiche keynesiane efficaci. Invece di essere utilizzate per nazionalizzare in modo inefficiente le imprese che producono beni privati o foraggiare senza limiti quelli che sono stati i principali responsabili dell’accaduto (che non stanno peraltro restituendo in termini di aumentata liquidità il foraggio ricevuto), le politiche keynesiane potrebbero essere usate per diminuire il grado di monopolizzazione della conoscenza e trasferire in modo efficiente la proprietà intellettuale dalla sfera privata a quella pubblica. Il WTO, che ha contribuito a rendere più conveniente la proprietà intellettuale privata, dovrebbe essere bilanciato dall’istituzione di un ricco e autorevole WRO (World Research Organization) che renda possibile una proprietà intellettuale pubblica laddove essa può meglio contribuire allo sviluppo globale. E’ giunto il momento di accettare anche a livello politico che la conoscenza è un bene “non-rivale” o, meglio “anti-rivale”, che dovrebbe essere trattato come la più preziosa e specifica risorsa collettiva dell’umanità. Per usare la sempre vivida immagine di Jefferson, la conoscenza è come la fiamma di una candela: accendere un’altra candela non diminuisce la fiamma delle candele già accese. Al contrario, consentire ad altri di contribuire al fuoco della conoscenza ha l’effetto di accrescere la luminosità di ogni singola candela!
Le misure anti-crisi dovrebbero includere il finanziamento delle infrastrutture pubbliche di ricerca. Questo finanziamento dovrebbe essere coordinato a livello sovranazionale per evitare problemi di free-riding tra paesi, che al momento stanno restringendo lo sviluppo degli investimenti in ricerca pubblica. Inoltre, cosa ancora più importante nella crisi presente, il finanziamento può prendere immediatamente la forma di un’acquisizione pubblica di diritti di proprietà intellettuale posseduti dalle imprese private e fungere sia da sostegno alla domanda sia da stimolo a un aumento di efficienza dei mercati. L’effetto di queste politiche andrebbe ben oltre quanto ci si può attendere da molte delle altre misure proposte per fare fronte alla crisi.
In primo luogo, l’acquisizione proposta non comporta la nazionalizzazione dell’impresa o l’uso di denaro dei contribuenti senza contropartita. Al contrario, l’IPR è pagato a un prezzo corrispondente al suo valore privato ma viene trasferito all’arena pubblica dove ha un valore molto maggiore e può ridurre i costi di produzione di molti produttori. Solo un monopolista in grado di discriminare perfettamente fra i consumatori (che è ovviamente solo un’utile astrazione teorica) potrebbe ottenere dalla sua proprietà intellettuale un beneficio privato pari a quello sociale che si otterrebbe quando essa fosse messa gratuitamente a disposizione di tutti i concorrenti. Inoltre, i diritti di proprietà intellettuale sono al momento sottovalutati (insieme ai valori azionari delle imprese che li detengono) e questo rende possibile pattuire dei prezzi molto vantaggiosi sia per il venditore monopolista sia per la comunità che acquista il diritto di proprietà intellettuale.
In secondo luogo, si garantisce sostegno finanziario a quelle imprese che si sono mostrate più innovative. Un forte stimolo per nuovi investimenti viene, così, dato su due fronti alle imprese che vendono alla comunità i loro diritti monopolistici. Da una parte tali imprese ricevono nuovi fondi, dall’altra, avendo venduto loro diritti di proprietà intellettuale, affrontano una competizione nettamente più dura. Pertanto, esse avranno sia i mezzi finanziari sia un forte incentivo, dovuto alla pressione della concorrenza, a investire in innovazione stimolando così la domanda aggregata. Tutta la catena del processo innovativo sarebbe così accelerata con conseguenze benefiche per la crescita dell’economia e l’efficienza delle singole imprese. Per esempio, nel settore farmaceutico, le ditte alla frontiera del processo innovativo metterebbero subito in produzione dei nuovi prodotti, mentre altri produttori potrebbero iniziare a produrre dei farmaci divenuti generici dopo l’acquisto pubblico dei diritti di proprietà intellettuale.
In terzo luogo, un prezzo di monopolio viene sostituito da un più basso prezzo concorrenziale. Anche questo ha un effetto positivo sulla domanda aggregata, non inferiore a quello che si avrebbe con altri provvedimenti tesi ad abbassare i costi di produzione come, per esempio, degli sgravi fiscali.
Infine, viene alleviato il problema degli “anti-commons” di cui si diceva; ciascuna impresa può ora investire in nuova conoscenza con la consapevolezza che è meno probabile che la conoscenza pregressa (complementare e necessaria per beneficiare dell’innovazione) sia posseduta e monopolizzata da altre imprese. La politica suggerita diminuisce il costo del rischio delle transazioni future necessarie a utilizzare i frutti dell’attività innovativa. Dunque, se da una parte dei fondi vengono immediatamente acquisiti dalle imprese che sono state più innovative in passato (che spesso appartengono ai paesi più ricchi), dall’altra l’aumento della conoscenza liberamente disponibile per tutti ha effetti diffusi e contribuisce allo sviluppo complessivo dell’economia mondiale. Per di più, in tutti i paesi indipendentemente dal loro grado di sviluppo, gli imprenditori dovrebbero superare un numero minore di barriere monopolistico-proprietarie per fare investimenti innovativi preziosi per la stagnante economia mondiale.
Gli effetti moltiplicativi che abbiamo indicato vanno ben oltre quelli tradizionalmente associati alle canoniche politiche keynesiane; gli effetti totali sono più forti sia sul lato domanda che in termini di aumento di efficienza dell’economia. In un’economia ad alta intensità di conoscenza é possibile far funzionare un “super-moltiplicatore” degli investimenti pubblici. Ai tradizionali effetti moltiplicativi che hanno questi investimenti in tempi di depressione economica si potrebbero sommare quelli che ha la conoscenza umana quando il suo uso non é artificialmente limitato dal monopolio intellettuale.

