giovedì 26 febbraio 2009

Usa, una voragine da 2 trilioni di dollari

http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/esteri/obama-presidenza-4/roubini-crisi/roubini-crisi.html


di NOURIEL ROUBINI

UN anno fa avevo previsto che le perdite delle istituzioni finanziarie statunitensi avrebbero raggiunto un totale di almeno un trilione di dollari, senza escludere la possibilità di arrivare anche a due trilioni di dollari. In quel periodo economisti e politici erano concordi nel ritenere sbagliate per eccesso queste stime.

Si pensava che in totale le perdite sui mutui subprime non avrebbero superato i 200 miliardi di dollari. Come avevo sottolineato, in un contesto che vede gli Stati Uniti e l'economia globale scivolare sulla china di una grave recessione, le perdite delle banche non si potevano limitare ai mutui subprime, ma tendevano ad estendersi ad altre forme di prestiti ipotecari (near-prime e prime), alle carte di credito, al settore immobiliare commerciale, a crediti di vario tipo (in favore di studenti, di imprese commerciali e industriali o per l'acquisto di automobili), ai corporate bond, ai titoli sovrani o emessi da stati ed enti locali, oltre che a tutti gli asset di copertura dei suddetti prestiti. Ma di fatto, da allora i write-down delle banche Usa hanno oltrepassato la soglia di un trilione di dollari (la cifra da me indicata come previsione minima delle perdite), e a questo punto istituzioni quali l'Fmi e la Goldman Sachs prevedono perdite per oltre due trilioni.

Se qualcuno continua a ritenere esagerata questa cifra, vorrei far notare che secondo le ultime valutazioni di Rge Monitor, il mio istituto di ricerca e consulenza, la cifra complessiva delle perdite sui prestiti concessi dagli istituti finanziari Usa, cui vanno aggiunte quelle risultanti dal calo del valore di mercato degli asset in loro possesso (ad esempio i titoli garantiti da mutui ipotecari) potrebbe arrivare addirittura a 3,6 trilioni.

Le banche Usa e gli intermediari sono esposti per la metà circa di questa somma, cioè per 1,8 trilioni di dollari. Il resto è distribuito tra altre istituzioni finanziarie, sia negli Usa che altrove. L'autunno scorso il capitale a copertura degli asset bancari era di appena 1,4 trilioni, per cui il sistema bancario Usa risultava in rosso per 400 milioni di dollari; e anche dopo gli interventi di ricapitalizzazione ad opera del governo e del settore privato, la sua riserva di capitale è praticamente pari a zero.

Servirebbero altri 1,5 trilioni di dollari per riportare il capitale delle banche al livello pre-crisi: solo così si potrà superare la stretta del credito, e rilanciare i prestiti al settore privato. In altri termini, il sistema bancario Usa è di fatto insolvente nel suo complesso, al pari di gran parte del sistema bancario britannico e di molte banche dell'Europa continentale.
Per il risanamento di un sistema bancario che deve far fronte all'attuale crisi sistemica le ipotesi sono fondamentalmente quattro: la ricapitalizzazione delle banche, con il contemporaneo acquisto dei loro titoli tossici da parte di una "bad bank" governativa; la ricapitalizzazione, accompagnata da garanzie governative - dopo un'iniziale perdita delle banche - degli asset tossici; l'acquisto da parte di privati degli asset tossici con garanzia governativa (l'attuale piano del governo Usa); e infine la pura e semplice nazionalizzazione - chiamandola magari con un altro nome (come ad esempio "government receivership") in caso di rifiuto di questo termine scabroso - delle banche insolventi, da rivendere poi al settore privato una volta risanate.

Di queste quattro opzioni, le prime tre presentano gravi inconvenienti. Nel caso della "bad bank", il governo rischierebbe di pagare prezzi troppo alti per i titoli tossici, sul cui vero valore non vi sono certezze. Anche l'ipotesi della garanzia potrebbe implicare un esborso statale eccessivo ( nel senso di una garanzia troppo elevata, per la quale il governo non percepirebbe un corrispettivo adeguato.

La soluzione della "bad bank" comporterebbe un ulteriore problema: il governo si troverebbe a dover gestire tutti i titoli tossici acquistati senza disporre delle necessarie competenze tecniche. Quanto all'idea - invero molto macchinosa, avanzata dal Tesoro - che propone di stralciare i titoli tossici dai bilanci delle banche, fornendo al tempo stesso garanzie da parte del governo - è apparsa subito complicata e poco trasparente, tanto che è bastato il suo annuncio a provocare una reazione nettamente negativa dei mercati.

Paradossalmente, la nazionalizzazione potrebbe rivelarsi come la soluzione più favorevole dal punto di vista del mercato: verrebbero infatti esclusi dalle istituzioni palesemente insolventi sia gli azionisti comuni che i detentori di azioni privilegiate, e in caso di insolvenza molto estesa anche i creditori non garantiti, assicurando al tempo stesso ai contribuenti un compenso adeguato. In questo modo si risolverebbe anche il problema della gestione dei bad asset delle banche, rivendendo la maggior parte dei titoli e dei depositi - con una garanzia da parte del governo - a nuovi azionisti privati, una volta risanati i titoli tossici (come nella soluzione adottata per il fallimento della IndyMac Bank).

La nazionalizzazione risolverebbe oltre tutto anche il problema delle banche che rivestono un'importanza sistemica, "too big to fail" - cioè troppo grosse per poter fallire - e che quindi il governo deve necessariamente soccorrere, a un costo molto elevato per i contribuenti. Oggi di fatto il problema si è ulteriormente aggravato, poiché le soluzioni finora adottate hanno indotto le banche più deboli a rilevarne altre ancora più malridotte.

Le fusioni tra "banche zombie" ricordano un po' il comportamento degli ubriachi che cercano di aiutarsi l'un l'altro a rimanere in piedi: lo dimostrano le operazioni con cui JPMorgan, Wells Fargo e Bank of Americ hanno rilevato rispettivamente Bear Stearns e Wa Mu, Wachovia, Countrywide e Merril Lynch. Con la nazionalizzazione il governo toglierebbe di mezzo queste mostruosità finanziarie, per creare banche più piccole ma solide da rivendere a investitori privati.
E' questa la soluzione che all'inizio degli anni '90 ha permesso alla Svezia di risolvere la sua crisi bancaria. Al contrario, l'attuale politica degli Usa e della Gran Bretagna rischia di generare, come è avvenuto in Giappone, una serie di "banche zombie", che in mancanza di un vero risanamento perpetuerebbero il congelamento del credito. Il Giappone ha pagato la sua incapacità di risanare il proprio sistema bancario con un decennio di crisi molto vicina alla depressione. In mancanza di interventi adeguati, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e molti altri Paesi corrono un rischio analogo: quello di una recessione o di una vera e propria deflazione che potrebbe protrarsi per vari anni.

Copyright: Project Syndicate, 2008. www. project syndicate. org (traduzione di Elisabetta Horvat)

(26 febbraio 2009)

Obama, finanziaria "verde"

... si comincia....


http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/esteri/obama-presidenza-4/finanziaria-2009/finanziaria-2009.html

Il deficit raggiungerà 1.750 miliardi di dollari nel 2009, livello più alto dal dopoguerra
Più pressione fiscale sulle fasce alte di reddito, scambi con le imprese per le emissioni di C02
Obama, finanziaria "verde"
fondo da 634 miliardi per la sanità
Il presidente intende mantenere la promessa elettorale di estendere la copertura
a tutti gli americani. Duecento miliardi di dollari per finanziare le missioni militari all'estero

WASHINGTON - Tasse più alte per le classi abbienti, un fondo pluriennale per riformare la sanità, introiti "verdi" dagli scambi con le emissioni di C02 per finanziare gli aiuti fiscali al ceto medio-basso. Sono alcuni dei punti cardine della finanziaria presentata oggi dal presidente Barack Obama. Ma anche la promessa di dimezzare il deficit, che nel 2009 arriverà a 1.750 miliardi di dollari, il 12,3% dell'economia Usa: livello più alto mai raggiunto dal dopoguerra. Obama non nasconde tutta la gravità della recessione in atto e dichiara che intende "offrire chiarezza su come viene speso ogni singolo dollaro dei contribuenti americani".
E neanche intende aggravare il già grave deficit Usa: "E' un processo che richiederà tempo - ha detto Obama - ma soltanto in questi ultimi 30 giorni abbiamo identificato riduzioni del deficit pari a 2mila miliardi, che ci aiuteranno a diminuire della metà il nostro deficit entro la fine del mio primo mandato". Il presidente ha citato in particolare risparmi per 20 milioni ammodernando i programmi e riducendo la burocrazia per l'agricoltura, per 200 milioni abbandonando i programmi per ripulire le miniere abbandonate, oltre a tagli per svariati programmi nella pubblica istruzione sopprimendo alcuni programmi di controllo simili a quelli già esistenti in ben 13 agenzie governative. Senza dare maggiore dettagli, Obama ha parlato di risparmi per quasi 50 miliardi riducendo sussidi eccessivi e scappatoie fiscali.
Per il presidente Barack Obama occorrono rinunce per uscire dalla crisi: "Dovremo rinunciare a cose che ci piacciono ma che non ci possiamo permettere". Il presidente Usa ha precisato che anche a livello di governo "sarà necessario tagliare cose che non ci servono per pagare quelle che servono", ma che non è disposto a rinunciare ali programmi che "rendono l'America forte".
Il previsto aumento del gettito fiscale, unito a una riforma dell'efficienza del servizio Medicare, aiuterebbe a creare un fondo decennale da 634 miliardi di dollari per la sanità. Obama ha così confermato la promessa fatta durante tutta la sua campagna elettorale: estendere progressivamente la copertura sanitaria a tutti i cittadini americani. Attualmente circa 46 milioni di americani sono invece esclusi da qualsiasi forma di assistenza.
Una prima misura in questa direzione, ha spiegato Obama, è un sussidio, in vigore da oggi, che aiuterà sette milioni di americani che hanno perso il lavoro a conservare la mutua che avevano prima del licenziamento. La misura è compresa nel pacchetto di stimolo: espande una estensione temporanea di un programma che consente ai neo-disoccupati di tenere la vecchia mutua se la pagano di tasca propria. La nuova misura abbassa i costi di circa due terzi per un anno. "Sette milioni di americani avranno una cosa in meno di cui preoccuparsi quando vanno a dormire", ha detto Obama.
Il disegno di legge di bilancio include inoltre centinaia di miliardi di dollari di introiti da un sistema di scambio di emissioni di gas. Gli introiti dal sistema saranno spalmati su diversi anni a partire dal 2012. Obama vuole aiutare la lotta al cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas serra come l'anidride carbonica (CO2) dalle grandi industrie e permettendo loro di commerciare i "diritti a inquinare" (il cosiddetto sistema "taglia e vendi"). E' prevista anche un'estensione oltre il 2010 dello sconto fiscale di 400 dollari all'anno previsto dal piano di stimolo approvato due settimane fa.
Per quanto riguarda le missioni militari all'estero, il presidente americano prevede una spesa pari a 663,7 miliardi di dollari per la difesa, cifra che include il costo delle guerre in Iraq e in Afghanistan (circa 130 miliardi), ossia un aumento di circa l'1,5% rispetto allo scorso anno. Nell'anno fiscale 2009 la cifra stanziata per i due conflitti era stata di 141 miliardi di dollari.
(26 febbraio 2009)

