domenica 30 novembre 2008

La Banda Baader-Meinhof

adesso mi guardo questo film

da www.ariannaeditrice.it

La pellicola a cui torna immediatamente la memoria, più che il celebrato Anni di piombo (1982) di Margaret Von Trotta, è il film collettivo Germania in autunno (1978), opera di registi come Fassbinder, Kluge e Schöndorff, riflessione, più che sullo scontro in atto, sul potere che vista l’impossibilità di contrastare militarmente una guerra che allora si definiva “rivoluzionaria” (e che oggi chiameremmo “asimmetrica”), decide la strada della terra bruciata. Non a caso il climax della pellicola è nelle parole del commissario Horst Herold (Bruno Ganz: uno dei più celebri attori tedeschi, grandissimo interprete di Hitler in La caduta): bisogna battere sull’acqua, così i pesci si muovono.
I pesci sono i giovani militanti della RAF, ovvero la Rote Armee Fraktion, “Frazione dell’Armata Rossa”, definita anche banda Baader-Meinhof dal nome dei due massimi capi, è il gruppo di militanti che dal 1967 in poi combatterono una battaglia internazionalista contro l’atlantismo e il capitalismo, sulla cui vicenda Stefan Aust ha scritto il libro Der Baader Meinhof Komplek, da cui Uli Edel e Bernd Echinger, anche produttore, con la sua consulenza hanno tratto appunto La banda Baader Meinhof, distribuito ora in Italia.
Edel è un regista noto soprattutto per il controverso Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (1981), che per anni ha lavorato soprattutto come regista televisivo, e Bernd Eichinger un produttore che segue ogni genere, dal ciclo di Resident Evil, a una pellicola di altro spessore politico e ideologico come La caduta-Gli ultimi giorni di Hitler (2006), che fece gridare allo scandalo benpensanti tedeschi e italiani per la supposta “riabilitazione” del dittatore tedesco. Il film prende avvio da un episodio, realmente avvenuto (è visibile anche in rete), durante la visita a Berlino dello shàh Rehza Palavi e della sua consorte nel giugno 1967; quando cioè militanti e studenti inscenarono una manifestazione contro il regime allora vigente in Iran (gestito, come sappiamo, dagli Stati Uniti attraverso il braccio armato della CIA), repressa dalle forze dell’ordine tedesche che prima lasciarono mano libera alla famigerata Savak, la polizia segreta iraniana, poi intervennero caricando i manifestanti, e lasciarono alla fine sul terreno lo studente Benno Ohnesorg, ucciso con un colpo di pistola. Una situazione che, assieme al tentato omicidio del leader studentesco Rudi Dutschke conclusosi con un grave ferimento, spinse fra le braccia della lotta armata molti di quelli che fino ad allora avevano pacificamente manifestato.
In centocinquanta minuti (aperti dalla voce di Janis Joplin e conclusi da quella di Bob Dylan) che neppure si avvertono, si dipana il corso di una storia durata quasi dieci anni, e prende forma la vita di tutti i militanti: Ulrike Meinhof (la bravissima Martina Gedeck, la ricordiamo in La vita degli altri), Andreas Baader (Moritz Bleibtreu) e la sua compagna Gudrun Ensslin (Johanna Wokalek), Petra Schelm (l’altrettanta brava Alexandra Maria Lara, segretaria di Hitler in La caduta, ma qui sacrificata in un ruolo marginale), Jan Raspe (Niels-Bruno Schmidt). Una storia complessa, racchiusa nella lotta all’infiltrazione americana nel sistema tedesco-occidentale di un pugno di giovani, che si consideravano eredi, a cominciare dal nome, dell’Armata Rossa; nello stesso tempo figli dell’epoca nazista che avversavano (la più vecchia, la Meinhof, era del 1934), ma di cui erano altrettanto eredi in termini di volontà e organizzazione; alleati con i movimenti di liberazione palestinesi, vietnamiti, irlandesi, più che con le masse operaie; giovani che scelsero la via della clandestinità e della lotta armata. Una storia che procede per grandi elissi temporali, necessarie a non appesantire il testo altrimenti infinito, e segnata da rapine per autofinanziamento, attentati ai giornali conservatori e alle basi americane in Germania, contatti con l’OLP e soggiorni nei i campi di addestramento palestinesi, agguati ed esecuzioni di magistrati e scorte, compreso l’attacco di Settembre Nero alla squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco; tutto scandito dai comunicati televisivi e da spezzoni dei telegiornali d’epoca, e dalle rivendicazioni e dei documenti battuti a macchina dalla Meinhof. Un ritmo forsennato, che molti hanno definito da film d’azione (action movie per gli esterofili), e una regia un po’ troppo ammiccante alle forme televisive, ma che regge benissimo per tutta la parte fino al momento in cui la polizia, come abbiamo detto, imbocca la via della terra bruciata; togliere il consenso popolare alla RAF, creando una rete costante e continua di controlli, spingere la gente alla delazione, all’indagine personale.
In Italia suddetta strategia fu possibile solo nei confronti delle organizzazioni conosciute, come Autonomia Operai; le organizzazioni clandestine furono individuate e eliminate infatti solo quando gli efferati quanto inutili divennero prassi, l’appoggio popolare svanì, i partiti di sinistra anziché parlare di “brigate elettorali” e poi di “compagni che sbagliano”, soprattutto dopo l’assassinio di Rossa, presero le distanze, e l’arruolamento di massa da parte delle stesse organizzazioni permise l’infiltrazione di tossicodipendenti, criminalità comune, agenti italiani e americani, fino all’esplodere del fenomeno del “pentitismo”. In Germania, la cui purezza ideologica di derivazione teutonica era a prova d’infiltrato, la pratica della terra bruciata non fece altro che rimettere in gioco i collaudati meccanismi di controllo del territorio e di delazione usati dalla Gestapo e dalle polizie segrete di ogni regime, facendo cadere uno ad uno tutti i capi nelle braccia della polizia.
Così dopo l’arresto si apre una spaccatura nel discorso filmico: cambia il ritmo, lo spazio aperto (urbano, come la città; extraurbano, come le spiagge siciliane e il deserto) si riduce; lo spazio chiuso si amplia, ma più che quello dei luoghi d’incontro e di vita dei militanti, diventa quello claustrofobico delle prigioni e in modo particolare di Stammheim a Stoccarda, dove si consumerà la tortura e poi la morte dei capi della banda, avvenuta subito dopo l’azione di dirottamento di un aereo della Lufthansa ad opera del commando palestinese “Martyr Halimeh” e il rapimento di Schleyer, il capo degli industriali tedeschi. Le teste di cuoio libereranno gli ostaggi, e Schleyer, secondo la tragica prassi che verrà seguita anche dalle BR nei confronti di Moro, verrà assassinato.
Ma come spesso accade, quel su cui viene difficile interrogarsi non sono tanto le diversità di stile o di poetica, ma piuttosto il destino politico di una pellicola e il suo successo, soprattutto in Italia. E’ facile dire che Germania in autunno fu salutato con entusiasmo dalla critica (più che dal pubblico), indipendentemente dal suo (alto) valore artistico, perché nacque a ridosso delle legge speciali antiterrorismo, e La banda Baader-Meinhof invece viene in un momento in cui il marxismo è spacciato, i partiti comunisti scomparsi e i movimenti giovanili appaiono più simili a multicolori orde barbariche che a disciplinati eserciti rivoluzionari; la realtà è che una pellicola che non sia apologia sulle “rivoluzioni fallite” o quadro sul “come eravamo”, non interessa.
In Germania si fanno i conti con il passato nazista come con quello rivoluzionario, in Italia no: i nostri film sugli anni di piombo sono a tesi, o compiacenti verso il terrorismo e muti sulle vittime, o accusatori sulle responsabilità politiche ma non di tutti i partiti, e un Edel non potrebbe mai girare un film del genere al di sopra delle parti. Non a caso in Italia i critici di sinistra hanno guardato con sospetto il film, se non l’ hanno denigrato; mentre nel fronte di quelli di destra l’atteggiamento era, al di là di qualche generica condanna tematica, di accettazione.
Un esempio per tutti: per anni ci si è interrogati sul presunto “suicidio” dei militanti della RAF in carcere, e da noi, visti i diversi casi di militanti morti in strane circostanze (da Pinelli a Serantini a De Angelis, tanto per fare i nomi più famosi) ancor di più. Fu il quotidiano Lotta Continua a intervistare il padre di Gudrun Ensslin, che dopo aver sostenuto che la figlia era stata uccisa, venne denunciato per vilipendio allo stato. Così, in modo egualmente strumentale, le sinistre sostenevano la tesi dell’omicidio di stato, le destre del suicidio politico. La prima tesi permetteva di incolpare la giustizia tedesca, la seconda di assolverla; il suicidio offriva appigli alle destre per diagnosticare la follia del militante, o all’individuazione di una weltanschaaung tedesca da crepuscolo degli Dei; per le sinistre tradiva il segno di una cultura politicamente “pericolosa” (i suicidi di Hitler, Goebbels, Himmler, Goring e così via) o la debolezza del rivoluzionario che non deve esser debole, magari dimenticando che il suicidio, in Germania ha una lunga tradizione espressiva nel campo della “sinistra” (basti pensare a Ernst Toller, a Stefan Zweig, a Ernst Weiss o a Walter Benjamin). Cambiati i tempi e cambiate le interpretazioni, ci si accorge che il suicidio politico è politicamente più forte dell’omicidio di stato; Edel accoglie questa tesi; ma la storia della RAF, giusta o sbagliata che fosse, non cambia di una virgola, e resta nell’immaginario comune (in questo caso di chi allora non era magari ancora nato) come la cronaca di una delle tante “battaglie perdute”. La storia, insomma, la si può scrivere anche con il buonsenso di chi cerca di registrare gli eventi, senza cadere nelle stucchevoli accusa di apologia o di revisionismo che tanto piacciono alla critica.