A sinistra della crisi

http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/a-sinistra-della-crisi/

Sergio Cesaratto - 26 Febbraio 2009

Fra gli economisti di orientamento critico vi è ormai un certo consenso sulle dinamiche che hanno caratterizzato il capitalismo mondiale in anni recenti e che hanno condotto alla crisi in corso[1]. In questa nota si riassume per sommi capi tale interpretazione e si indicano alcune prospettive future.

1. Siamo tutti keynesiani, ma qualcuno di più
Oggi tutti invocano Keynes (o Minsky), ma da sempre gli economisti meno conformisti utilizzano Keynes (e Kalecki) per spiegare le dinamiche del capitalismo. Al centro di questa interpretazione vi è l’idea che l’economia di mercato cresca, nel breve come nel lungo periodo, guidata dalla crescita della domanda aggregata per beni e servizi. Questa consiste di domanda per beni di consumo, investimenti e spesa pubblica. Per un singolo paese essa consiste anche di esportazioni (mentre le importazioni sono una sottrazione alla domanda per i propri beni). Finché non esporteremo su Marte, l’economia-mondo è come se fosse un singolo paese per cui domanda e crescita sono guidate dalle sole prime tre voci. Siccome gli investimenti dipendono a loro volta dalla domanda attesa (gli imprenditori investono sulla base di quanto si attendono di vendere), le fonti ultime della domanda sono consumi e spesa pubblica. Il capitalismo gira se li foraggia dotando di liquidità consumatori e stati[2].

Negli anni più recenti gli Stati Uniti hanno costituito il motore ultimo che ha generato domanda e crescita globale. I consumi degli americani sono stati, in particolare, il motore di questo processo. I consumi dei lavoratori americani (incluso il ceto medio) hanno però sofferto, come altrove, dei mutamenti a loro sfavorevoli nella distribuzione del reddito. Ciò è stato tuttavia più che compensato dall’azzeramento della propensione al risparmio (cioè dalla quota di reddito che viene risparmiata invece che spesa per consumi) e dall’ampio foraggiamento ai consumi che è provenuto dal credito al consumo, inclusi i mutui immobiliari, oltre che dall’”effetto ricchezza”[3] dovuto all’aumento dei valori mobiliari, prima, e immobiliari, poi. In ambedue i modi i lavoratori americani hanno cercato di mantenere o migliorare gli standard di vita acquisiti[4]. Il capitalismo americano ha dal suo punto di vista potuto compensare in tal modo la caduta dei consumi conseguenza della peggiorata distribuzione del reddito e assicurare la piena occupazione in una società priva di ammortizzatori sociali. La memoria degli elevati tassi di disoccupazione sperimentati negli anni ’80, oltre che i cospicui flussi migratori dal Messico, hanno tenuto a bada il conflitto distributivo. Bellofiore e Halevi hanno efficacemente sintetizzato il modello come quello del lavoratore terrorizzato e indebitato[5].
La stabile crescita dell’economia americana, in anni noti ora come quelli della “grande moderazione”, ha determinato un crescente disavanzo commerciale soprattutto con i paesi del sud-est asiatico. Le importazioni di prodotti di largo consumo a basso prezzo dall’Asia (modello Wall Mart) hanno contribuito a loro volta, assieme al credito al consumo, a mantenere tollerabile il peggioramento della distribuzione del reddito negli Usa.