domenica 15 febbraio 2009

filmato da Davos

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=8696

Demagogia

http://it.wikipedia.org/wiki/Demagogia

Demagogia è un termine di origine lingua greca e latina (composto di demos, "popolo", e ago,is,aegi,actum,agere, "condurre, trascinare") che indica un comportamento politico incline ad assecondare le aspettative della gente, sulla base della percezione delle loro necessità. Di frequente uso nel dizionario politico, con accezione dispregiativa indica il comportamento di colui che utilizza frasi retoriche ed esprime promesse inconsistenti per accaparrarsi il favore dell'elettorato, facendo spesso leva su sentimenti irrazionali, ed alimentando la paura o l'odio nei confronti del nemico o dell'avversario politico. In altri termini, la demagogia è l'attività del politico che, in vista del proprio favore, spinge il popolo a fare qualcosa contro il suo stesso interesse, sviando la percezione delle necessità reali.

Platone come anche Aristotele indicavano la demagogia come una forma di governo che deriva dalla degenerazione della democrazia e che sarebbe preludio della tirannide o dell'anarchia.

Simone Weil

Abbiamo di fronte soltanto cose individuali e concrete eppure per conoscere usiamo termini universali e astratti.

venerdì 13 febbraio 2009

Quella lettera a mamma e papà

http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/cronaca/eluana-englaro-5/lettera-eluana/lettera-eluana.html

PALUZZA - Chissà che cosa ne direbbe Eluana, si chiedevano in molti ieri, al cimitero tra le montagne, dove un semplice prete cantava in friulano "Perdone las nostes tristeries", Perdona i nostri peccati. Un documento per sapere come la pensava Eluana c'è: un po' della voce e dei pensieri di questa ragazza, diventata donna senza saperlo, si levano dagli atti giudiziari della causa civile, da un verbale lasciato a impolverarsi negli archivi del tribunale. È la lettera di Natale a mamma e papà, del 1991, appena poche settimane prima dello schianto. È la sua ultima traccia scritta su questa terra.

"Ciao grandi", scrive Eluana. Ciao, cari genitori, "vi volevo ringraziare per tutto quello che mi avete donato, insegnato e trasmesso in questi lunghi ventun'anni trascorsi insieme. Sì perché abbiamo avuto tante divergenze e tanti piccoli grossi problemi, ma li abbiamo superati grazie al bene che ci vogliamo".
Presto ci sarebbe stato l'incidente, poi tutto quanto ormai sappiamo e, forse, stra-sappiamo, di questi diciassette anni. Ma, frase dopo frase, seguendo che cosa diceva "Eluanina" sembra di capire meglio che un po' di forza per andare sino in fondo papà Beppino l'ha trovata proprio in questo "cristallo", come l'ha chiamata. La sua Eluana l'ha accompagnato sempre, non sfondandosi le scarpe tra le scalinate dei palazzi di giustizia e l'odore delle corsie delle cliniche, ma con il ricordo di come era, con la suggestione di come sono fatti e di come parlano di sé i giovani, a vent'anni. Come forse sono stati tanti di noi: magari un po' confusi, a volte incerti, ma sicuri di saper trovare una via, se abbiamo avuto la fortuna dell'incontro con qualcuno - genitori, maestri, professori, preti, esempi, letture - in grado di aiutarci a scegliere le scarpe giuste.
"Sai tu papi, ogni tanto dici - continua Eluana - che non siamo una famiglia perfetta e hai ragione perché siamo super. Perfetto è un aggettivo che sminuisce la nostra unione. Voglio vedere quali altre famiglie dopo grosse "tempeste e bufere", come accade ogni tanto tra noi, subito dopo torna il cielo sereno e splende un sole così forte da scaldarci sino in fondo, come simbolo della pace ritrovata".
"Non vi scambierei per nulla al mondo - prosegue la lettera - perché Dio quando vi ha creato ha buttato lo stampino. Come al solito la più fortunata sono stata io, perché ho ricevuto da Dio voi. Il più bel regalo del mondo. Quindi vi sbagliate di grosso quando pensate di non essere dei buoni genitori. Penso che finalmente il tempo ve ne ha dato una dimostrazione".
No, davvero, purtroppo non è andata così, povera ragazza. E chissà quante volte, anche con questa lettera in mano, il papà ha proiettato nel cuore e nella testa l'immagine di lei che sarebbe andata a guadagnarsi il pane, a cercarsi un sogno, a inseguire un pezzettino di felicità, chissà come. Il tempo è stato crudele, invece, con Eluana, con Sati, con Beppino. Come succede a tanta gente.
Ma Eluana, in quei giorni di canti di Natale e luminarie che chiudevano il '91, non era triste. Era un po' "incasinata", aveva cambiato facoltà, ma cari genitori, dice loro, "dopo tutto nessuno nasce imparato". E, nelle sue frasi non si percepiscono insicurezza, o disamore, anzi sono gravide di sentimenti: "Io - scrive Eluana ai "grandi" - ci tengo molto a voi, siete gli unici punti fermi della mia vita "spericolata"! Spero di non deludervi mai, perché vi posso assicurare che ne soffrirei io più di voi, poiché per voi oltre a provare un grande amore nutro anche una grande stima. Sì, voi due oltre ad essere dei perfetti genitori, siete anche due buone persone, mi avete insegnato la bontà e la generosità, ma soprattutto dei grandi valori, quali il rispetto verso se stessi e gli altri e il piacere di avere una famiglia salda, calda, affettuosa sulla quale si può sempre contare. Sì, perché noi tre assieme formiamo un nucleo molto forte basato sul rispetto e l'aiuto reciproco. Bravi! L'unica cosa che vi posso dire è che vi voglio un mondo di bene e che siete due persone veramente in gamba e... spero un giorno di diventare brava come voi. Con affetto, la vostra bambina! Eluana".
Non sembrano - nucleo, reciproco soccorso e rispetto - le parole di Beppino? Parole che s'inseguono tra una vita e l'altra, parole tra genitori e figli, insegnamenti, libertà. E non ci sarebbe bisogno di aggiungere nulla, forse anzi è già troppo. Però c'è un però. Quando papà Beppino ha saputo che stavamo leggendo questa lettera compresa nelle carte giudiziarie ha voluto parlarci e, per la prima e unica volta, ha chiesto un favore: "Buttatela via, che v'interessa di quello che una figlia dice ai genitori?, che cosa cambia saperlo? Contano altri atti giudiziari", eccetera.
Un po' aveva ragione, ma un po' ha anche torto: e oggi, con Eluana che riposa accanto ai vecchi nonni, è venuto il momento di ricordare a chi non ha avuto misericordia che cos'è l'amore dentro una famiglia e che cos'è la piccola grande verità. Tanto, le chiacchiere, le maldicenze, le perversioni se le porta già via il vento, soprattutto il vento che soffia forte, quassù, dove un prete di montagna ha ricordato semplicemente che non si prega mai "contro".

(13 febbraio 2009)

giovedì 12 febbraio 2009

Perché ho il diritto di scegliere la mia morte

Perché ho il diritto di scegliere la mia morte
di UMBERTO ECO

BENCHE' il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall'altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia.

Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell'altro, ma per protestare contro l'attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d'accordo.
Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi?
Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza.
In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro. Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all'esternazione.
Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma.
Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche).
In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas...
Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall'eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l'avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un'anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo.
Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l'alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita?
Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c'è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo.
Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere?
A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell'umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me.
La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all'infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre.
La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l'orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l'inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell'inferno.
Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell'incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale?
Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D'Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l'inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso.
E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità?
Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l'hanno amata più di quanto l'abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all'amore che una morte può incarnare. "Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, - da la quale nullu homo vivente po' skappare: - guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; - beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, - ka la morte secunda no 'l farrà male".

(12 febbraio 2009)

mercoledì 11 febbraio 2009

Riconosciuta ai Maori la proprietà della haka

Riconosciuta ai Maori la proprietà della haka

Accordo da 120 milioni di euro riconosce ai nativi neozelandesi i diritti sulla danza di guerra resa celebre dai mitici All Black. Del "Ka Mate" non potranno essere più fatti usi commerciali impropri, come nel caso dello spot Fiat
Riconosciuta ai Maori la proprietà della haka La Haka degli All Black in occasione di Italia-Nuova Zelanda, nella Coppa del Mondo del 2007
di MARCO GRASSO
Con quella danza terrorizzano da oltre un secolo le squadre di rugby di mezzo mondo. Molto spesso con successo. L'haka, il rito con cui si apre ogni partita di rugby degli All Black, la leggendaria nazionale neozelandese, tornerà ai Maori. Il governo di Wellington ha accettato di riconoscerne la proprietà intellettuale a otto tribù indigene. L'accordo, mette fine a una controversia che va avanti da 160 anni, prevede un risarcimento complessivo di 300 milioni di dollari neozelandesi (circa 121 milioni di euro).

Erano anni che i Maori, popolo di grandi guerrieri, combattevano questa battaglia legale. Grazie ai successi degli All Black quella danza gode ormai di fama planetaria e ha contribuito non poco al successo di immagine della rappresentativa neozelandese. Già questo era sufficiente a suscitare le ire degli antichi abitanti dell'isola: la loro danza sfruttata dai colonizzatori, che dalle usanze dei loro avi ricavavano fama e fortuna. La "Ka Mate", dal capo guerriero Te Rauparaha, della regione Ngati Toa, all'inizio del 19mo secolo, dopo essere riuscito a sfuggire con successo all'inseguimento dei nemici.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono stati gli spot pubblicitari. In particolare, i Maori sono andati su tutte le furie per la pubblicità della Fiat, in cui l'haka, rito tradizionalmente maschile, veniva ballata da un gruppo di mamme. Un altro duro colpo fu inferto dalla performance del film Forever Strong, in cui veniva riprodotta da una squadra di rugby di un liceo americano. Più che una beffa una vera umiliazione.