sabato 22 novembre 2008

Stagflazione

... sempre da wikipedia

In economia, per stagflazione (combinazione dei termini stagnazione ed inflazione) si intende indicare la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti - su un determinato mercato - sia un aumento generale dei prezzi (inflazione) che una mancanza di crescita dell'economia in termini reali (stagnazione economica).

La stagflazione è un fenomeno presentatosi per la prima volta alla fine degli anni sessanta, prevalentemente nei paesi occidentali; precedentemente inflazione e stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente. La contemporanea presenza di questi due elementi mise in crisi la teoria di John Maynard Keynes (e le successive teorie post-keynesiane) che, per oltre 30 anni, era stata la spiegazione più convincente per l’andamento dei sistemi economici, oltre che valido strumento di politica economica per i governi di paesi ad economia di mercato.

Milton Friedman, Nobel in Economia nel 1976, era stato tra i pochi a discostarsi dalle visioni keynesiane e roosveltiane e a prevedere, nei suoi due libri Capitalism and Freedom e Storia Monetaria degli Stati Uniti, l'avvento della stagflazione.

Nella visione keynesiana, la disoccupazione è causata da un livello non sufficiente della domanda aggregata, mentre l’inflazione è giustificata solo quando il mercato raggiunge il pieno impiego: a quel punto l’eccesso della domanda aggregata rispetto all’offerta aggregata, non potendo riversarsi sulla quantità reale (già massima e non espandibile), si riversa sui prezzi, incrementandoli e determinando un aumento del prodotto interno lordo nominale, ovvero dei prezzi e non delle quantità. Nella teoria keynesiana una situazione di disoccupazione non è compatibile con prezzi in aumento, ma con prezzi in diminuzione, per effetto della recessione.

La stagflazione fu così inizialmente contrastata, conformemente alla teoria keynesiana, con l’applicazione di politiche economiche inefficienti ed a volte persino destabilizzanti, improntate ad una forte espansione: gli effetti di queste scelte aggravarono, però, ulteriormente la tendenza, già presente nei sistemi economici, al rialzo dei prezzi dei beni per di più senza drastici cali della disoccupazione, come auspicato invece dai governi. Il fenomeno fu principalmente spiegato col prevalere di comportamenti di monopolio sia nel mercato del lavoro (per la rigidità dei salari), che in quello dei prodotti per la presenza di cartelli (in special modo nei mercati delle materie prime).

Dal momento che la teoria keynesiana non era in grado di spiegare correttamente questo nuovo fenomeno molti economisti superarono l’idea keynesiana, che fino ad allora era riuscita a spiegare e giustificare validamente i fenomeni presenti nelle economie di mercato, ritornando alle convinzioni della teoria economica classica.

Lotta alla stagflazione

Una proficua lotta alla stagflazione è particolarmente complessa, in quanto per diminuire la spinta inflazionistica le Banche Centrali dovrebbero ridurre la massa di moneta circolante e, indirettamente, contenere la domanda di beni e servizi; ma una diminuzione della domanda causata da scarsità della massa monetaria non favorisce la crescita economica e quindi il rientro della disoccupazione. Rispetto agli anni '70, oggi il fenomeno della stagflazione viene mitigato dalla mancata rincorsa prezzi/salari, ovvero ad un aumento dei prezzi, soprattutto petrolio e materie prime, non corrisponde automaticamente un adeguamento inflattivo delle richieste salariali che vengono condizionate dalla possibilita' per le imprese di esportare sempre di più la produzione in paesi che hanno un costo del lavoro nettamente inferiore. Questa tendenza a sua volta riduce la possibilita' di contrattare eventuali aumenti salariali nei paesi più sviluppati riportando in equilibrio il mercato del lavoro e quindi senza produrre un ulteriore peggioramento del tasso d'inflazione. A questo punto una politica monetaria restrittiva risulta inefficace e quindi occorre agire piuttosto su quella fiscale, con una sensibile riduzione della spesa corrente ed una corrispondente riduzione della pressione fiscale, unica strumento efficace per stimolare i consumi e perciò la domanda aggregata di beni e servizi. La conseguente crescita economica rende quindi possibile una ripresa dell'occupazione, proprio in conseguenza della sopra citata moderazione salariale. Alle Banche centrali spetta quindi il compito di fine tuning, ovvero di equilibrare con la maggiore precisione possibile, la liquidità immessa nel sistema, in particolare attraverso una migliore allocazione della massa monetaria allargata che accompagni la ripresa dell'economia.

sabato 15 novembre 2008

Il bello della Sinistra

Il bello della sinistra
di Moni Ovadia

http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=73120

Il parlamento tedesco, a seguito di reiterati episodi di aggressioni antisemite verificatesi in Germania, su proposta della cancelliera Angela Merkel, ha votato una risoluzione di condanna dell’antisemitismo e di solidarietà nei confronti dello Stato di Israele e del suo popolo. A questa risoluzione ha chiesto di aderire anche la Linke, partito di sinistra di recente formazione nato dalla fusione delle forze politiche raccolte intorno a Oskar Lafontaine, ex presidente della Spd con gli ex comunisti della Ddr guidati da Gregor Gysi. Fondata sulla base di una piattaforma politica di nuova concezione e con una forte impronta pragmatica, la Linke è accreditata dai sondaggi per essere la terza forza politica tedesca. Quando i partiti promotori della risoluzione contro l’antisemitismo hanno respinto l’adesione della Linke, i suoi rappresentanti ne hanno presentata una propria, identica a quella degli altri partiti. La scelta è stata genialmente provocatoria. È stato un modo intelligente per opporsi a una sistematica demonizzazione di tutto ciò che è in odore di sinistra messa in atto dalle forze conservatrici in molte parti Europa. Portabandiera della crociata sono stati i gemelli Kaczynsky, leader del governo polacco ultrareazionario e di orientamento antisemita e, naturalmente, il governo Berlusconi con la sua corte dei miracoli intrisa di fascistume e di autoritarismo piduista.
Non stanchiamoci mai di ricordare che uomini della sinistra sono stati protagonisti delle più grandi battaglie per la democrazia, per la libertà e l’uguaglianza. Omologarli tout court ai crimini staliniani o a quelli di Pol Pot è da vigliacchi. Per troppo tempo si è tollerato remissivamente questo ignobile stillicidio. È ora di alzare la voce e la testa per gridare forte: «sinistra è bellissimo».

giovedì 13 novembre 2008

Si definisce recessione...

che bella la matematica....

da wikipedia estraggo la voce:

La recessione economica è una situazione macroeconomica caratterizzata da livelli di attività produttiva più bassi di quelli che si potrebbero ottenere usando completamente ed in maniera efficiente tutti i fattori produttivi a disposizione.