2. Le “global imbalances”
Molti paesi asiatici, Cina in testa, hanno dunque visto crescere i loro avanzi commerciali con gli Usa. Per impedire un rivalutazione del proprio cambio che avrebbe nuociuto alle loro esportazioni, base della loro crescita, essi hanno volentieri reinvestito i crediti accumulati in buoni del Tesoro americani finanziando in tal modo il disavanzo estero americano. Europa e Giappone non hanno partecipato se non marginalmente al festino in seguito alla depressa domanda interna, per scelta e disgrazia, rispettivamente[6]. Se ne è avvantaggiata però la Germania (ma pure il Giappone) che esporta beni capitali in Asia conseguendo forti attivi commerciali. Questo modello è stato suggestivamente, se non del tutto appropriatamente, denominato Bretton Woods II[7]. Esso si basa sul patto scellerato fra paesi dell’est asiatico e Usa: i primi pronti a sostenere il debito estero americano purché questi continuino ad acquistare le loro merci e consentano loro un cambio competitivo.
Si vede dunque come il modello di crescita Usa basato sull’indebitamento delle famiglie di lavoratori americani sia diventato la base del funzionamento dell’intera economia mondiale. E’ la creazione di potere d’acquisto da parte del sistema finanziario Usa la fonte ultima della domanda mondiale, mentre l’”esorbitante privilegio” di emettere la principale moneta di riserva internazionale fa in modo che la liquidità creata sia tranquillamente accettata in pagamento anche all’estero. E’ questo modello che è ora entrato in crisi. Dei suoi due aspetti, l’indebitamento interno delle famiglie Usa e quello esterno, l’indebitamento verso i paesi asiatici, è saltato il primo, e piuttosto inaspettatamente in quanto le più rinomate cassandre internazionali, come il famoso Roubini, pronosticavano che sarebbe stato il secondo a saltare col crollo verticale del dollaro[8].
Siccome fa tuttavia comodo dare la colpa agli altri, con una acrobatica inversione di cause ed effetti l’interpretazione dominate dovuta al presidente della Fed Bernanke, e prontamente sottoscritta da Alesina e Giavazzi, addebita la responsabilità degli squilibri all’eccesso di risparmio dei paesi asiatici (il “saving glut”)[9]: tale risparmio avrebbe trovato utilizzazione nei prestiti alle famiglie americane, certo andati un po’ oltre la normale prudenza. Questa interpretazione di chiaro stampo neoclassico trascura che i risparmi asiatici si sono formati come conseguenza dell’aumento di reddito in quei paesi dovuta al trascinamento della domanda Usa. La capacità di credito alle famiglie del sistema finanziario americano è infatti del tutto indipendente dai risparmi asiatici, come insegna la teoria della moneta endogena condivisa nei suoi tratti più generali dagli economisti meno conformisti.

3. Cosa è andato storto
I fatti recenti sono ormai a tutti noti nei loro tratti salienti: è saltato l’anello più debole del debito delle famiglie americane, i mutui immobiliari concessi nella totale assenza di garanzie di restituzione e di consapevolezza dei mutuatari di ciò che sottoscrivevano. Questi mutui venivano rimpacchettati e venduti ad altri istituti finanziari con l’idea che, in tal modo, il rischio si spargesse su una pluralità di soggetti diventando così inoffensivo. Finché il prezzo delle case cresceva tutti erano soddisfatti. Se per esempio i mutuatari non erano in grado di pagare il sistema gli riaccendeva un altro mutuo di più alto valore, sì da restituire il vecchio con tanto di interessi. Con l’aumento progressivo dei tassi di interesse da parete della Fed a cominciare dal 2004 e l’inizio del calo del prezzo delle case il sistema ha cominciato a scricchiolare con un effetto domino che, attraverso lunghi mesi, si è prima trasmesso all’insieme dell’economia finanziaria e successivamente all’economia reale.
E’ così entrato in difficoltà anche l’altro pezzo del modello, il modello export-led della Cina che vede le proprie aspettative di crescita scemare, il che non è proprio salutare per un paese in cui si affacciano ogni anno nel mercato del lavoro decine di milioni di giovani, di cui molti laureati, per non pensare alle centinaia di milioni di contadini non ancora beneficiati dalla crescita. Non è tuttavia ancora crollata la fiducia cinese nel dollaro, che in questa tempesta ha visto addirittura accresciuto il proprio valore mentre le autorità cinesi non hanno certo intenzione alcuna, ora, di proseguire nella lenta rivalutazione dello Yuan. Questo potrebbe tuttavia non continuare a essere ben visto dagli Usa come dimostrano le prime prese di posizione dello staff di Obama. Dove abbia condotto la logica delle svalutazioni competitive ben sappiamo dalla crisi degli anni trenta.