Si tratta del primo accordo del genere raggiunto dal governo di Wellington. La transazione ha coinvolto otto tribù della regione Ngati Toa, circa 12mila neozelandesi maori. La proprietà intellettuale dell'haka è parte di una serie di compensazioni che la Nuova Zelanda ha riconosciuto agli indigeni per gli abusi commessi dai colonizzatori inglesi, in seguito a un accordo firmato nel lontanissimo 1840. La metà del risarcimento sarà in contanti, il resto fa parte di un pacchetto che comprende contratti di affitto forestali e crediti in cambio di emissioni.

Questo compromesso, dicono i firmatari, servirà a limitare, da ora in poi, "il cattivo uso" del rito. A quanto sembra però, gli indigeni non potranno ricevere royalties. Di certo un miracolo lo ha già compiuto: riappacificare quelle tribù unite, oggi così compatte contro i colonizzatori, che fino a un centinaio di anni fa usavano quel rito per farsi guerra tra loro.

11 febbraio 2009

lunedì 9 febbraio 2009

Rompiamo il silenzio

http://www.repubblica.it/speciale/2009/appelli/rompiamo-il-silenzio/

Rompiamo il silenzio

“Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell’umanità… La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme”.
Norberto Bobbio

Rompiamo il silenzio Mai come ora è giustificato l’allarme. Assistiamo a segni inequivocabili di disfacimento sociale: perdita di senso civico, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell’uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti. Quando i legami sociali sono messi a rischio, non stupiscono le idee secessioniste, le pulsioni razziste e xenofobe, la volgarità, l’arroganza e la violenza nei rapporti tra gli individui e i gruppi. Preoccupa soprattutto l’accettazione passiva che penetra nella cultura. Una nuova incipiente legittimità è all’opera per avvilire quella costituzionale. Non sono difetti o deviazioni occasionali, ma segni premonitori su cui si cerca di stendere un velo di silenzio, un velo che forse un giorno sarà sollevato e mostrerà che cosa nasconde, ma sarà troppo tardi.

Non vedere è non voler vedere. Non conosciamo gli esiti, ma avvertiamo che la democrazia è in bilico.

Pochi Paesi al mondo affrontano l’attuale crisi economica e sociale in un decadimento etico e istituzionale così esteso e avanzato, con regole deboli e contestate, punti di riferimento comuni cancellati e gruppi dirigenti inadeguati. La democrazia non si è mai giovata di crisi come quella attuale. Questa può sì essere occasione di riflessione e rinnovamento, ma può anche essere facilmente il terreno di coltura della demagogia, ciò da cui il nostro Paese, particolarmente, non è immune.

La demagogia è il rovesciamento del rapporto democratico tra governanti e governati. La sua massima è: il potere scende dall’alto e il consenso si fa salire dal basso. ll primo suo segnale è la caduta di rappresentatività del Parlamento. Regole elettorali artificiose, pensate più nell’interesse dei partiti che dei cittadini, l’assenza di strumenti di scelta delle candidature (elezioni primarie) e dei candidati (preferenze) capovolgono la rappresentanza. L’investitura da parte di monarchie o oligarchie di partito si mette al posto dell’elezione. La selezione della classe politica diventa una cooptazione chiusa. L’esautoramento del Parlamento da parte del governo, dove siedono monarchi e oligarchi di partito, è una conseguenza, di cui i decreti-legge e le questioni di fiducia a ripetizione sono a loro volta conseguenza.

La separazione dei poteri è fondamento di ogni regime che teme il dispotismo, ma la demagogia le è nemica, perché per essa il potere deve scorrere senza limiti dall’alto al basso. Così, l’autonomia della funzione giudiziaria è minacciata; così il presidenzialismo all’italiana, cioè senza contrappesi e controlli, è oggetto di desiderio.

Ci sono però altre separazioni, anche più importanti, che sono travolte: tra politica, economia, cultura, e informazione; tra pubblico e privato; tra Stato e Chiesa. L’intreccio tra questi fattori della vita collettiva, da cui nascono collusioni e concentrazioni di potere, spesso invisibili e sempre inconfessabili, è la vera, grande anomalia del nostro Paese. Economia, politica, informazione, cultura, religione si alimentano reciprocamente: crescono, si compromettono e si corrompono l’una con l’altra. I grandi temi delle incompatibilità, dei conflitti d’interesse, dell’etica pubblica, della laicità riguardano queste separazioni di potere e sono tanto meno presenti nell’agenda politica quanto più se ne parla a vanvera.

Soprattutto, il risultato che ci sta dinnanzi spaventoso è un regime chiuso di oligarchie rapaci, che succhia dall’alto, impone disuguaglianza, vuole avere a che fare con clienti-consumatori ignari o imboniti, respinge chi, per difendere la propria dignità, non vuole asservirsi, mortifica le energie fresche e allontana i migliori. È materia di giustizia, ma anche di declino del nostro Paese, tutto intero.

Guardiamo la realtà, per quanto preoccupante sia. Rivendichiamo i nostri diritti di cittadini. Consideriamo ogni giorno un punto d’inizio, invece che un punto d’arrivo. Cioè: sconfiggiamo la rassegnazione e cerchiamo di dare esiti allo sdegno.

* * *
Che cosa possiamo fare dunque noi, soci e amici di Libertà e Giustizia? Possiamo far crescere le nostre forze per unirle alle intelligenze, alle culture e alle energie di coloro che rendono vivo il nostro Paese e, per amor di sé e dei propri figli, non si rassegnano al suo declino. Con questi obiettivi primari.

Innanzitutto, contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione, come il presidenzialismo e l’attrazione della giurisdizione nella sfera d’influenza dell’esecutivo. Nelle condizioni politiche attuali del nostro Paese, esse sarebbero non strumenti di efficienza della democrazia ma espressione e consolidamento di oligarchie demagogiche.

Difendere la legalità contro il lassismo e la corruzione, chiedendo ai partiti che aspirano a rappresentarci di non tollerare al proprio interno faccendieri e corrotti, ancorché portatori di voti. Non usare le candidature nelle elezioni come risorse improprie per risolvere problemi interni, per ripescare personaggi, per pagare conti, per cedere a ricatti. Promuovere, anche così, l’obbligatorio ricambio della classe dirigente.

Non lasciar morire il tema delle incompatibilità e dei conflitti d’interesse, un tema cruciale, che non si può ridurre ad argomento della polemica politica contingente, un tema che destra e sinistra hanno lasciato cadere. Riaffermare la linea di confine, cioè la laicità senza aggettivi, nel rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica, indipendenti e sovrani “ciascuno nel proprio ordine”, non appartenendo la legislazione civile, se non negli stati teocratici, all’ordine della Chiesa.

Promuovere la cultura politica, il pensiero critico, una rete di relazioni tra persone ugualmente interessate alla convivenza civile e all’attività politica, nel segno dei valori costituzionali.

Adesso basta dialogo

http://temi.repubblica.it/micromega-online/travaglio-adesso-per-favore-basta-dialogo/


Travaglio: Adesso, per favore, basta dialogo
di Marco Travaglio, voglioscendere.ilcannocchiale.it

Alla fine, buon ultimo, con una quindicina d’anni di ritardo, è arrivato anche il Corriere della sera. Il giornale vicediretto da Pigi Battista, che ancora giovedì sera ad Annozero domandava allibito: “Siamo forse un paese a sovranità limitata?”. Gli ha risposto Antonio Tabucchi, che vivendo tra Parigi e Lisbona riesce a cogliere meglio l’anomalia italiana, e ha ricordato lo spaventoso conflitto d’interessi berlusconiano. Che non dipende soltanto dal possesso di tv, giornali, banche, assicurazioni e tutto il resto. Ma dal fatto che Silvio Berlusconi è incompatibile con la Costituzione.

Ieri il Corriere ha scritto che il premier è andato “oltre ogni misura” definendo “sovietica” la Costituzione sulla quale ha giurato. Ma l’aveva già detto a Torino il 12 aprile 2003: solo che all’epoca tutti fecero finta di niente. Come sempre. Come quando, tre mesi dopo, il Cavaliere iniziò a violentare la Carta col lodo Maccanico-Schifani, proseguendo poi col falso in bilancio, col decreto salva-Rete4 (che, come quello contra Eluana, cancellava la sentenza del 2002 della Consulta su Rete4, ma fu frettolosamente firmato dal capo dello Stato), con la legge Pecorella che aboliva l’appello solo per i pm, con la devolution concepita in una baita del Cadore, e ultimamente con il dolo Alfano, con l’ennesima controriforma della giustizia e con la porcata sulle intercettazioni.

Una guerra quotidiana alla divisione dei poteri, cambiando le leggi a propria immagine e somiglianza. Sono 15 anni che Berlusconi, ogni giorno che Dio manda in terra, va “oltre ogni misura”. E se - come scrive il Corriere - siamo a “uno dei più duri scontri istituzionali del dopoguerra repubblicano”, dipende esclusivamente dal fatto che solo oggi il caudillo di Arcore s’imbatte in un No chiaro e netto del Quirinale. Le altre volte l’han sempre, o quasi, lasciato fare. Per quieto vivere, nella speranza che fosse l’ultima volta. Invece era sempre la penultima. Vedremo se questa sarà finalmente l’ultima. Ma c’è da dubitarne. Nemmeno stavolta il Corriere trae dalla svolta eversiva del premier le dovute conseguenze (quelle tratte da Scalfari, che evoca la svolta autoritaria mussoliniana del 3 gennaio 1925) e torna a indossare i panni del pompiere: “auspica” una “ricucitura”, per “ricreare un clima meno tempestoso tra Palazzo Chigi e Quirinale” e “sanare una grave fattura tra le istituzioni”. Questa maledetto vizio di presentare gli attacchi berlusconiani alla Giustizia e alla Costituzione come “scontro fra poteri” non fa che il gioco di Berlusconi. Perché qui non c’è nessuno “scontro”. Qui c’è un signore che da 15 anni aggredisce e qualcun altro che ogni tanto, troppo raramente, difende le istituzioni aggredite. Berlusconi non fa cose incostituzionali: è lui, ontologicamente, incostituzionale. Un’opposizione degna di questo nome avrebbe già occupato il Parlamento in segno di protesta. E’ troppo chiedere che, almeno, la nostra opposizione abolisca per sempre la parola “dialogo”?