Negli Stati Uniti d'America si parla di recessione quando il Prodotto interno lordo (PIL) reale diminuisce per almeno due trimestri consecutivi.

Si ha recessione economica se la variazione del PIL rispetto all'anno precedente è negativa; se tale variazione è inferiore all'1% si parla di crisi economica. Quindi, se il PIL dell'anno precedente è uguale a 100 e quello dell'anno succesivo è 99, si ha la recessione. Se invece è di 99,5 si parla di crisi economica.

Ad esempio, il valore del PIL in Germania nel 2002 è stato di -0,1% (crisi economica), mentre nel 2003 è stato di -0,2% (recessione economica).

Sintomi delle fasi di recessione possono essere la diminuzione del tasso di crescita della produzione, l'aumento della disoccupazione, la diminuzione deltasso di interesse in seguito alla riduzione della domanda di credito da parte delle imprese, il rallentamento del tasso di inflazione causato dalla diminuzione della domanda di beni e servizi da parte dei consumatori. In alcuni casi, la recessione può essere associata con l'aumento dei prezzi (inflazione) e tale fenomeno è anche conosciuto come stagflazione.

mercoledì 12 novembre 2008

La triplice emergenza

La triplice emergenza - 20/10/08

di Jeremy Rifkin - da L’espresso

Credito, energia, cambiamenti climatici. Le crisi sono collegate e si alimentano reciprocamente. Per questo sono così difficili da battere. La soluzione è trasformarle in opportunità commerciali. Ammesso che ce ne sia il tempo

Stiamo vivendo un periodo storico di enorme precarietà. Incombe infatti su di noi la prospettiva concreta di un tracollo economico globale, della portata di quello verificatosi durante la Grande Depressione negli anni Trenta. La crisi creditizia globale è aggravata dalla crisi energetica globale e dalla crisi del cambiamento del clima globale, e tutte insieme contribuiscono a creare un possibile cataclisma per la civiltà umana, diverso da qualsiasi altra cosa alla quale si sia assistito finora.


Le tre crisi globali sono collegate tra loro e si alimentano reciprocamente. Affrontare questa triplice minaccia che incombe sul nostro stile di vita obbliga a dare il via a una nuova programmazione economica che riesca a trasformare in modo efficiente le avversità contingenti in altrettante opportunità.
L'attuale crisi creditizia, che sta dilagando in Europa e nel mondo intero, è iniziata nei primi anni Novanta. Da circa un decennio gli stipendi negli Stati Uniti erano fermi e in flessione. L'America è uscita dalla recessione degli anni 1989-1991, determinata almeno in parte da una contrazione del mercato immobiliare, estendendo a milioni di americani il credito al consumo. Il diffondersi di carte di credito facilmente ottenibili ha consentito ai consumatori statunitensi di acquistare beni e servizi ben al di là delle proprie effettive possibilità.
La 'cultura della carta di credito' ha incrementato il potere di acquisto e ha rimesso all'opera e al lavoro le aziende e i lavoratori americani per produrre tutti quei beni e quei servizi che erano acquistabili ricorrendo al credito. Negli ultimi 17 anni, i consumatori americani hanno sostenuto l'economia globale, in buona parte grazie agli acquisti effettuati con le carte di credito. Lo scotto pagato per mantenere l'economia globale sulle spalle di un debito al consumo sempre più alto negli Stati Uniti, tuttavia, ha comportato il dissolvimento dei risparmi delle famiglie americane. Nel 1991 i risparmi per nucleo familiare erano mediamente intorno all'8 per cento, mentre nel 2006 sono smaccatamente passati nella categoria dei passivi. Oggi una famiglia americana media spende più di ciò che guadagna: tale situazione si definisce 'reddito passivo', un ossimoro che ben rappresenta un approccio errato allo sviluppo economico.

A peggiorare le cose, la crisi creditizia globale ha subito un'ulteriore escalation negli ultimi due anni per l'impennata del prezzo del petrolio, che nel luglio 2008 ha raggiunto sui mercati mondiali la cifra di 147 dollari al barile. Questa impennata del greggio ha inferto un duro colpo all'inflazione, ha ridotto significativamente il potere di acquisto dei consumatori, ha rallentato la produzione e aumentato la disoccupazione, creando ancor più scompiglio e preoccupazione in un'economia già assillata dai debiti.
Ormai siamo di fronte a un nuovo fenomeno, detto 'Peak Globalization' (picco della globalizzazione), che si è verificato quando il petrolio ha toccato i 150 dollari al barile. Oltre questo livello, l'inflazione crea come un muro di sbarramento nei confronti di una crescita economica continuata, spingendo l'economia globale inesorabilmente indietro, verso la crescita zero. È solo con la contrazione dell'economia globale che il prezzo dell'energia ha ripreso a scendere in virtù della minore energia utilizzata.
L'importanza della 'Peak Globalization' non è sopravvalutata. La premessa essenziale della globalizzazione era che l'abbondanza di petrolio a basso prezzo avrebbe consentito alle grandi aziende di spostare i capitali in direzione dei mercati del lavoro a bassa retribuzione salariale, dove i prodotti alimentari e i manufatti possono essere realizzati con minima spesa e con ingenti margini di guadagno, per poi essere spediti in tutto il mondo. Questa premessa di base è sfumata, con conseguenze preoccupanti per il processo di globalizzazione.
Per comprendere come sia stato possibile arrivare a questo punto, occorre ritornare indietro nel tempo, per la precisione al 1979, l'anno in cui - secondo uno studio effettuato dalla BP, la compagnia petrolifera britannica - il petrolio globale pro capite toccò il suo picco massimo. Per l'opinione pubblica è decisamente più famigliare l'espressione 'picco della produzione globale di petrolio', che si riferisce al periodo temporale nel quale si esaurisce la metà del petrolio disponibile al mondo. Secondo i geologi il picco della produzione globale di petrolio molto verosimilmente dovrebbe aver luogo in un momento imprecisato compreso tra il 2010 e il 2035. Il picco della produzione petrolifera pro capite, invece, è il motivo per il quale il picco della globalizzazione si è verificato ben prima di quello della produzione petrolifera.
Dopo il 1979, la quantità di petrolio a disposizione di ogni essere umano ha iniziato a diminuire. Anche se da allora si sono scoperti altri giacimenti di greggio, il fatto che la popolazione terrestre aumenti di continuo significa che, se il petrolio fosse distribuito in modo uniforme a tutti gli esseri umani, ogni individuo si ritroverebbe meno petrolio a disposizione. Quando Cina e India negli anni Novanta hanno dato inizio al loro impressionante sviluppo, la loro richiesta di petrolio è schizzata alle stelle. La domanda ha cominciato a superare l'offerta e il prezzo del petrolio ha iniziato inesorabilmente a salire.
La conclusione di questo processo è che con meno petrolio pro capite teoricamente disponibile, tutti i tentativi di portare un terzo dell'intero genere umano - a tanto ammonta complessivamente la popolazione di Cina e India - nella Seconda Rivoluzione Industriale su base petrolifera, si scontrano con una limitata disponibilità di petrolio. In altre parole, le pressioni e le richieste da parte di una popolazione terrestre in continuo aumento di disporre di riserve petrolifere limitate inevitabilmente ne fa lievitare il prezzo, e quando il petrolio tocca i 150 dollari al barile, l'inflazione diventa talmente pesante da fungere da fattore frenante nei confronti di un'ulteriore crescita economica e l'economia globale si contrae.
Il prezzo in forte aumento dell'energia è incluso in ogni prodotto che realizziamo. I nostri alimenti sono ottenuti con fertilizzanti, petrolchimici e pesticidi; le nostre materie plastiche e i materiali da costruzione; la maggior parte dei prodotti farmaceutici e gli stessi abiti che indossiamo sono realizzati anch'essi a partire da combustibili fossili, come pure i nostri mezzi di trasporto e l'elettricità. Il costo più alto dell'energia ha un impatto incisivo su ogni aspetto della produzione, e al tempo stesso rende sempre più proibitivo il trasporto a lunga distanza via aerea e via mare con le navi cisterna. Quale che fosse il guadagno marginale precedentemente fruito da chi con la delocalizzazione spostava la produzione verso mercati del lavoro a bassa retribuzione salariale, è adesso azzerato dai costi energetici sempre più alti nell'intera catena di produzione. Questo segna l'effettiva fine della Seconda Rivoluzione Industriale, che ha luogo ancor prima che sia stato raggiunto il picco della produzione globale di petrolio.