4. Cosa si può raddrizzare
L’esperienza recente nei paesi avanzati, in particolare negli Usa, mostra come il sostegno alla domanda aggregata che deriva dall’indebitamento privato sia assai più fragile di quella basata sull’indebitamento pubblico[10]. Diffuso appare ora il ricorso a misure keynesiane di spesa pubblica, in genere ritenute più efficaci dei tagli fiscali. A destra si paventa da parte di molti il pericolo che finita la crisi il debito pubblico accumulato faccia aumentare i tassi di interesse diventando esso stesso un fattore di recessione. A sinistra ci si domanda se la crisi corrente dimostri che il capitalismo è profondamente irriformabile tagliando l’erba sotto ogni ipotesi riformista. Al primo problema si può rispondere che il livello dei tassi di interesse è in buona misura condizionato dalle banche centrali che lo utilizzano per tenere sotto controllo le dinamiche salariali, mentre il rapporto debito/Pil dipende non solo dall’ammontare del debito, che aumenta lentamente se i tassi di interesse si mantengono bassi, ma anche dalla crescita del Pil. Allora la prima questione ci rimanda alla seconda: è possibile disegnare un capitalismo che coniughi crescita e controllato conflitto sociale? In via di principio ci si potrebbe avvicinare a ciò attraverso un contratto sociale che assicuri una distribuzione diretta e indiretta (attraverso la spesa sociale) del reddito a favore delle classi lavoratrici e sostenga per questa via la domanda aggregata[11]. Diversa la questione della realizzabilità politica di tale assetto, difficilissima. Ciò non vuol dire però che la realizzabilità teorica non possa essere brandita come arma di lotta politica in particolare a fronte delle difficoltà che il capitalismo potrebbe avere a trovare altre vie d’uscita agli elevati tassi di disoccupazione prodotti dalla crisi.


[1] V. D.Cavalieri, Neoliberismo, interventismo, keynesismo, economiaepolitica, 19/1/09.
[2] Invero, anche le esportazioni finanziate dalla concessione di liquidità ai paesi importatori sono motore di crescita, come indicato da Rosa Luxemburg e Kalecki.
[3] Con questo termine si intende l’effetto positive sui consumi dovuto all’aumento delle attività finanziarie o immobiliari che si possiedono. Tale aumento può indurre la menzionata riduzione dei risparmi (si smette di risparmiare perché ci si sente più ricchi) e accrescere il “collaterale” a garanzia dei debiti accesi.
[4] V. A.Barba, M.Pivetti, Rising household debt: its causes and macroeconomic implications – along period analysis, Cambridge Journal of Economics, 33 (1), 2009; B.Z.Cynamon, S.M.Fazzari Household debt in the consumer age: source of growth – risk of collapse, Capitalism and Society, 3 (2), 2008.
[5] R.Bellofiore, J.Halevi, Tendenze del capitalismo contemporaneo, destrutturazione del lavoro e limiti del ‘keynesismo’. Per una critica della politica economica, in S.Cesaratto, R.Realfonzo (a cura di). Rive Gauche, Critica della Politica Economica, manifesto libri, Roma, 2006.
[6] V. S.Cesaratto, The sick fraulen of Europe, economiaepolitica, 9/12/08.
[7] Michael P. Dooley, David Folkerts-Landau, Peter Garber (September 2003). An Essay on the Revived Bretton Woods System. National Bureau of Economic Research (http://www.nber.org/), 2003.
[8] V. Nouriel Roubini, Brad Setser. Will the Bretton Woods 2 Regime Unravel Soon? The Risk of a Hard Landing in 2005-2006, 2-2005 (http://pages.stern.nyu.edu/~nroubini/papers/BW2-Unraveling-Roubini-Setser.pdf).
[9] V. B.S. Bernanke, The Global Saving Glut and the US Current Account Deficit, http://www.federalreserve.gov/; A.Alesina, F.Giavazzi, La crisi? Può la politica salvare il mondo, Il Saggiatore, 2008, pp.27-30; per una critica: C.P.Chandrasekhar, J.Gosh, The Myth of a Global Saving Glut, http://www.networkideas.org/
[10] Barba e Pivetti (cit.).
[11] L’esperienza di questa crisi mostra pure come i modelli di sviluppo export-led abbiano dei limiti nell’esistenza di importatori di ultima istanza. Come nota acutamente Nardozzi (Sole, 29/1/09), dal punto di vista degli squilibri globali, il sostegno ai salari diretti e indiretti in Cina consentirebbe a quel paese di crescere meno basandosi sulle esportazioni. Lo sviluppo dello stato sociale indurrebbe anche le famiglie cinesi a risparmiare di meno a scopo precauzionale.