(9 febbraio 2009)

Il veleno nichilista che anima il regime

http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/politica/appello-liberta-giustizia/veleno-nichilista/veleno-nichilista.html


di GUSTAVO ZAGREBELSKY

Viviamo un momento politico-costituzionale certamente particolare. Questo non è in discussione, sia presso i fautori, sia presso i detrattori del regime attuale. Non sarà fuori luogo precisare che, in questo contesto, la parola regime vale semplicemente a dire - secondo il significato neutro per cui si parla di regime liberale, democratico, autoritario, parlamentare, presidenziale, eccetera - "modo di reggimento politico" e non ha alcun significato valutativo, come ha invece quando ci si chiede, con intenti denigratori espliciti o impliciti, se in Italia c'è "il regime". Ma che tipo di regime? Questa è la domanda davvero interessante.

Alla certezza - viviamo in "un" regime che ha suoi caratteri particolari - non si accompagna però una definizione che dia risposta a quella domanda. Sfugge il carattere fondamentale, il "principio" o (secondo l'immagine di Montesquieu) il ressort, molla o energia spirituale che lo fa vivere secondo la sua essenza. Un concetto semplice, una definizione illuminante, una parola penetrante, sarebbero invece importanti per afferrarne l'intima natura e per prendere posizione.

Le definizioni, per la verità, non mancano, spesso fantasiose e suggestive. Anzi sovrabbondano, a dimostrazione che, forse, nessuna arriva al nocciolo, ma tutte gli girano intorno: autocrazia; signoria moderna; egoarchia; governo padronale o aziendale; dominio mediatico; grande seduzione; regime dell'unto del Signore; populismo o unzione del popolo; videocrazia; plutocrazia, governo demoscopico. Si potrebbe andare avanti. Si noterà che queste espressioni, a parte genericità ed esagerazioni, colgono (se li colgono) aspetti parziali e, soprattutto, sono legate a caratteri e proprietà personali di chi il regime attuale ha incarnato e tuttora incarna.

Ed è una visione riduttiva, come se si trattasse soltanto di un affare di persone; come se, cambiando le persone, potesse cambiare d'un tratto e del tutto la trama della politica. Invece, prassi, mentalità e costumi nuovi si sono introdotti partendo da lontano; sistemi di potere e metodi di governo sono stati istituiti. Un regime non nasce di colpo, va consolidandosi e forse andrà lontano. È un'illusione pensare che ciò che è stato ed è possa poi passare senza lasciare l'orma del suo piede. La questione che ci interroga è quella di cogliere con un concetto essenziale, comprensivo ed esplicativo di ciò che di oggettivo è venuto a stabilizzarsi e a sedimentare nella vita pubblica e che opera e opererà in noi, attorno a noi e, forse, contro di noi. Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente "berlusconismo", dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là.

Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un'essenza - giusti o sbagliati che siano - si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l'essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c'è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile.

A meno di credere a parole d'ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa - libertà, identità nazionale, difesa dell'Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere - il fine non si vede affatto, forse perché non c'è. O, più precisamente, il fine c'è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un'aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d'essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere.

A parte forse l'autore della massima "il potere logora chi non ce l'ha", nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. "Il fine giustifica i mezzi" è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se "i mezzi giustificano i mezzi"? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della "ragione strumentale" nella politica.

Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all'occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso.

Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l'uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l'uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch'egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là.

Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un "centro" senza contorni; si può avere un'idea, ma anche un'altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, "si è alla ricerca"; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il "politico" di successo, in questo regime, è il profittatore, è l'uomo "di circostanza" in ogni senso dell'espressione, è colui che "crede" in tutto e nel suo contrario.

Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d'arresto può essere l'inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo.

La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell'essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere "disturbato". L'uomo di potere, di questo tipo di potere, non vede di fronte a sé alcuna natura esterna, poiché diventa ai suoi occhi egli stesso natura (naturalmente, lo si sarà compreso, si sta parlando di "tipo ideale", cioè di un modello che, nella sua perfezione, esiste solo in teoria).

Abbiamo iniziato queste considerazioni col proposito di cercare una definizione che, in una parola, condensi tutto questo. L'abbiamo trovata? Forse sì. Non ci voleva tanto: nichilismo, inteso come trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, scetticismo circa tutto ciò che supera l'ambito (sia esso pure un ambito smisurato) del proprio interesse. Chi conosce la storia di questo concetto sa di quale veleno, potenzialmente totalitario, esso abbia mostrato d'essere intriso. Ciò che, invece, si fa fatica a comprendere è come chi tuona tutti i giorni contro il famigerato "relativismo" non abbia nessun ritegno, addirittura, a tendergli la mano.

(9 febbraio 2009)

domenica 8 febbraio 2009

La fine di un regime economico

http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/la-fine-di-un-regime-economico/


L’inizio della recessione globale segna non soltanto l’inizio della parabola discendente del ciclo economico attuale, ma anche la fine del regime di crescita economica degli ultimi vent’anni. Questo regime (di “finanziarizzazione”) è caratterizzato dalla crescente importanza dei motivi finanziari, dei mercati finanziari, degli operatori finanziari e delle istituzioni finanziarie nel funzionamento del sistema economico “globalizzato”.

Questo regime emerse all’inizio degli anni 1990. In esso, la crescita economica è indotta dall’aumento delle spese di consumo finanziate dall’indebitamento personale in quanto fenomeno di massa. Questa specificità dell’attuale regime di crescita economica è alla base della crisi del capitalismo finanziario e ne costituisce il difetto principale. Infatti, la recessione in atto sarà tanto diffusa e prolungata da provocare la crisi del regime di crescita economica che l’ha generata, in quanto nessuna istituzione finanziaria sarà disposta a erogare nuovi crediti alle categorie di persone il cui reddito disponibile non permetterà di finanziare il livello delle spese di consumo mantenuto sotto questo regime. Dato che la progressione delle spese di consumo è indispensabile per la crescita economica, e che tali spese non saranno più finanziate con il credito erogato dagli operatori finanziari, il regime di crescita basato sulla finanziarizzazione viene meno ai suoi presupposti ed è dunque destinato a essere rimosso dopo la crisi.

La finanziarizzazione conferisce ai principali azionisti delle società quotate in Borsa un controllo maggiore sulle stesse, inducendole prima di tutto a massimizzare il rendimento dei fondi propri e da qui gli utili da versare quale dividendo agli stessi azionisti. Questa strategia aziendale implica la riduzione sistematica dei costi di produzione, primi fra tutti i salari – facendo eccezione dei lauti stipendi degli alti dirigenti e dei lavoratori molto qualificati. I contratti collettivi di lavoro e i sindacati sono stati così sostituiti dal decentramento dei negoziati salariali sul piano aziendale e dalla personalizzazione dei contratti di lavoro sulla base delle qualifiche dei lavoratori assunti, permettendo in tal modo di ridurre i costi di produzione abbattendo il costo del lavoro – anche grazie alle scelte di politica monetaria orientate prioritariamente alla stabilità dei prezzi anziché alla lotta contro la disoccupazione. Si giunge così alla “grande moderazione” salariale per effetto della liberalizzazione e delle innovazioni finanziarie, che hanno consentito di sostituire gli aumenti salariali con varie forme di credito al consumo per mantenere una crescita economica sostenuta e duratura nel tempo.

Il caso degli Stati Uniti è emblematico a questo riguardo. Nell’economia statunitense, la parte dei salari nel reddito nazionale è tendenzialmente diminuita, da circa 75 per cento negli anni Settanta del secolo scorso a circa 67 per cento nel 2006. Questa diminuzione implicò inizialmente anche la diminuzione del tasso di crescita economica, ma la tendenza si ribaltò negli anni 1990: da quella data si osserva uno scollamento tra l’andamento della crescita economica e l’evoluzione dei salari. I consumi non sono più finanziati soltanto dai salari, ma anche e soprattutto dal credito erogato dalle banche e da società finanziarie non-bancarie, che trovano in questa loro attività la fonte di ulteriori guadagni nella forma di compensi e commissioni per il solo fatto di concedere prestiti, anche ipotecari, ed emettere carte di credito al consumo.

Negli Stati Uniti il credito al consumo mostra infatti un aumento tendenziale al tempo stesso della “grande moderazione” salariale. Esso rappresentava circa il 14 per cento del reddito nazionale alla fine degli anni 1980, con una percentuale più che raddoppiata nel 2006. Si osserva d’altra parte una sincronizzazione tra il tasso di crescita economica e il tasso di crescita del credito al consumo. Negli Stati Uniti, i debiti delle famiglie sono aumentati dal 62 per cento del loro reddito disponibile, nel 1975, al 127 per cento nel 2006. Se riferita al prodotto interno lordo, la percentuale dei debiti contratti dalle famiglie statunitensi è anch’essa raddoppiata nel medesimo arco temporale. Dal canto loro, i debiti ipotecari nel 2006 rappresentavano ormai il 97,5 per cento del prodotto interno lordo statunitense (la percentuale era la metà nel 1975).

Ora, la crisi finanziaria in atto comporta, fra le altre cose, un restringimento del credito in generale e, in particolare, il blocco totale del credito al consumo negli Stati Uniti. In questo modo, le spese per consumi delle famiglie sono amputate della loro componente che ne assicurava l’aumento tendenziale nel regime della finanziarizzazione. In questo regime, il credito al consumo si fonda in sostanza sulla messa in pegno, quale garanzia di rimborso, del patrimonio personale, un impegno tanto più richiesto dai finanziatori quanto i mutuatari subiscono la “grande moderazione” salariale. Sebbene gli attivi posti a garanzia dei prestiti possano essere dei titoli finanziari, per esempio delle azioni, si tratta soprattutto di proprietà immobiliari, che servono a garantire una somma maggiore dell’ipoteca concessa per il loro acquisto. Si sviluppano così gli “home equity loans”, una forma particolare di credito al consumo che, per una banca, consiste nel valutare la differenza tra il prezzo di vendita potenziale dell’abitazione del mutuatario e il prezzo del suo acquisto effettivo (deduzione fatta degli interessi maturati sull’oggetto immobiliare, se il suo acquisto fu finanziato mediante un’ipoteca), concedendo allora un credito al consumo per l’ammontare della suddetta differenza garantita dalla stessa proprietà immobiliare. Se il mutuatario non potrà pagare in futuro le rate del prestito così concesso, la vendita della sua proprietà permetterà al finanziatore di essere ripagato dal “mercato”, con maggior facilità quando i prezzi nel settore immobiliare continuano ad aumentare.