Al contempo, gli effetti del cambiamento climatico 'in tempo reale' stanno aggravando ancor più la situazione economica di varie zone del pianeta. L'ammontare dei danni arrecati all'economia statunitense dai soli uragani Katrina, Rita, Ike e Gustav si stima in eccesso nell'ordine dei 240 miliardi di dollari. Alluvioni, siccità, incendi, tornados e altri cataclismi climatici estremi hanno decimato gli ecosistemi in tutto il mondo, non paralizzando soltanto la produzione agricola, ma anche le infrastrutture, rallentando l'economia globale e obbligando milioni di sfollati ad abbandonare le loro case.
Il governo statunitense ha varato un piano di salvataggio pari a quasi un trilione di dollari per salvare l'economia degli Stati Uniti, ma ciò non sarà sufficiente, in sé e per sé, ad arginare la recessione e farci invertire direzione per entrare in un nuovo periodo di crescita economica sostenibile, e questo perché il debito complessivo dell'economia statunitense è nell'ordine ormai di svariati trilioni di dollari. Nel frattempo, gli stipendi americani hanno continuato a rimanere immutati e la disoccupazione è in incremento. La supposizione che l'attuale recessione sia a breve termine e puramente ciclica è nel migliore dei casi ingenua e nel peggiore dei casi ingannevole. Le riserve energetiche globali, come pure quelle di gas naturale e di uranio, vanno economizzate, se dobbiamo soddisfare le aspettative di crescita del mondo sviluppato e di quello in via di sviluppo, mentre carbone, sabbie bituminose e greggio pesante sono troppo sporchi e inquinanti per poter essere utilizzati. Il cambiamento climatico in atto in tempo reale sta procedendo a un ritmo molto più sostenuto rispetto alle proiezioni e ai modelli scientifici elaborati e resi noti in precedenza, e già destabilizza interi ecosistemi e crea scompiglio nelle attività economiche della società. Che fare, dunque?
Il nostro pianeta necessita di una visione economica adeguata, valida, nuova, che sposti la discussione e l'agenda relativa alla crisi creditizia globale, al picco petrolifero, e al cambiamento climatico dalla paura alla speranza, dai vincoli economici alle opportunità commerciali. Questa nuova concezione sta manifestandosi proprio in questo periodo, nel momento in cui le industrie si precipitano a introdurre le energie rinnovabili, gli edifici sostenibili, la tecnologia di immagazzinamento dell'idrogeno, reti intelligenti di servizio pubblico, veicoli elettrici ricaricabili, preparando il terreno per una Terza Rivoluzione Industriale post-carbone.
La domanda più importante che dobbiamo porci, a questo punto, è la seguente: riusciremo a effettuare la transizione in tempo utile e a evitare di precipitare nell'abisso?

(traduzione di Anna Bissanti)

Quando cessò lo stato di diritto


Diaz, l´ultima immagine dello scandalo
ecco l´uomo che porta le molotov
In una ricostruzione della Bbc si vede un uomo che introduce nella scuola le bottiglie incendiarie
di Massimo Calandri
Eccola la fotografia-simbolo di quella notte maledetta . Inedita. Oscura. Inquietante. È stata estrapolata da un filmato girato da un operatore Rai e depositato dalle parti civili il mese scorso. Nel mosaico riportato qui a fianco, è il quadrato sulla destra in alto. Si riconoscono il cortile della scuola Diaz, le sagome dei funzionari di polizia che si allontanano dopo aver chiacchierato a lungo intorno al sacchetto azzurro con le due bottiglie incendiarie. Sullo sfondo le grandi finestre dell´istituto, le stanze illuminate. E a sinistra - piccolino, cerchiato di rosso - il profilo di un uomo sulla soglia dell´ingresso laterale. È di spalle, in borghese, indossa un casco protettivo. Nella mano sinistra stringe qualcosa. Sì. È il sacchetto azzurro delle molotov. Accanto riporta una didascalia in inglese, perché l´immagine fa parte di un´inchiesta giornalistica della Bbc di prossima pubblicazione: «Naples Digos Inspector entering Diaz Pertini». Si tratta cioè del fantomatico ispettore della Digos di Napoli che introduce materialmente nella scuola le molotov della vergogna, una della prove fasulle - la "regina" delle prove false - con cui la Polizia di Stato avrebbe voluto "giustificare" il massacro e le manette ai 93 no-global.

Il documento è paradossalmente eccezionale. Perché da un lato rappresenta il punto di non ritorno della vicenda: ecco come le forze dell´ordine hanno truccato le carte, barato, mentito fin dalla prima ora di quella notte dannata. È tutto vero: fu un pestaggio cinico e bestiale, e i servitori dello Stato preferirono raddoppiare l´orrore - aggiungendo alla carneficina l´ingiustizia della prigione - piuttosto che ammettere le proprie responsabilità, il fallimento. Ma d´altro canto, quella spaventosa bugia è così chiara, solare, che persino alcuni avvocati della difesa nella loro recente arringa la davano per scontata. Alla Diaz abbiamo imbrogliato, embé? La catena è stata definitivamente ricostruita nel corso di quasi quattro anni di dibattimento e centocinquanta udienze.

L´agente Michele Burgio prende le due molotov - che erano state sequestrate nel pomeriggio durante gli scontri di corso Italia dal vice-questore Pasquale Guaglione, e da lui affidate a Valerio Donnini, padre degli specialissimi nuclei anti-sommossa e capo di Burgio - e nel cortile della scuola le consegna al vice-questore Pietro Troiani. Il funzionario le mostra al collega Massimiliano Di Bernardini. Poi entra in ballo Gilberto Caldarozzi, l´uomo che qualche anno dopo avrebbe partecipato alla cattura di Bernardo Provenzano. Qualche minuto più tardi, il sacchetto azzurro delle molotov è impugnato da Giovanni Luperi e mostrato agli altri super-poliziotti che gli si fanno intorno. E questa, di immagine, la conosciamo bene. Quello che succede dopo ce l´hanno raccontato gli stessi protagonisti in negativo del blitz. Luperi, attuale direttore dell´ex Sisde, ricorda di aver chiamato una funzionaria che stava all´esterno della scuola. Perché mai? Per affidarle il reperto, che pure in quel momento - visti gli sviluppi successivi - aveva una straordinaria importanza investigativa. Bene: Luperi chiama Daniela Mengoni e le dice di avere cura delle molotov. E la Mengoni che fa? A sua volta chiama un sottufficiale. «Credo fosse un ispettore della Digos di Napoli».

Credo, dice. Non ne conosce il nome, non è in grado di riconoscerlo. Nessuno degli ispettori Digos napoletani, rintracciati anni dopo dai magistrati, corrisponde a quello indicato dalla donna. E dunque, con lui e il sacchetto si avvicina all´entrata secondaria della scuola Diaz. Chissà perché. Si avvicina, e gli affida la prova «regina». Le molotov, che il nostro codice equipara ad armi da guerra. La prova intorno alla quale avrebbero poi giustificato l´intera operazione. «Tienile un momento, che devo fare una cosa». Lo molla lì. Quando torna, le bottiglie incendiarie saranno allineate sul lenzuolo che ospiterà il resto dell´"arsenale" sequestrato ai fantomatici Black Bloc della Diaz: i coltellini multiuso, le sottile anime in alluminio degli zaini fatte passare per spranghe, gli assorbenti femminili, la biografia del reverendo Jesse Jackson fatta passare per materiale "eversivo". E i picconi, le mazze rubate da un vicino cantiere.

Alla storia si aggiunge oggi quest´ultima immagine. Quella dell´ispettore Digos di Napoli (?) che entra nella scuola. C´è poi un altro fotogramma che ritrae lo stesso uomo mentre esattamente cinque minuti prima entra nella scuola, un camicione blu fuori dai pantaloni di colore beige. È quello in basso a sinistra. A fianco, nel terzo riquadro, l´ispettore leaving - che la lascia - la Diaz. La visiera del casco ben calata a nascondere il volto. Sono trascorsi altri quattro minuti. Nove in tutto. Per entrare, piazzare le bottiglie e andarsene. Ma tornando al riquadro lassù in alto, quello dell´ingresso delle molotov nella scuola, vale la pena di sottolineare i due funzionari indicati dalla Bbc.

Uno è appunto Luperi, oggi ai vertici del ministero dell´Interno. Nel processo ha rifiutato di essere interrogato, preferendo le "dichiarazioni spontanee". Senza contraddittorio. Ha spiegato che quella sera lui era tutto sommato rimasto ai margini dell´operazione. Era soprattutto preoccupato di portare i colleghi a cena, ricordava. L´altro era Spartaco Mortola, adesso questore vicario a Torino, allora capo della Digos di Genova. L´ufficio cui vennero affidate per la custodia le molotov, il reperto trasformatosi in un boomerang per la Polizia di Stato. Le bottiglie furono "accidentalmente" distrutte dagli stessi agenti. Questa è un´altra storia, verrebbe da scrivere. Ma purtroppo la storia è sempre la stessa.
(12 novembre 2008)

martedì 11 novembre 2008

Gli imPRENDITORI italiani

ma ci si rende conto?
ma lo sappiamo?
E' la stessa gente che poi si siede ai tavoli per imporre una misera paga per i propri dipendenti.


MILANO - Diciassette conti congelati, da "porre in collegamento con le dichiarazioni rese da Marcegaglia Antonio". È il Ministero pubblico della Confederazione elvetica, con una missiva spedita la scorsa settimana all'ufficio del procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, a rialzare il sipario sui conti esteri della famiglia Marcegaglia. Una parte dei quali - quattro per la precisione - erano già stati scandagliati durante l'inchiesta Enipower, una storia di tangenti pagate per accaparrarsi commesse milionarie e che ha visto tra i numerosi protagonisti anche il rampollo della famiglia industriale mantovana. A marzo 2008 il figlio del fondatore del colosso dell'acciaio ha patteggiato una pena (sospesa) di 11 mesi per corruzione. E ha pagato oltre 6 milioni di euro.

mercoledì 5 novembre 2008

Barak Hussein Obama - ll discorso dopo la vittoria elettorale


Ecco il discorso con cui Barack Obama ha celebrato la vittoria a Chicago

Obama: Ciao, Chicago.
Se c'è qualcuno lì fuori che ancora dubita che l'America sia un posto dove tutto è possibile; che ancora si chiede se il sogno dei nostri padri fondatori è vivo ai nostri tempi; che ancora mette il dubbio il potere della nostra democrazia: questa notte è la vostra risposta.

E' la risposta delle code che si allungavano intorno alle scuole e alle chiese in numeri che questa nazione non aveva mai visto, della gente che ha aspettato tre e quattro ore, molti per la prima volta nella vita, perché credevano che questa volta dovesse essere diverso, che le loro voci potessero fare la differenza. E' la risposta che viene dai giovani e dai vecchi, dai ricchi e dai poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, indigeni americani, gay, eterosessuali, disabili e no.

Gli americani hanno mandato un messaggio al mondo: non siamo mai stati solo una lista di individui o una lista di stati rossi e stati blu. Siamo, e sempre saremo, gli Stati Uniti d'America.

E' la risposta che ha guidato quelli che si sono sentiti dire per tanto tempo di essere cinici e spaventati e dubbiosi su quello che possiamo ottenere, mettendo le loro mani sull'arco della storia e piegandolo una volta di più alla speranza di un giorno migliore. C'è voluto molto a venire, ma stanotte, per quello che abbiamo fatto in questo giorno in questa elezione in questo momento cruciale, il cambiamento è arrivato in America.

Poco fa stasera ha ricevuto una bellissima telefonata dal senatore McCain. Il senatore McCain ha combattuto lungamente e duramente in questa campagna e ha combattuto anche più lungamente e duramente per il paese che ama. Ha sopportato sacrifici per l'America che la maggioranza di noi neanche possono immaginare.

Siamo tutti migliori per i servigi resi da questo coraggioso, altruista leader. Mi congratulo con lui e mi congratulo col governatore Palin per quello che sono riusciti a fare. E aspetto con ansia di lavorare con loro per rinnovare la promessa della nazione nei mesi a venire.

Voglio ringraziare il mio compagno in questo viaggio, un uomo che ha fatto campagna dal cuore e ha parlato per gli uomini e le donne con cui è cresciuto nelle strade di scranton ... E con cui è andato in treno verso casa nel delaware, il vicepresidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden. E non sarei qui stasera senza il sostegno incrollabile della mia migliore amica degli ultimi 16 anni, la roccia della nostra famiglia, l'amore della mia vita, la prossima first lady del paese... Michelle Obama.

Sasha e Malia... Vi amo più di quanto potete immaginare. E vi siete guadagnate il nuovo cucciolo che verrà con noi alla Casa bianca.

E anche se non è più con noi, so che mia nonna sta guardando, insieme alla famiglia che mi ha fatto quello che sono. Mi mancano stanotte. So che il mio debito verso di loro è incommensurabile.

A mia sorella Maya, a mia sorella Alma, a tutti gli altri fratelli e sorelle grazie per tutto il sostegno che mi avete dato, vi sono grato. E al manager della mia campagna, David Plouffe... L'eroe silenzioso di questa campagna, che ha costruito la migliore campagna politica, credo, della storia degli Stati Uniti d'America. E al mio principale stratega David Axelrod, che mi ha accompagnato in ogni passo della via. Alla migliore squadra di campagna mai messa insieme nella storia della politica: è merito vostro e vi sono grato per sempre per i sacrifici che avete fatto perché accadesse.

Ma soprattutto, non dimenticherò mai a chi appartiene davvero questa vittoria. Appartiene a voi. Appartiene a voi. Non sono mai stato il candidato più probabile per questo incarico. Non abbiamo cominciato con molti soldi o molti sostegni. La nostra campagna non è nata nei corridoi di Washington. E' iniziata nei cortili di Des Moines e nei salotti di Concord e sui portici di Charleston.

E' stata costruita da uomini e donne che lavorano che che hanno tirato fuori i pochi risparmi che avevano per donare 5, 10, 50 dollari alla causa. Ha tratto forza dai giovani che hanno rifiutato il mito dell'apatia della loro generazione; che hanno lasciato le case e le famiglie per lavori che davano loro pochi soldi e ancor meno sonno. Ha tratto forza dai non più giovani che hanno affrontato il freddo intenso e il caldo afoso per bussare alle porte di assoluti sconosciuti, e dai milioni di americani che si sono offerti volontari e hanno organizzato e dimostrato che oltre due secoli dopo, un governo della gente, dalla gente e per la gente non è scomparso dalla terra.

Questa è la vostra vittoria. E so che non l'avete fatto solo per vincere le elezioni. E so che non l'avete fatto per me. L'avete fatto perchè capite l'enormità del compito di fronte a noi: mentre celebriamo stanotte, sappiamo che le sfide che ci porterà domani sono le più grandi della nostra epoca: due guerre, un pianeta a rischio, la peggior crisi finanziaria da un secolo.