Nell’ultimo ventennio, gli “home equity loans” negli Stati Uniti sono diventati via via sempre più importanti rispetto all’ammontare totale dei crediti al consumo. Dopo essere rimasti attorno al 20 per cento di questo totale fino alla fine degli anni 1990, essi sono progrediti in maniera sostenuta fino a rappresentare più del 30 per cento dei crediti al consumo nel 2006. Per tale motivo, sin dai primi anni 1990, il mercato immobiliare è stato il motore principale della crescita economica negli Stati Uniti.

La crisi finanziaria rimette in causa durevolmente l’aumento sostanzioso dei prezzi delle proprietà immobiliari, senza il quale le lucrative pratiche di “home equity lending” non possono svilupparsi e sostenere così le spese di consumo delle famiglie statunitensi. Questo fenomeno blocca quindi la dinamica autorinforzante del credito, della domanda di immobili, e dell’aumento dei prezzi delle proprietà residenziali. Anche supponendo che il restringimento del credito in generale cui si assiste nella crisi in atto (soprattutto ma non soltanto negli Stati Uniti) sia di breve periodo, questa crisi colpisce inesorabilmente una delle due principali condizioni necessarie per questa dinamica autorinforzante: i prestiti ipotecari a rischio elevato (“subprime”). L’altra principale condizione necessaria è data dal ridotto livello dei tassi di interesse, verificatasi dallo scoppio della crisi nell’agosto 2007. Sebbene i tassi di interesse resteranno a livelli molto bassi per almeno ancora un anno, vale a dire fintanto che la recessione non sarà superata mediante una timida ripresa, la dinamica del regime di crescita finanziarizzata non sarà riattivata. Da un lato, il numero dei pignoramenti e degli abbandoni delle proprietà residenziali continua ad aumentare e lo farà ancora durante tutto il 2009, perché le famiglie statunitensi non riescono più a far fronte ai propri debiti sia ipotecari sia di altro tipo (tra cui spiccano quelli contratti con le loro numerose carte di credito e i leasing di autoveicoli). Questa tendenza blocca ogni incentivo a concedere nuovi mutui “subprime”. D’altro lato, i vari operatori nel settore finanziario (banche, assicurazioni, fondi di investimento, e via dicendo) non sembrano più disposti ad acquistare titoli che trasferiscono ai loro possessori i rischi legati direttamente o indirettamente ai mutui “subprime”.

L’impossibilità di rilanciare i prestiti “subprime” rimette in causa in maniera durevole l’aumento rilevante dei prezzi delle proprietà immobiliari, che a sua volta rimette allora in causa l’incremento degli “home equity loans”. Il credito al consumo è così minacciato nella sua crescita tendenziale, ripercuotendosi negativamente sull’aumento delle spese di consumo statunitensi e, da qui, sulla continuazione del regime di crescita economica basato sulla finanziarizzazione, giunto al termine del suo “ciclo di vita” con una crisi di ampiezza e proporzioni dirompenti per l’economia mondiale.

Crisi economica e crisi ambientale

http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/ravaioli-pirro/

Carla Ravaioli* - 19 Gennaio 2009


Riceviamo e volentieri pubblichiamo, l’uno accanto all’altro, gli articoli di Federico Pirro e Carla Ravaioli. Si tratta di interventi dai quali traspare una sensibilità molto diversa sui temi della produzione e dell’ambiente. Noi riconosciamo pienamente le ragioni dell’ambientalismo, anche se ancora attendiamo che le cosiddette teorie della decrescita, cui parte del movimento ecologista tende ad appellarsi, diano prova di coerenza scientifica e di non contraddittorietà politica rispetto alle istanze del lavoro subordinato. Ma soprattutto siamo convinti che in generale si debba cercare di  uscire dalla contrapposizione tra un industrialismo lesivo dell’ambiente e un anacronistico ambientalismo antindustrialista. Sebbene ancora molto sia il lavoro da fare in tal senso, negli articoli qui presentati si individuano alcuni passi nella giusta direzione. Il nostro auspicio è che la loro pubblicazione possa dare avvio a un dibattito teso concretamente, e finalmente, alla individuazione di una “sintesi” tra le diverse visioni. (La Redazione).


“Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo. Oppure un economista.”
Autore di questa battuta, divenuta proverbiale nel mondo dell’ambientalismo più qualificato, è un economista, Kenneth Boulding. Uno dei pochi ardimentosi che negli anni Settanta, nel pieno del boom produttivistico postbellico, tentavano di sollevare qualche dubbio sulle certezze che ne animavano il fervore, e già allora sostenevano che l’economia mondiale doveva essere interamente ripensata in difesa dell’economia della biosfera, dunque in funzione della sua propria prosperità che dalla biosfera appunto trae alimento: dai grandi vecchi del Club di Roma, ai giovani ricercatori del MIT [1], a un piccolo drappello di economisti anomali, (in testa  Nicholas Georgescu-Roegen, che in base al 2° principio della termodinamica aveva dimostrato l’inevitabile e irreversibile degrado di materie e energie impiegate nei processi produttivi) si impegnarono a convincere il mondo che il sistema industriale capitalistico andava consumando la base stessa del suo operare.
Non furono ascoltati. Proprio sulla totale assenza di dubbi circa la possibilità di una crescita infinita in un mondo finito, la società ha costruito se stessa. E continua. Forse (per richiamarci ancora a Boulding) perché come arbitri della politica mondiale si sono imposti gli economisti?
In effetti, battute a parte, si direbbe che ancora oggi nessuno dei responsabili del nostro futuro abbia nozione del rischio sempre più tremendo che l’umanità corre, tanto da affidarsi al tentativo di rilanciare e - al grido di “consumate, consumate!”- spingere al recupero della sua massima capacità produttiva un’economia al collasso. Rischio da un lato di un irrecuperabile squilibrio ecologico planetario, dall’altro di una divaricazione in continuo mostruoso aumento nella distribuzione del reddito (i dati più recenti parlano dell’ 1% della popolazione mondiale che detiene il 50% della ricchezza).
Se questa è la linea dei governi, la critica più seriamente impegnata dal canto suo tenta di correggerne le più intollerabili conseguenze, contrapponendovi scelte orientate a difesa del lavoro, a maggiore benessere sociale, a una più razionale conduzione delle politiche operanti; solitamente però senza mettere in discussione la logica portante di queste stesse politiche, senza interrogarsi sulle “leggi” del mercato, o pensare il capitalismo alla pari di ogni fenomeno storico, come tale non fatalmente destinato a dar forma al nostro futuro. E (ciò che oggi pare addirittura inspiegabile) senza mai occuparsi adeguatamente del pericolo ambientale: solitamente per lo più appena citato, insieme alla “questione di genere”, nel lungo elenco dei problemi da affrontare; o, nel migliore dei casi, preso in considerazione  unicamente sotto la specie del mutamento climatico, e delle “energie rinnovabili” che dovrebbero risolverlo: nell’assurda convinzione (la stessa delle destre d’altronde) di garantire così la continuità di una felice e totalmente innocua crescita produttiva. Ma di queste cose mi sono occupata più volte (ne ho parlato anche nel mio intervento al convegno dedicato a “L’economia della precarietà” [2]) e non voglio insistere.
Credo interessante invece soffermarsi a riflettere su quanto di nuovo, negli ultimi tempi, e soprattutto da alcuni mesi in presenza della crisi finanziaria-economica, è emerso nella maggiore attenzione che non pochi intellettuali di fama (tra cui anche qualche economista) dedicano alle questioni ambientali. Certo dovuta ai sempre più allarmati richiami della scienza mondiale, concorde nel segnalare da un lato l’ormai estrema pericolosità del guasto ecosistemico [3], dall’altro il prossimo esaurimento delle risorse, non soltanto energetiche [4]. Ma sicuramente in qualche misura indotta anche dalla crisi che, dopo il fallimento di giganti finanziari americani e il crollo delle borse di tutto il mondo, parla ora di recessione, di grandissime industrie a rischio, di disoccupazione massiccia.
Mi pare interessante in questa chiave la messa a fuoco di una radice comune delle due crisi, economica e ambientale, da alcuni meramente accennata ma dettagliatamente analizzata da altri. Il primo non solo a intuire ma a descrivere, con grande anticipo su tutti gli altri, la reciprocità di determinazione dei due fenomeni, è stato indubbiamente André Gorz che, in particolare in un articolo apparso poco avanti la sua morte [5], con parole addirittura profetiche ha indicato nella sovraproduzione (da lui già in precedenza denunciata come prima responsabile dello squilibrio ecosistemico) l’origine della crisi finanziaria. Nota infatti come l’enorme massa monetaria derivante dalla vendita, sia pure incompleta, delle merci prodotte, sempre più cerca investimento nell’”industria finanziaria”: quella che “crea danaro mediante danaro (…) comprando e vendendo titoli finanziari e gonfiando bolle speculative”, dando l’impressione di grande floridezza economica, ma fondata “in realtà su una crescita vertiginosa di debiti di ogni sorta (…) destinata prima o poi a esplodere, portando al limite al crollo del sistema bancario mondiale”. 
Ad accomunare le due crisi, e a ricondurle a una sola origine, l’insostenibilità dell’economia capitalistica, è anche l’antropologo Jared Diamone, che in qualche modo ne aveva anticipato cause e processi, ricostruendo la morte di grandi civiltà del passato nel suo celebre saggio “Collasso” [6]. Di “Due minacce”, entrambe determinate dai processi di globalizzazione (cui seguono inquinamento, maggiore disuguaglianza, squilibrio finanziario) parla anche l’economista indiano Prem Shankar Jha [7]. “Le due crisi si alimentano a vicenda”, scrive su “The Guardian” (12 dicembre 08) il prestigioso notista politico Gorge Monbiot. Letture analoghe della storia mondiale di questi mesi sono firmate dal filosofo Paul Virilio (Le Monde, 3 dicembre 08), dal biologo Edward  O. Wilson (N.Y. Times, 27 novembre 08), da un folto gruppo di intellettuali sudamericani riuniti a Caracas e autori di un ampio appello politico. Tutti d’altronde si dicono convinti dell’ impossibilità di trovare soluzione ai problemi attuali all’interno delle regole e della “filosofia” del capitale, che ne è principale responsabile; tutti d’altronde si dichiarano ben poco fiduciosi in una piena ripresa del capitalismo, quanto meno nella forma attuale.
Ma ho accennato anche a qualche economista, in (eccezionale) posizione critica verso l’attuale sistema produttivo. Il primo è stato Nicholas Stern, ex-consigliere economico di Blair che, facendo riferimento alla crisi ambientale, in una conferenza svoltasi a Manchester il 29 novembre di un anno fa, disse: “Siamo di fronte al più grosso fallimento del mercato che il mondo abbia mai visto”; e, rilanciando una precedente proposta di Ban-Ki-Moon, segretario generale dell’Onu, affermò la necessità di tagliare il Pil mondiale almeno dell’1%, “per diversi decenni”.
A sua volta il Nobel Joseph Stiglitz, intervistato da La Repubblica il 6 dicembre scorso, alla domanda se, superata la crisi, l’economia mondiale potrà riorganizzarsi sulla linea attuale, di nuovo puntando su crescita, consumi, Pil , senza esitare risponde: no. Il capitalismo americano, e insieme tutto il capitalismo mondiale hanno vissuto per decenni sulle bolle speculative, cioè a dire credito facile, speculazione… Ma tutto ciò - afferma - non potrà ripetersi, almeno non nella dimensione che conosciamo. Magari forse avremo un capitalismo diverso, basato sulla distribuzione del reddito e della ricchezza, e la distribuzione potrà forse rimettere in moto l’economia…
“Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?” si chiede Eugenio Scalfari il giorno dopo, sempre su “Repubblica”, dopo essersi richiamato all’intervista di Stiglitz, e dopo aver ricordato come nel 1911 “l’allora giovane liberale Luigi Einaudi” avesse lanciato l’idea di un’imposta patrimoniale di successione che, oltre una certa soglia di reddito, “tassasse i patrimoni con un’aliquota del 50 % da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza”. Se lo chiede senza scandalo né eccessiva apprensione, come in vista di un normale avvicendamento della storia. E la cosa non mi pare di poco interesse da parte di una persona come Scalfari, da sempre certo “di sinistra”, mai però su posizioni  “antisistema”.
Non sarebbe il caso che anche le sinistre organizzate si impegnassero a immaginare la possibilità di un mondo senza capitalismo, o comunque di un “mondo diverso”, come i movimenti a lungo hanno dichiarato non solo necessario ma possibile? Superando finalmente  “quella sorta di complesso di inferiorità delle sinistre nei confronti di quelle che vengono chiamate le leggi economiche. Per cui nei partiti comunisti c’è sempre stato un curioso miscuglio, di esigenza di superamento del capitalismo da un lato, e dall’altro paura di disturbare un assetto al quale si attribuisce il valore di straordinario ordinatore della società, al di fuori del quale non sembra esistere possibilità di ordine”. Come notava Claudio Napoleoni [8] nel discutere dell’ipotesi di una forte e generalizzata riduzione dei tempi di lavoro, da lui fortemente e per più ragioni auspicata. Magari un’idea da recuperare oggi?
 *Saggista.
[1] “I limiti dello sviluppo” Mondadori 1972, il primo famosissimo libro sulla materia, fu commissionato dal Clud Roma, presieduto da Aurelio Peccei, e firmato da un gruppo do studiosi del Mit.
[2] Con lo stesso titolo gli atti del convegno sono pubblicati a cura di Paolo Leon e Riccardo Realfonzo, Manifestolibri 2008.
[3] “Decarbonizzare per intero l’economia globale” è una urgente necessità secondo il Tyndal Center for Climate Research 8V. (Internazionale 12 dicembre 08).
[4] “Le risorse dell’anno sono esaurite – Da domani la Terra è in rosso”, titolava in prima pagina La Repubblica del 22 ottobre scorso.
[5] André Gorz, “Crise mondiale, Dècroissence et Sortie du capitalisme”, in Entropia, 2007, N°2.
[6] J. Diamond – Come le società scelgono di morire o vivere. Einaudi 2005.
[7] Tra l’altro, autore di un libro significativamente intitolato “Il caos prossimo venturo”, Neri Pozza 2007.
[8] E’ un momento di “La politica degli orari di lavoro”, dialogo in appendice alla 2a edizione di C. Ravaioli, “Tempo da vendere | Tempo da usare”, F.Angeli 1988, p.158.