Anche mentre siamo qui stasera sappiamo che ci sono coraggiosi americani che si svegliano nei deserti dell'iraq e fra le montagne dell'Afghanistan per rischiare le loro vite per noi. Ci sono madri e padri che restano svegli quando i bambini dormono e si chiedono come pagheranno il mutuo o le parcelle del medico o come risparmieranno abbastanza per mandarli all'università.

C'è una nuova energia da sfruttare, nuovi lavori da creare, nuove scuole da costruire, minacce da affrontare, alleanze da riparare.

La strada davanti a noi sarà lunga. La salita sarà ripida. Forse non ci arriveremo in un anno o nemmeno in un mandato. Ma, America, non ho mai nutrito tanta speranza come stanotte che ci arriveremo. Ve lo prometto, noi come popolo ci arriveremo.

(Pubblico: 'Sì possiamo. Sì possiamo')

Ci saranno ricadute e false partenze. Ci sono molti che non saranno d'accordo con tutte le decisioni e le politiche che seguirò da presidente. E sappiamo che il governo non può risolvere ogni problema. Ma sarò sempre onesto con voi sulle sfide che affrontiamo. Vi ascolterò, soprattutto quando non saremo d'accordo. E soprattutto vi chiederò di partecipare nell'opera di rifare questo paese, nell'unico modo in cui l'abbiamo fatto in america per 221 anni, pezzo a pezzo, mattone dopo mattone, mano callosa su mano callosa.

Quel che è cominciato 21 mesi fa nel profondo dell'inverno non può finire in questa notte d'autunno. Da sola questa vittoria non è il cambiamento che vogliamo. E non potrà succedere se torniamo alle cose com'erano. Non può succedere senza di voi, senza un nuovo spirito di servizio, un nuovo spirito di sacrificio.

Quindi richiamiamo un nuovo spirito di patriottismo, di responsabilità, in cui ognuno di noi si decide a partecipare e lavorare più duro e a badare non solo a noi stessi ma agli altri.

Ricordiamoci che se questa crisi finanziaria ci ha insegnato qualcosa, è che non è possibile che Wall street prosperi mentre Main street (la gente comune) soffre. In questo paese, cresciamo o affondiamo come una nazione sola e un popolo solo. Resistiamo alla tentazione di ricadere nelle stesse divisioni e nelle stesse meschinità e immaturità che hanno avvelenato così a lungo la nostra politica.

Ricordiamoci che ci fu un uomo di questo stato che per primo portò la bandiera del partito repubblicano alla casa bianca, un partito fondato sui valori della fiducia in se stessi e delle libertà individuali e dell'unità nazionale. Sono valori che tutti condividiamo. E se il partito democratico stanotte ha ottenuto una grande vittoria, lo facciamo con umiltà e determinazione per sanare le spaccature che hanno frenato il nostro progresso.

Come Lincoln disse a una nazione ben più spaccata della nostra, non siamo nemici ma amici. Le emozioni possono forzare ma non devono spezzare i legami dell'affetto. E a quegli americani di cui devo ancora conquistare l'appoggio: non avrò ottenuto il vostro voto stasera ma sento le vostre voci. Mi serve il vostro aiuto. E sarò anche il vostro presidente.

E a tutti coloro che guardano stasera al di là delle nostre spiagge, dai parlamenti e dai palazzi, a quelli che si raccolgono intorno alle radio negli angoli dimenticati del mondo; le nostre storie sono diverse ma condividiamo lo stesso destino; una nuova alba della leadership americana è a portata di mano.

A quelli... A quelli che vorrebbero distruggere il mondo: vi sconfiggeremo. A quelli che cercano pace e sicurezza: vi sosteniamo. E a tutti coloro che si sono chiesti se il faro dell'America brilla ancora: stanotte abbiamo dimostrato una volta di più che la vera forza del nostro paese non viene della potenza delle nostre armi o dalle dimensioni della nostra ricchezza ma dal potere perpetuo dei nostri ideali: democrazia, libertà, possibilità, speranza incrollabile.

E' questa la vera forza dell'America: che l'America sa cambiare.

La nostra unione può essere migliorata. Quel che abbiamo già ottenuto ci dà speranza per quel che possiamo e dobbiamo ottenere domani.

Questa elezione ha visto molte prime, molte storie che saranno raccontate per generazioni. Ma una che ho in mente stasera riguarda una donna che ha votato a atlanta. Somiglia molto ai milioni di altri che si sono messi in fila per far sentire la loro voce in questa elezione, a parte una cosa: Ann Nixon Cooper ha 106 anni. E' nata appena una generazione dopo la schiavitù, quando non c'erano automobili in strada né aerei in cielo; quando una come lei non poteva votare per due ragioni: perché era una donna e per il colore della sua pelle. E stasera penso a tutto quello che ha visto nel suo secolo in America: i dolori e la speranza, la lotta e il progresso, le volte che ci hanno detto che non potevamo, e la gente che è andata avanti col credo americano: sì che possiamo.

In un momento in cui le voci delle donne venivano fatte tacere e le loro speranze distrutte, lei è vissuta fino a vederle alzarsi in piedi e prendere la scheda. Sì possiamo. Quando c'era solo disperazione nella polvere e la depressione in tutto il paese, ha visto una nazione che sconfiggeva la paura stessa con un new deal, nuovi lavori, un nuovo senso di scopo comune. Sì, possiamo.

(Pubblico: sì possiamo)

Quando le bombe sono cadute sul nostro porto e la tirannia minacciava il mondo, lei era lì a testimoniare una generazione che si elevava all'eroismo e una democrazia che veniva salvata: sì possiamo.

(Pubblico: sì, possiamo)

Lei c'era per gli autobus a Montgomery, gli idranti a Birmingham, un ponte a Selma, e un predicatore di Atlanta che disse a un popolo che 'we shall overcome', 'noi ce la faremo'.
Sì, possiamo.

(Pubblico: sì, possiamo)

Un uomo ha camminato sulla luna, un muro è caduto a berlino, un mondo è stato messo in rete dalla nostra scienza e dalla nostra fantasia. E quest'anno in questa elezione, lei ha messo il dito su uno schermo e ha votato, perché dopo 106 anni in America, traverso i tempi migliori e le ore più buie, lei sa come l'America può cambiare. Sì, possiamo.

(Pubblico: sì possiamo)

America, abbiamo fatto tanta strada. Abbiamo visto tanto.

Ma c'è ancora tanto da fare. Stasera chiediamoci: se i nostri figli dovessero vivere fino a vedere il prossimo secolo, se le mie figlie fossero così fortunate da vivere tanto quanto Ann Nixon Cooper, che cambiamenti vedranno? Che progressi avremo fatto? Questa è la nostra opportunità di rispondere. Questo è il nostro momento per ridare alla nostra gente il lavoro e aprire porte dell'opportunità ai nostri bambini, per ridare la prosperità e promuovere la causa della pace; per reclamare il sogno americano e riaffermare quella volontà fondamentale, che di tanti, siamo uno; che finché abbiamo respiro, abbiamo speranza. E se troviamo davanti a noi il cinismo e i dubbi e chi ci dice che non possiamo, risponderemo con quel credo senza tempo che riassume l'intero spirito di un popolo: sì, possiamo. Grazie. Dio vi benedica. E dio benedica gli Stati Uniti d'America.

(5 novembre 2008)

martedì 4 novembre 2008

Perchè ci diciamo comunisti

per chi ha difficoltà a seguire quello che succede all'interno di una parte politica non rappresentata nel Parlamento italiano.

Perché ci diciamo comunisti

Paolo Ferrero

Da un po di tempo Liberazione pubblica con grande rilievo articoli che chiedono di abbandonare il nome comunista. Al fondo la tesi riproposta in varie salse è che la parola comunismo è inutilizzabile perché l'esperienza storica concreta ne ha stravolto il significato. Tra chi propone di abbandonare il nome comunista vi è chi si pronuncia a favore del nome sinistra, chi a favore del socialismo, chi non propone nulla. Tutto questo si intreccia con un altro filone di dibattito che propone di andare oltre il Partito della Rifondazione Comunista, per fare un altro partito, per fare un'altra cosa che non sia un partito, etc.

Le argomentazioni portate mi pare ripropongano un po' stancamente quanto già sostenuto da Occhetto e dai suoi sostenitori dopo l'89 ma tant'è, come si sa la prima volta la storia si presenta come tragedia, la seconda come farsa.

Per quanto mi riguarda io la penso così:

Il concetto di comunismo ha una storia che travalica le vicende del secolo breve. Non voglio qui affrontarlo. Mi pare invece utile sottolineare come in Italia il gruppo dirigente comunista alle origini si è formato nella vicenda dell'occupazione delle fabbriche e valorizzando la costruzione dei consigli di fabbrica. Nel corso della guerra ha saputo dar vita ad un movimento di resistenza antifascista unitario e democratico che ha contribuito a liberare l'Italia e a dare al nostro paese un assetto democratico strutturato attorno ad una carta costituzionale assai avanzata. Successivamente i comunisti hanno variamente lottato e con una certa efficacia contro lo sfruttamento e per la giustizia sociale. Un terzo degli elettori italiani è arrivato a dare fiducia ad un partito che si chiamava comunista e che poneva la questione morale come punto non secondario della riforma della politica. Rifondazione comunista nel suo piccolo è stata presente nei vari conflitti che hanno percorso il paese ed è stata in grado di collocarsi positivamente nella grande stagione nel movimento no global.

l tutto cercando di intrecciare le lotte per i diritti sociali con quelle per i diritti civili, lotte operaie e lotte ambientali, lotte per la redistribuzione del reddito con le lotte contro la mercificazione delle persone, dell'ambiente, delle relazioni sociali. In altri temini la parola comunismo in Italia è legata alle battaglie per la giustizia e la libertà. Dopo l'era craxiana non mi pare si possa dire lo stesso per la parola socialismo.

La parola sinistra ha storicamente un significato positivo nel nostro paese. Ha a mio parere un difetto e cioè che si tratta di una coperta che copre molte cose. Ad esempio all'interno del partito democratico vi sono persone e posizioni che si definiscono di sinistra che sono però anche variamente confindustriali e per nulla anticapitaliste. La parola sinistra cioè da sola non definisce una posizione chiara dal punto di vista della divisione di classe della società né dal punto di vista della volontà di superare il capitalismo; tant'è che negli anni scorsi abbiamo giustamente detto che esistevano due sinistre, quella moderata e quella radicale o alternativa o antagonista. Da questo punto di vista il definirsi di sinistra e comunisti mi pare rappresenti un modo chiaro per dire da che parte si sta. Siamo di sinistra ma siamo anche comunisti, cioè lottiamo contro lo sfruttamento, quando serve anche contro il Vaticano e ci battiamo per il superamento del capitalismo. Dirsi comunisti è quindi una risorsa per qualificare il nostro essere di sinistra. Porre il tema del comunismo significa porre il nodo della rivoluzione, del cambiamento radicale dello stato di cose presenti. Tant'è che quando taluni esponenti del centrosinistra affermano di non voler mai più fare accordi con liste che contengano la falce e il martello lo dicono non certo per la nostra storia ma perché siamo concretamente, politicamente, qui ed ora, anticapitalisti.

Questo per quanto riguarda l'Italia. I comunisti però, in particolare quando hanno preso il potere, hanno anche fatto grandi disastri. Lo stalinismo ha contraddetto radicalmente le aspirazioni di giustizia e libertà del movimento comunista. Per questo ci siamo chiamati Rifondazione Comunista. Non solo il nome di un partito ma un progetto politico: rifondare il comunismo avendo fatto fino in fondo i conti con lo stalimismo. Riconosciamo che la storia dei comunisti e delle comuniste è la nostra storia, ne abbiamo analizzato gli errori e gli orrori al fine di non ripeterli. Rifondazione e Comunista sono quindi due termini che si qualificano a vicenda, ci parlano della persistenza ma anche della discontinuità, ci parlano della contraddittorietà del nostro tentativo di andare oltre il capitalismo nel nostro essere fino in fondo uomini e donne di questo tempo.

La rifondazione del comunismo è quindi il progetto politico che abbiamo scelto quando Achille Occhetto ha sentenziato che il comunismo era solo un cumulo di macerie. Nulla vieta che altri oggi la pensino come Occhetto ma a me francamente pare che i guai che abbiamo avuto negli anni scorsi non siano derivati dal nostro nome ma piuttosto dai nostri errori politici, in primo luogo la scelta di andare al governo.

Io penso quindi che oggi sia più necessario di ieri dirsi comunisti, di Rifondazione comunista. E' il nome che meglio di qualunque altro definisce qui ed ora il nostro anticapitalismo e la nostra autonomia da un ceto politico che si definisce di sinistra ma con le cui prospettive politiche abbiamo poco a che spartire.

E' evidente che si potrebbe continuare ad argomentare a lungo ma voglio utilizzare lo spazio che mi resta per sollevare un paio di quesiti.

In primo luogo è evidente che la discussione dovrebbe cominciare da qui, cioè dalla rifondazione comunista. Si tratterebbe di aprire una discussione non a negativo ma a positivo. Si tratterebbe di ragionare su come rendere al meglio oggi la prospettiva comunista. Di come la nostra azione non si possa situare solo al livello politico della rappresentanza. Di come si ridefinisca la politica comunista in relazione ai movimenti, alle mille vertenzialità, alle forme di mutualismo. Di come si intreccino oggi i diversi conflitti e come possono interagire in una prospettiva di superamento del capitalismo. Di come si possa affrontare la crisi capitalistica proponendo il tema del controllo sociale dell'economia ed evitando la guerra tra i poveri. Di come si intrecci la lotta per il salario con quella per il reddito sociale con la lotta contro la mercificazione di ogni ambito sociale, e così via. Il dibattito di cui avremo bisogno non riguarda la ripetizione dell'occhettismo ma l'approfondimento della prospettiva della rifondazione comunista. Purtroppo però Liberazione non si cimenta sul terreno della rifondazione comunista ma su quello del suo superamento.

In secondo luogo è bizzarro che il giornale del Partito della rifondazione comunista metta in prima pagina il dibattito sul superamento del comunismo e a pagina 19 gli articoli in cui alcuni dirigenti del partito avanzano proposte politiche e cercano di far avanzare il progetto di rifondazione comunista.

In altre parole, la vera novità non mi pare il dibattito sul comunismo, ma il fatto che oggi Liberazione , il giornale del Prc, sia il soggetto che con maggiore costanza e determinazione chiede il superamento del Prc e del suo progetto politico. Devo dire che questa novità non mi pare molto utile.