L'inganno delle fondazioni

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L’art. 16 del decreto-legge n. 112 del 2008, come convertito in legge n. 133 del 2008 attribuisce alle università, o meglio al senato accademico, la facoltà di trasformarsi in fondazioni di diritto privato; si attribuisce a tale organo il potere di cambiare natura giuridica e trasformare l’università da soggetto di diritto pubblico in soggetto privato.

L’incipit del primo comma dell’art. 16 è il seguente: “In attuazione dell’art. 33 della Costituzione, nel rispetto delle leggi vigenti e dell’autonomia didattica, scientifica organizzativa e finanziaria, le Università pubbliche possono deliberare la propria trasformazione in fondazioni di diritto privato”.

Tale disposizione va letta tenendo ben presente l’ultimo comma dell’art. 33 Cost. che recita: “Le Istituzioni di alta cultura, Università ed accademie hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.

In questo senso, va chiarito che l’autonomia universitaria, nello spirito originario del dettato costituzionale, non può essere inteso come un principio finalizzato a realizzare micro o macro entità accademiche, basate su un sistema di regole arbitrarie, autarchiche e tendenzialmente tese ad assecondare logiche clientelari, dissonanti con la ricerca e l’insegnamento, oltre che foriere di pericolosi disavanzi di bilancio. L’autonomia, piuttosto, va intesa quale requisito meta-giuridico, funzionale e servente al raggiungimento d’altri principi e diritti fondamentali, e pertanto, limitata e incapsulata nel sistema costituzionale; essa non dovrebbe avere quale obiettivo la parcellizzazione del sistema, né la creazione di tanti microsistemi diseguali.

Fino ad oggi, le fondazioni hanno operato al fianco del sistema universitario pubblico, immaginate non per avere carattere sostitutivo rispetto al sistema pubblico, ma piuttosto intese come strumenti finalizzati alla riduzione della spesa e allo svolgimento più efficiente di attività strumentali di supporto alla didattica e alla ricerca, viceversa, nell’ambito della nuova legge, le fondazioni universitarie avrebbero più che carattere di supporto, secondo il modello della sussidiarietà, carattere sostitutivo rispetto al soggetto pubblico.

Subordinare l’autonomia, non soltanto a fondi privati, ma alla governance di soggetti privati, o peggio, a soggetti pubblici che agiscono secondo schemi e logiche dell’autonomia privata, rappresenta l’attacco più vile che si possa fare alla stessa identità costituzionale dello Stato italiano; significa minare alla base la crescita e lo sviluppo di un Paese.

Con la nuova legge, dunque, o il pubblico decide di “giocare” a fare il privato con strutture e risorse pubbliche, non consentendo l’ingresso dei privati, oppure consentendo l’ingresso di soggetti privati nella fondazione universitaria, li trasforma da meri finanziatori esterni a quota-parte proprietari dell’università. Infatti, il II comma prevede che al fondo di dotazione delle fondazioni universitarie sia trasferita la proprietà di beni immobili, già in uso alle università trasformate.
Ai sensi del I e II comma, il senato accademico, deliberando la propria trasformazione in fondazione di diritto privato e contestualmente adottando lo statuto ed i regolamenti di amministrazione e contabilità (VI comma), a maggioranza assoluta, non soltanto può decidere la dismissione di proprietà pubblica a favore di soggetti privati, o gestire la proprietà pubblica con modelli e finalità privatistiche, ma può altresì rinegoziare, con l’adozione di un nuovo statuto, la governance della fondazione, fissando nuovi criteri di organizzazione e nuovi obiettivi di ricerca ed insegnamento.

Si possono immaginare nuove strategie che con i nuovi assetti proprietari, o con la nuova logica privatistica del pubblico, non potrebbero che essere orientati al mercato ed al profitto. Ciò si verificherebbe, appunto, anche nel caso in cui l’assetto proprietario del nuovo soggetto privato restasse pubblico; mi riferisco ovviamente all’ipotesi in cui l’università effettua una mera trasformazione del suo abito giuridico, o all’ipotesi di aggregazioni pubblico-pubblico (università, regioni, enti locali, società per azioni pubbliche, società a prevalenza di capitale pubblico). Quest’ultima ipotesi favorirebbe una miscela esplosiva tra interessi privati e interessi pubblici oscuri, che si fonderebbero e svilupperebbero sulla base di un patrimonio totalmente pubblico; sorgerebbe un Giano bifronte privo, come vedremo successivamente, di reali ed efficaci controlli. Si sarebbe in presenza di un soggetto in balia delle più volgari pressioni politiche, con buona pace dell’autonomia!

Mentre il passaggio dalla proprietà privata alla proprietà pubblica richiede per il nostro ordinamento giuridico una serie di garanzie per il privato, comunque titolare del diritto all’indennità, bizzarramente, nel caso di specie, il senato accademico, senza obbligo di particolari motivazioni, può decidere la dismissione del patrimonio pubblico (il procedimento tecnicamente si perfeziona con decreto dell’agenzia del demanio). Al soggetto pubblico, ex proprietario, non è riconosciuta alcuna indennità. È bene dirlo, la collettività viene depauperata; un bene comune, realizzato in forza del principio costituzionale della fiscalità generale, viene privatizzato.

La norma sul punto è molto chiara (II comma): le fondazioni universitarie, già enti pubblici, subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi e nella titolarità del patrimonio dell’università. Al fondo di dotazione delle fondazioni universitarie è trasferita, con decreto dell’agenzia del demanio, la proprietà dei beni immobili già in uso alle università trasformate.

Quindi, non siamo più soltanto in una logica, più o meno sana, di acquisizione di altre risorse, ma piuttosto in una logica di dismissione di risorse pubbliche, a vantaggio di un soggetto privato, che, con altra veste giuridica, può anche rimanere pubblico. Il nuovo proprietario dei beni e servizi, soggetto di diritto privato, sarà quello che avrà la governance della fondazione universitaria.

Nuovi soggetti e nuovi proprietari andranno sul mercato con agevolazioni fiscali straordinarie, non pagando nulla al fisco e quindi nulla alla collettività (si veda il III comma che prevede che gli atti di trasformazione e di trasferimento degli immobili e tutte le operazioni ad essi connesse siano esenti da imposte e tasse).

La norma (IV comma) tiene a precisare che le fondazioni universitarie sono enti non commerciali, tuttavia possono perseguire scopi di diritto privato, come consentito dalla loro natura giuridica e orientare la loro azione secondo principi di economicità della gestione. Lo sviluppo della cultura, la ricerca scientifica, la libertà d’insegnamento, tutto diventa orientato al principio di economicità; è così possibile affermare che la stessa autonomia sia orientata al principio di economicità.

Va chiarito inoltre che le fondazioni universitarie possono svolgere attività commerciali, pur non essendo assoggettate alle regole proprie degli imprenditori commerciali. In sostanza, l’elemento distintivo degli enti non commerciali è quello di non avere, ad oggetto esclusivo o principale, lo svolgimento di un’attività di natura commerciale, intendendosi per tale attività quella che determina reddito d’impresa. Ciò significa che le fondazioni universitarie, pur dovendosi qualificare per la rilevanza sociale delle finalità perseguite, possono produrre, seppur limitatamente e non come attività principale, reddito d’impresa.

Ai sensi del XI comma dell’art. 16, resta fermo il sistema di finanziamento pubblico. È possibile dunque che risorse finanziarie pubbliche non soltanto siano “depistate” verso soggetti privati, o pubblici che agiscono come un privato, ma altresì siano esternalizzate e a questo punto il controllo sulle risorse pubbliche da parte della Corte dei conti, diventerebbe realmente impossibile.

In ogni caso, la norma è ambigua, in particolare nella parte in cui si afferma che il finanziamento pubblico costituisce elemento di valutazione a fini perequativi. Ciò vuol dire che saranno destinati maggiori finanziamenti pubblici alle fondazioni universitarie con minori finanziamenti privati, o significa l’esatto opposto come i recenti meccanismi di co-finanziamento fanno pensare?

Si conferma il principio del co-finanziamento, già introdotto dalla legge n. 537 del 1993, che tuttavia assume connotati assolutamente diversi, allorquando il soggetto che decide è un soggetto privato, o falsamente pubblico, che non necessariamente rivolge tutti i suoi interessi all’interno dell’assetto universitario o comunque che può rivolgere i propri interessi verso settori della ricerca, tali da determinare profitti indotti al mondo dell’impresa, o comunque fortemente collusi con il mondo della politica.

In teoria, con beni di ex proprietà pubblica e con risorse principalmente, se non esclusivamente pubbliche, le fondazioni con proprio statuto possono decidere di porre in essere strategie aziendali, lobbistiche, corporative, pseudo politiche, di stampo neo-feudale, anche diversificate rispetto alla mission originaria di una struttura universitaria. Risorse pubbliche e tasse di iscrizione potrebbero essere orientate verso lidi ed obiettivi non riconducibili al perseguimento di interessi generali; il tutto, evidentemente, in contrasto con l’art. 3, con l’art. 9 e con l’art. 33 della Costituzione.

Distribuzione del reddito e diseguaglianza: l’Italia e gli altri

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Scriveva Keynes, nelle Conseguenze economiche della pace, che il processo di formazione del capitalismo industriale si è fondato su un “doppio inganno”. Da una parte i lavoratori si appropriavano di una piccola parte della torta che avevano contribuito a produrre, mentre i capitalisti ne ricevevano “la miglior parte”, con la tacita condizione di non consumarla, ma di destinarla prevalentemente all’accumulazione del capitale.

Dopo la crisi del ’29 e la seconda guerra mondiale, il processo di sviluppo è sembrato invece basarsi su una graduale diminuzione delle diseguaglianze che ha stimolato la domanda aggregata. Tuttavia, dagli anni settanta, le diseguaglianze sono tornate a crescere, con l’aggravante che nei paesi sviluppati la “miglior parte della torta” ha alimentato prevalentemente la speculazione piuttosto che gli investimenti reali. In molti hanno scambiato questa restaurazione del “doppio inganno”, che con la crisi attuale mostra tutte le sue contraddizioni, con la via maestra della modernizzazione.

In questo quadro il governo italiano ha varato una manovra del tutto inadeguata. Avendo appreso l’idea che le aspettative si auto-realizzano dalle storielle che è uso raccontare, Berlusconi sembra ritenere che bastino le sue esortazioni a consumare per ristabilire la fiducia. Soprattutto non sembra rendersi conto che la spesa per il consumo dipende dal reddito delle famiglie e che l’ insufficienza della domanda aggregata è il risultato del mutamento nella distribuzione del reddito che ha caratterizzato in modo fondamentale l’ultima fase economica nei paesi sviluppati.

Vediamo come si è evoluta la distribuzione del reddito negli ultimi 20 anni, seguendo il recente rapporto dell’OCSE Growing unequal?[1] e confrontando la situazione Italiana con quella di altri paesi sviluppati: la Germania, la Francia, il Regno Unito e gli USA. L’Italia sembra essere il paese che riesce a cumulare contemporaneamente alcune delle caratteristiche più negative dei paesi anglosassoni e di quelli del continente europeo. Queste note si riferiscono alla evoluzione della distribuzione del reddito precedente la crisi. Proprio per questo motivo mettono in evidenza alcune delle sue cause fondamentali.

L’aumento della diseguaglianza a partire dalla metà degli anni 70 è stato caratterizzato dalla diminuzione della quota delle retribuzioni del lavoro sul reddito nazionale. Come si può vedere dal grafico che segue questa quota è diminuita consistentemente nei paesi dell’OCSE, ma è caduta in modo molto più pronunciato in Italia[2].

Come conseguenza in Italia la quota del reddito nazionale che si ottiene attraverso il lavoro è la più bassa tra i paesi che stiamo confrontando:

La forte diminuzione della quota dei redditi da lavoro dipende in larga misura dall’evoluzione del salario reale. Secondo le stime del rapporto dell’ Organizzazione Internazionale del lavoro, a parità di potere di acquisto, gli stipendi reali sono diminuiti in Italia del 16% circa tra il 1988 e il 2006[3].

La quota dei redditi da lavoro in Germania e Francia è diminuita seguendo l’andamento medio, mentre negli Usa e nel Regno Unito la quota è diminuita meno della media OCSE. Anche in questi paesi però la diseguaglianza è aumentata e nel caso degli USA enormemente. Sono state infatti all’opera anche altre cause, principalmente l’andamento del differenziale nelle retribuzioni del lavoro e l’effetto dei trasferimenti del reddito da parte dello stato alle famiglie e della tassazione, cioè il ruolo dello stato nel modificare il reddito disponibile delle famiglie rispetto al reddito di mercato.

La diseguaglianza nella distribuzione del reddito è rappresentata dall’indice di concentrazione dei redditi, l’indice Gini. L’Italia risulta avere verso la metà degli anni 2000 un alto indice di Gini, inferiore solo a quello degli USA tra i paesi considerati e superiore alla media di 24 paesi dell’OCSE. Germania e Francia hanno invece un indice Gini inferiore alla media, cioè sono paesi con una distribuzione del reddito notevolmente più egalitaria.

Negli ultimi venti anni la crescita dell’indice Gini è stata molto alta in Italia (inferiore solo a quella degli USA tra i paesi confrontati)[4].

E’ interessante per comprendere come si manifesta la diseguaglianza, confrontare i redditi mediani, quelli del decile più povero e quelli del decile più ricco della popolazione. Come si vede dai grafici, questo confronto mette in luce in modo drammatico la gravità della situazione italiana. Infatti, mentre sia per il reddito mediano che per il reddito del 10% più povero l’Italia è l’ultima tra i paesi considerati, e ha redditi minori rispetto alla media OCSE, il reddito del 10% più ricco risulta più alto rispetto alla media OCSE, e anche rispetto alla Francia. Si tratta di un dato che mostra in modo inconfutabile lo squilibrio che il nostro paese vive, con conseguenze molto rilevanti sia sul piano sociale che economico.

Vale la pena soffermarsi anche su uno dei dati più significativi presenti nel rapporto dell’OCSE, che svela il contenuto ideologico dell’identificazione del liberismo con una forte dinamica sociale e con ciò che si indica come meritocrazia. L’elasticità dei redditi intergenerazionali misura la probabilità che i figli mantengano lo stesso reddito dei padri. Più basso è il valore e più alta è la probabilità che i redditi cambino di generazione in generazione. L’Italia ha un valore molto alto per questo parametro. I dati della Francia e della Germania, mostrano che la mobilità sociale è favorita da una distribuzione meno diseguale del reddito e dalla robustezza delle istituzioni del Welfare, ancora in questi paesi non smantellate. Il sogno americano, la possibilità per ciascuno di migliorare indipendentemente dalle condizioni di nascita, è molto più effettivo nei paesi dell’Europa continentale che in quelli anglosassoni.

Vediamo ora come la distribuzione dei redditi è modificata dall’intervento pubblico, comparando i redditi di mercato con i redditi disponibili, calcolati tenendo conto dei trasferimenti dallo stato alle famiglie e della tassazione.

Secondo i dati OCSE in Italia l’effetto dell’intervento dello stato sulla diseguaglianza nella distribuzione dei redditi è superiore a quello dei paesi anglosassoni e alla media OCSE. Tuttavia risulta sensibilmente inferiore a quello della Germania e della Francia. Guardando anche gli altri paesi dell’ Unione Europea, i cui dati non sono riportati nel grafico, l’Italia si situa in effetti agli ultimi posti nell’efficacia distributiva dell’intervento pubblico[5]. Occorrerà capire quanto la scarsa efficacia redistributiva dell’intervento dello stato relativamente agli altri paesi europei sia dovuta all’alta evasione fiscale e agli sprechi nella spesa pubblica e quanto dipenda dalla struttura stessa della tassazione e dei trasferimenti. Dalle elaborazioni dell’ OCSE risulta in particolare che la progressività dei trasferimenti, e di conseguenza il loro impatto redistributivo, è molto minore in Italia rispetto alla media degli altri paesi, tanto per quanto riguarda le persone in età da lavoro che per gli anziani. Quello che è certo è che la politica economica, sia in relazione agli obiettivi più immediati di stimolo della domanda aggregata, sia in relazione alla correzione delle cause strutturali della crisi globale e di quella del nostro paese in particolare, deve porsi come obbiettivo prioritario la maggiore efficacia dell’intervento redistributivo dello stato.

Il rapporto dell’OCSE cerca anche di stimare l’impatto dei servizi pubblici, principalmente relativi alla sanità e all’istruzione, sulla distribuzione del reddito.

Anche in questo caso l’efficacia redistributiva dell’intervento pubblico in Italia si rivela superiore a quella dei paesi anglosassoni, ma ora risulta inferiore alla media dei paesi OCSE oltre che alla Francia e alla Germania. Anche in questo caso, guardando anche agli altri paesi dell’Unione Europea, l’Italia si situa agli ultimi posti. Si capisce come una politica di tagli indiscriminati come quella prevista dalla finanziaria per l’istruzione, non può che aggravare una situazione già molto preoccupante.

I dati testimoniano in modo evidente che tutte le economie dei paesi sviluppati hanno subito negli ultimi decenni un processo di redistribuzione dei redditi a favore dei profitti e delle rendite (che si presentano spesso collegati tra loro). Questa redistribuzione è una delle cause più importanti dell’attuale crisi. L’Italia, in questo quadro, ha assistito ad un processo ancora più accentuato e ancora più squilibrato rispetto alla maggior parte degli altri paesi. Ne deriva la necessità di una riforma fiscale progressiva e redistributiva, sia in funzione di stimolo alla domanda aggregata nell’immediato, sia come condizione per un processo equilibrato di sviluppo nel lungo periodo.

*Professore ordinario di economia politica nell’Università di Macerata.


[1] Growing unequal? Income distribution and poverty in OECD Countries, OECD, 2008.
[2] La quota stimata dall’OCSE non si riferisce solo alle retribuzioni del lavoro dipendente, ma anche a quelle relative al lavoro autonomo, di cui si tiene conto, sia pure attraverso una stima approssimativa
[3] World of Work Report 2008. Income inequalities in the Age of Financial Globalization, International Labour Office, International Institute for Labour Studies, ILO, Geneva, 2008.
[4] Si veda, in questa rivista, Cristina Tajani Distribuzione e povertà, Europa e mondo Crescita diseguale, diseguale recessione 29 Dicembre 2008
[5] Secondo il rapporto ISAE, Politiche pubbliche e redistribuzione, novembre 2007, la situazione italiana è ancora peggioredi quella indicata dai dati OCSE. L’Italia sarebbe infatti il paese dell’Unione Europea in cui l’efficacia redistributiva dell’intervento pubblico è la più bassa rispetto a tutti i paesi dell’Unione Europea. http://www.isae.it/Rapporti_trimestrali/Rapporto_ISAE_novembre_2007.pdf


Neoliberismo, interventismo, keynesismo

Neoliberismo, interventismo, keynesismo - 08/02/09


Duccio Cavalieri - da www.economiaepolitica.it

La crisi economica globale del sistema capitalistico, oggi in atto, deve indurre gli economisti teorici ad interrogarsi su quanto sta accadendo e a cercare di prevederne i prossimi sviluppi e gli esiti. Uno dei compiti storici della scienza economica è infatti la spiegazione e la previsione di quanto avviene nella realtà.





Un primo punto sembra sufficientemente chiaro. Si tratta di una crisi che ha avuto inizio nel mondo della finanza e che ha poi contagiato l’economia reale. E’ emersa la forte instabilità di un sistema di intermediazione finanziaria che anziché incoraggiare il risparmio delle famiglie e assicurare che esso affluisse senza ostacoli agli investimenti delle imprese e agli impieghi delle amministrazioni pubbliche, è stato utilizzato per finanziare pericolose operazioni speculative compiute sul mercato dei capitali e su quello dei cambi. Questo è avvenuto in un contesto di bassi livelli dei salari reali e in presenza di una politica dell’amministrazione repubblicana degli Stati Uniti che ha alimentato nei lavoratori una forma inedita e sottile di illusione monetaria, consentendo alle banche e ad altre istituzioni finanziarie di concedere loro ampio credito e mutui ipotecari a condizioni molto facili (i subprime mortgages a tassi variabili) per indurli ad acquistare di più e consumare di più, nonostante i bassi salari.

Una situazione di questo tipo non può durare indefinitamente. Quando le banche cominciano a incontrare delle difficoltà nel rientro dei capitali prestati e vengono a trovarsi a corto di liquidità per l’insolvenza dei debitori, il flusso del finanziamento bancario alle imprese di produzione tende necessariamente ad interrompersi. Per allontanare nel tempo questa evenienza, le banche hanno fatto ricorso a strumenti innovativi di ingegneria finanziaria allo scopo di attuare una strategia finanziaria tutt’altro che nuova: quella della Ponzi finance, efficacemente descritta da Hyman Minsky. Hanno infatti cercato di trasformare i crediti in sofferenza in fonti di nuove rendite finanziarie, facendo ricorso a operazioni di cartolarizzazione (securitization) e successiva inclusione dei crediti frazionati in prodotti finanziari derivati, con l’intento di arrivare a disperdere il rischio individuale.

In tali condizioni, chi comprende come stanno andando le cose e dispone di liquidità non la investirà più, ma la tratterrà, ripromettendosi di farne uso in seguito, quando la crisi avrà prodotto i suoi effetti più devastanti, per acquistare le attività patrimoniali superstiti a prezzi stracciati. Viene in essere cioè una situazione abbastanza simile a una trappola della liquidità, ma in presenza di tassi di interesse non ancora ridotti al minimo. Tale situazione non può tuttavia durare a lungo. Essa è destinata a cambiare non appena sul mercato dei capitali i tassi scendono ulteriormente e diventa possibile compiere operazioni vantaggiose di acquisto di capitale azionario, anche finanziandole a credito. Ossia creando degli appositi consorzi finanziari che si indebitano per acquistare imprese (è il cosiddetto leverage buyout) e che possono conteggiare il debito come un costo detraibile dalle tasse, scaricandone l’onere sulle società acquistate (che non di rado vengono poi abbandonate al loro destino di bad companies).

Questo contribuisce ad aumentare la scarsità di liquido e tende a determinare una crisi del mercato interbancario. Per l’eccessivo livello dell’indebitamento, le banche non si fidano più l’una dell’altra e non si prestano denaro tra loro. La crisi è aggravata dal fatto che nel frattempo si diffondono voci allarmanti sull’esito di investimenti troppo rischiosi effettuati dalle banche e i risparmiatori tendono di conseguenza a ritirare i loro depositi e a compiere spostamenti di capitali dai titoli privati a quelli pubblici, ritenuti più solidi, anche se non del tutto sicuri in una situazione di rischio sistemico.

Ne risulta appunto una sorta di trappola anomala della liquidità, che penalizza chi ha bisogno di prestiti per motivi non speculativi. E quindi danneggia in primo luogo le imprese, che possono essere costrette dapprima a ridurre e poi addirittura a cessare la loro attività. A questo punto la crisi diventa generale e coinvolge l’economia reale, a ulteriore dimostrazione della non neutralità della moneta. E attraverso nuovi meccanismi di trasmissione degli impulsi monetari e finanziari sulle variabili reali, che meriterebbero di essere ulteriormente indagati, la crisi si scarica per intero sui lavoratori e sulle loro famiglie.

Le principali cause della fragilità strutturale del sistema finanziario possono a questo punto facilmente individuarsi. Sono la tendenza a un eccessivo ricorso al finanziamento esterno da parte delle imprese; la diffusa pratica bancaria consistente nell’utilizzare credito a breve termine, continuamente rinnovato, per finanziare impieghi di capitale a medio e lungo termine; la facilità con cui vengono realizzate operazioni finanziarie e creditizie ad alto rischio; la scarsa trasparenza di molte operazioni finanziarie, che alimenta la possibilità di compiere vere e proprie frodi nel trasferimento dei rischi. Frodi che sono messe in atto dagli intermediari finanziari ai danni dei risparmiatori e vengono non di rado avallate da compiacenti agenzie di valutazione (rating companies), che, male interpretando le proprie funzioni, mettono in grado alcune società di indebitarsi per somme molto superiori al loro effettivo valore di mercato.

In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo e di riconosciuta necessità di ricorrere ad interventi pubblici per salvare banche e aziende in difficoltà, anziché lasciare che il mercato penalizzi l’insuccesso delle iniziative economiche meno efficienti. Al vecchio paradigma dell’efficienza allocativa del mercato oggi credono ancora solo pochi epigoni della Mont-Pélerin Society, della scuola di economia di Chicago e della London School of Economics. Quelli che hanno sempre insistito nel presentare il neoliberismo come antitesi al keynesismo e al dirigismo economico degli anni ’30; e che hanno ispirato il programma economico conservatore di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e quello di Ronald Reagan negli USA, l’uno e l’altro favorevoli alla deregolamentazione, alle privatizzazioni e a un contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica per finalità sociali.

E’ un duro colpo per il neoliberismo, un indirizzo di pensiero che ha cercato di affossare le conquiste dello Stato sociale e ha inquinato il quadro teorico con la supply side economics e la ‘critica di Lucas’ all’efficacia della politica economica. Dopo la dissoluzione dei regimi economici dei paesi del cosiddetto ‘socialismo reale’ il neoliberismo ha creduto di avere ormai partita vinta e si è apprestato a seppellire definitivamente l’interventismo statale di tipo keynesiano. Ma oggi il neoliberismo subisce una dura lezione dalla storia. Perfino i più tenaci assertori di questo indirizzo di pensiero, posti di fronte alla drammatica alternativa tra aiutare Wall Street a uscire dalla crisi, sovvenzionando un sistema capitalistico dimostratosi largamente corrotto, o lasciare che esso precipitasse nel caos finanziario più assoluto, sono stati indotti a invocare un intervento straordinario dello Stato nella sfera economica per salvare dal fallimento grandi banche ed imprese. Con l’intenzione di addossare al Tesoro, ossia ai contribuenti, l’onere dell’acquisto dei crediti inesigibili. Senza quindi arrivare a delle vere e proprie nazionalizzazioni.

Ma non è stata, a ben guardare, una vittoria del keynesismo. L’odierna crisi globale ha semplicemente mostrato la necessità della politica economica, riaprendo in un certo senso il confronto teorico tra liberismo e keynesismo. Ma l’aumento della spesa pubblica, che oggi da tante parti si invoca, non riguarda la spesa sociale in istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione. Riguarda il sostegno di banche e società finanziarie in difficoltà e il salvataggio di grandi imprese industriali. Un salvataggio che ci si propone di realizzare continuando a comprimere i salari reali e le pensioni. E’ quindi un sostegno non alla domanda, ma all’offerta.

Tutto questo ha ben poco di keynesiano. E può accrescere il divario tra l’offerta e la domanda, anziché aiutare a superare le difficoltà di realizzo della produzione sul mercato. Difficoltà dovute alla maldistribuzione del reddito e tipiche di un sistema in cui il capitale non riesce a porsi fini diversi da quello del proprio continuo accrescimento. Tali difficoltà oggi non presentano più carattere esclusivamente ciclico, ma tendono ad assumere carattere strutturale. Segno che il capitalismo resta un problema (il problema di fondo) e che il problema tende ad aggravarsi.



*Professore ordinario di economia politica nell’Università di Firenze.