Come non sporco i miei soldi



Come non sporco i miei soldi

Redazione di "Altreconomia"
Otto milioni e mezzo di euro per dire a tutti che il tetrapak è riciclabile. Questo è il costo della campagna pubblicitaria "Dillo a tutti! Il tetrapak è riciclabile", che è stata lanciata l'11 settembre dalla multinazionale svedese Tetrapak, leader mondiale nel settore dei contenitori per bevande, presente in 150 Paesi, con un fatturato complessivo di 8,4 miliardi di euro.La campagna, che si svolge a livello nazionale, è rivolta in realtà a quei 2.000 Comuni italiani (l'elenco sul sito www.tiriciclo.it) dove, dal 2005, è possibile fare la raccolta differenziata del tetrapak, grazie ad un accordo stipulato nel 2003 dalla multinazionale svedese con Comieco, consorzio nazionale per il recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica, cui l'azienda paga un contributo di 22 euro per tonnellata di immesso al consumo. Le confezioni per bevande in tetrapak sono materiale poliaccoppiato, cioè composto per il 75% da carta, 20% polietilene ed il restante da alluminio. In proporzione alle dimensioni, le confezioni tetrapak sono molto leggere e costituiscono lo 0,4% dei 500 kg di rifiuti prodotti in media in un anno da ciascun cittadino italiano. Nella maggioranza dei casi il tetrapak viene gettato ed inviato alle cartiere insieme a carta e cartone (come avviene per esempio a Roma, Milano, Napoli, Torino), oppure può essere gettato nel multimateriale (nel caso della Toscana e del Trentino). Il poliaccoppiato così raccolto viene inviato alle piattaforme di selezione, dove, insieme agli altri rifiuti, subisce un controllo qualità da parte di Comieco, che paga ai Comuni un corrispettivo fra 78,80 e 84 euro alla tonnellata, in proporzione alla quantità e al numero degli abitanti. Da qui il tetrapak raccolto può intraprendere due strade: essere inviato insieme a carta e cartone alle cartiere (in questo caso costituisce circa 1-2% sul materiale totale che arriva agli stabilimenti), oppure essere mandato singolarmente all'unica cartiera in Italia in grado di smembrarlo e riciclarlo in tutte le sue componenti. Dalle piatteforme di selezione il viaggio del tetrapak diventa sempre più periglioso: il tetrapak in gran parte torna a essere un rifiuto, perché il materiale che le cartiere riescono a ricavare è molto poco, in proporzione allo scarto che viene prodotto. Lo smaltimento di questo scarto consiste nell'inviare il materiale ad un inceneritore: il prodotto di scarto del pulper, infatti, è considerato una biomassa, cioè una fonte rinnovabile (e incentivata). Insieme allo scarto delle cartiere, finiscono nell'inceneritore anche un miliardo e 900 milioni di contenitori. Secondo dati Tetrapak, infatti, nel 2007, dei 5 miliardi di contenitori prodotti ed immessi sul mercato in Italia, il 52% (45.900 tonnellate) è stato recuperato attraverso la raccolta differenziata: ma solo il 14% è stato effettivamente avviato al riciclo in cartiera. Il resto è stato "recuperato" negli inceneritori.
www.altreconomia.it

4 novembre ... ma quale festa?

una lettera che mi piace riportare...

Francesco Gesualdi
Se il problema di La Russa fosse l'ignoranza, basterebbe mandargli una copia della lettera che il mio Priore e maestro, don Lorenzo Milani, scrisse ai cappellani militari nel lontano 1965, dalla piccola scuola di Barbiana
Francesco Gesualdi
Se il problema di La Russa fosse l'ignoranza, basterebbe mandargli una copia della lettera che il mio Priore e maestro, don Lorenzo Milani, scrisse ai cappellani militari nel lontano 1965, dalla piccola scuola di Barbiana. Apprenderebbe, documenti alla mano, che la guerra del ‘15-18 fu un'aggressione all'Austria, una guerra che si poteva evitare:"Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti." Una guerra di cui vergognarsi, da mantenere nei libri di storia solo per ricordare ai giovani fino a che punto può arrivare il disprezzo di classe: a morire negli assalti alla baionetta non erano gli ufficiali, figli della borghesia, ma i contadini, i montanari, gli analfabeti.
Il guaio è che a La Russa non interessa nè la storia, nè la verità. L'unica cosa che gli interessa è il potere violento, la violenza, la forza, la repressione, come elemento che caratterizza il fascismo e che lo contraddistingue dalle altre forme di potere. Perchè i fascisti propendano per la violenza rimane un mistero, la materia è più da psicologici e psiconalisti, che da ricercatori politici. Ma così è, e se vogliamo capire perchè La Russa vuole tornare a commemorare il 4 novembre nelle scuole d'Italia è da qui che dobbiamo partire. Una richiesta che non va letta come fatto isolato, ma associata a molti altri provvediementi di questo governo. Un filo rosso, anzi nero, collega la proposta di La Russa al decreto Gelmini e addirittura alle attività che Silvio Berlusconi porta avanti da una vita. Il filo nero si chiama demolizione della democrazia, un progetto che avanza su tre fronti: mantenimento della gente nell'ignoranza, controllo dell'informazione, distrazione e sostituzione del senso di classe. Da oltre trent'anni Berlusconi si dedica al secondo fronte, aveva capito che chi controlla l'informazione controlla non solo le menti, ma la stessa realtà: non è successo ciò che è avvenuto, è successo ciò che la televisione racconta. Così la televisione crea fatti, li distorce, li interpreta, di conseguenza produce opinione, confeziona giudizi, incanala i sentimenti, orienta le scelte, fabbrica eroi e nemici. Tutti sanno che Berlusconi ha vinto grazie alle sue televisioni ed è grave che nei periodi in cui il centrosinistra era al governo non abbia mai introdotto una riforma sul controllo televisivo, non abbia rivisto la legge elettorale, non abbia varato una legge sul conflitto d'interessi. Ed è stata punita.
Il pensiero unico ha tanta più possibilità di attecchire quanto più la gente è senza strumenti culturali: nell'ignoranza la complessità spaventa, si rinuncia a capire, si ripiega verso l'informazione sbrigativa, ci si butta nelle braccia di chi ci dà spiegazioni semplici fino ad incoronarlo re. Il progetto autoritario perseguito da Berlusconi ha bisogno di ignoranza, un obiettivo che si ottiene impoverendo la scuola. A questo serve il decreto Gelmini, a declassare così tanto la scuola pubblica da farla diventare parcheggio dei poveri mentre i ricchi fuggono verso le scuole private. Il solito apartheid, che ai figli dei ricchi riserva tempo pieno, classi poco numerose e insegnanti multipli fin dalla materna; ai figli dei poveri orario ridotto, aule sovraffollate, insegnanti insufficienti che al colmo della disperazione rinunciano al ruolo educativo e si trasformano in sorveglianti che annotano sul registro i buoni e cattivi.
Ma anche i poveri ignoranti, quando pagano di persona, possono avere un moto di ribellione e possono farsi pericolosi, per questo servono i depistatori, gli addetti alla distrazione di massa che si possono suddividere in due categorie: i fabbricanti di streghe e i fabbricanti di feticci. Ai giorni nostri, il capostipite del primo genere è la Lega Nord che getta la responsabilità di tutti i malanni d'Italia sugli immigrati, la vecchia tattica di incanalare la rabbia verso i più deboli, additandoli come brutti, sporchi, delinquenti e accattoni, mentre i veri ladri se la spassano con la complicità della classe politica: imprenditori, banchieri, assicuratori, palazzinari, mafiosi, che si arricchiscono all'inverosimile grazie alla precarietà del lavoro, alle truffe alle spalle dei risparmiatori, all'evasione fiscale, alla speculazione finanziaria, alla corruzione di stato. Del resto l'operazione non è difficile, fa leva su due paure ataviche. La prima verso la povertà, la miseria: ne abbiamo così tanta paura che cerchiamo di esorcizzarla escludendo ed odiando chi la impersonifica. La seconda verso lo straniero, la cultura fascista ci ha abituati a concepirlo come il nemico e non c'è da stupirsene: non c'è capro espiatorio più comodo di un popolo lontano che la propaganda può dipingere al pari di un diavolo. Così arriviamo all'altra grande operazione di distrazione di massa, la costruzione di idoli, feticci, che hanno lo scopo di camuffare la realtà, distogliere l'attenzione dalle ingiustizie che viviamo. Ed ecco la messa in campo del concetto di patria, il tentativo maldestro di nascondere le divisioni di classe sotto una malcelata unità territoriale minacciata dall'inimicizia dello straniero. Con la sua mossa sulla prima guerra mondiale, La Russa punta a rinfocolare feticci fascisti caduti in disuso. Forse avrebbe preferito farlo evocando una vittoria più moderna, ma la guerra in Afganistan si prospetta ancora lunga e dagli esiti incerti. In mancanza di meglio va bene anche un'anticaglia di un secolo fa, quantunque debba vedersela con la Lega Nord, suo alleato, che sui confini di patria ha altre idee. Per parte mi rifaccio ad un altro passaggio della lettera scritta da don Lorenzo Milani ai cappellani militari: "Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri".