lunedì 29 giugno 2009

altra informazione

premettendo che da internet bisogna prendere le informazioni con le dovute cautrele, non è la prima volta che mi imbatto in dichiarazioni come queste.
Le riporto così come le ho trovate.




inviato da nickmasaniello il 29 giugno 2009 alle 20:53

leggo molti commenti che più dalla conoscenza dei fatti vengono ispirati dall'ideologia. Vivo in Venezuela da un pò di tempo. Posso dirvi al di fuori di ogni ragionevole dubbio che il "quarto stato" della popolazione è plebiscitariamante pro-chavez. E non è un sostegno dovuto a fantomatiche manipolazioni massmediatica pre-dittatoriali. l'Appoggio al presidente è il risultato di una politica che ha finalmente reso le persone venezuelane dei veri e propri cittadini, con i loro doveri ma anche con i loro imprescindibili diritti fondamentali fino a pochi anni fa solo citati. e sto parlando di diritti come quello dell' istruzione (aumento stipendi insegnanti, maestro per ogni villaggio, consegna materiale didattico ai poverissimi, ecc.ecc.) della sanità ("tende da campo" in ogni villaggio grazie alla collaborazione dei medici dell'Havana). Poi vi chiedo, gli ultimi 50 anni di "democrazia" in America Latina a cosa hanno portato? davvero credete che Chavez, Morales e co. siano i 'cattivi'?

Che reputazione

BERLUSCONI, VATTENE!



Dall'estero ancora critiche e analisi sulla situazione del premier
Il Financial Times sostiene di aver consultato "alte fonti governative"
Ft: "Berlusconi scaricato dagli alleati"
Economist: "Al G8 rideranno di lui"
La Cnn: "Ci sono abbastanza ragioni per dimettersi"

dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI


LONDRA - Circondato dai malumori di chi gli è vicino. E accompagnato da una scarsa credibilità all'estero. Arrivano da Financial Times ed Economist le due ultime bordate contro Silvio Berlusconi. Che parlano di "alleati" del premier pronti ad immaginare un futuro senza di lui e della poca credibilità del Cavaliere all'estero.

Financial Times. "Non siamo ancora al fuggi fuggi, ma importanti alleati di Silvio Berlusconi nella coalizione di governo stanno già contemplando un futuro senza di lui". E' uno scoop che in Italia varrebbe la prima pagina, quello che il Financial Times pubblica stamane, dedicando una pagina intera (la nona) al tema "il futuro di Berlusconi". Parlando con "alte fonti governative" a Roma, il quotidiano finanziario londinese raccoglie un messaggio che a quanto pare qualcuno, dall'interno del centro destra, ha deciso sia tempo di far diventare pubblico, scegliendo come megafono il giornale universalmente riconosciuto come il più autorevole e imparziale d'Europa.

"Sussurri spaventano la coalizione italiana", s'intitola la news analysis di Guy Dinmore. "Fedeli sostenitori di Silvio Berlusconi negano che si sarà un "fuggi fuggi" (in italiano nel testo originale) come conseguenza degli scandali che circondano la sua vita privata, ma importanti alleati nella coalizione di centro destra italiana stanno già contemplando un futuro politico senza il loro leader". Parlando con il Ft a condizione di mantenere l'anonimato, queste "alte fonti di governo" premettono di non credere che il 72enne presidente del Consiglio si dimetterà "presto". Eppure "ministri chiave" stanno iniziando a "posizionarsi" per l'eventualità che rivelazioni più dannose lo inducano a dimettersi. "Questo è uno scenario completamente nuovo, il panorama sta mutando", dice al quotidiano della City una delle fonti governative.

Un'altra fonte, definita "un collaboratore" di Berlusconi, dice che il governo teme che i magistrati annunceranno l'apertura di un'indagine giudiziaria formale nei confronti del premier proprio mentre egli ospiterà in Italia i leader mondiali per il summit del G8 del mese prossimo. "Paralleli vengono tracciati", osserva il FT, con il 1994, quando un tribunale inoltrò una comunicazione giudiziaria per corruzione a Berlusconi mentre il premier, all'epoca nel suo primo mandato, ospitava una conferenza internazionale sulla lotta alla criminalità: "il suo governo", ricorda il giornale, "cadde un mese più tardi, quando la Lega Nord uscì dalla coalizione".

L'articolo aggiunge che vari ministri hanno paura che le affermazioni di Patrizia D'Addario, la escort che afferma di essere andato a letto con Berlusconi a Palazzo Grazioli la notte dell'elezione di Obama, quando dice di avere foto e registrazioni del suo incontro con il premier, "si rivelino vere e dannose", o che le accuse che riguardano Giampolo Tarantini, l'imprenditore pugliese che accompagnò la D'Addario da Berlusconi, "si allarghino".

La "dinamica è cambiata", dicono le stesse fonti al FT. Primo, "c'è la sensazione che l'ambizione di Berlusconi di diventare presidente della repubblica al termine del suo mandato da primo ministro sia stata infranta". Secondo, "le elezioni europee hano dimostrato che gli elettori si stanno allontanando" dal Pdl. Infine, "l'immagine internazionale dell'Italia è peggiorata" e la Chiesa cattolica sta cominciando a "fare pressioni". Nonostante la sua reputazione di anfitrione miliardario che vizia gli amici con doni e fantastiche feste, gli alleati di Berlusconi "lo descrivono come un uomo isolato, con nessuno che si azzarda a dargli consigli". Il quotidiano londinese coglie una certa "malinconia" nell'intervista rilasciata dal premier al settimanale di sua proprietà "Chi", quando ricorda che nell'ultimo anno ha perso la madre e la sorella, oltre a sua moglie per il divorzio.

L'articolo si conclude con una suddivisione degli schieramenti all'interno del governo. I ministri la cui sopravvivenza politica dipende da Berlusconi sono i più accesi nel difenderlo: come Maurizio Sacconi (Lavoro), Claudio Scajola (Sviluppo Economico), Franco Frattini (Esteri). Le donne, incluse Maria Carfagna (Pari Opportunità) e Stefania Prestigiacomo (Ambiente), gli sono fedeli, ma nelle "attuali circostanze", ovvero nel mezzo di uno scandalo a base di call-girls e incontri con minorenni, "sono a disagio a parlare" in sua difesa. "Poi ci sono figure chiave che sono rimaste per lo più in silenzio, vedendo un futuro oltre Berlusconi, con la speranza che una successione sia ordinata". Gianni Letta, scrive il FT, sta già facendo di fatto le funzioni di primo ministro. Giulio Tremonti, il ministro delle Finanze, ha il vantaggio di stretti legami con la Lega Nord.

Ma le fonti interpellate dal quotidiano della City notano un serio ostacolo alle dimissioni del premier, a parte la sua ostinazione personale: l'immunità dalle incirminazioni, varata dalla sua larga maggioranza in parlamento, "dura solo fino a quando lui rimane in carica".

Un secondo articolo, sempre sul Financial Times, firmato da James Blitz, ex-corrispondente da Roma e ora corrispondente diplomatico, osserva che la questione critica per i governi occidentali non è tanto che Berlusconi si stia "gravemente danneggiando" a causa dei suoi legami con "modelle e starlette", non è quello che egli fa nella sua vita privata, ma se può aiutarli a risolvere i pressanti problemi con cui si confrontano gli Usa e l'Unione Europea. Per Barack Obama, Berlusconi è un leader con cui "è necessario mettersi d'accordo", e il FT cita l'impegno militare italiano in Afghanistan e la recente decisione del premier di accettare nel nostro paese alcuni detenuti di Guantanamo a testimonianza dell'importanza che l'Italia ha per Washington. "Ma Obama è chiaramente meno preso da Berlusconi di quanto fosse George W. Bush", prosegue l'articolo, rilevando come il presidente americano abbia incontrato vari leader nel suo tour europeo in aprile, ma non il premier italiano.

La minore influenza di Berlusconi sull'America "non è interamente colpa sua", afferma una fonte diplomatica consultata da Blitz: oggi in Francia e in Germania ci sono governi più pro-americani rispetto a due anni fa, e dunque gli Usa hanno meno bisogno del sostegno italiano. In più, ci sono azioni intraprese da Berlusconi che lo hanno reso "un alleato difficile". Una è la sua decisione di firmare un accordo con la Russia per portare il gas in Europa, in competizione con un gasdotto occidentale che passerà dal'Asia Centrale. "Il sostegno di Berlusconi per Putin su questo causa molta rabbia a Washington e Bruxelles" dice un diplomatico della Ue. Altri aspetti dello stile di Berlusconi che irritano gli Usa e la Ue sono "la sua ossessione di poter essere un mediatore tra Obama e il suo amico Putin" e il tentativo di stabilire un dialogo autonomo con l'Iran. Non ultima, la sua decisione di tenere il summit del G8 all'Aquila "sta provocando nervosismo" nelle capitali mondiali. Riassume il Ft nel titolo: pur alleato indispensabile, Berlusconi "sta mettendo alla prova la pazienza di Usa e Ue".

Il Times. Un altro articolo di rilievo appare oggi sulla stampa britannica: una news analysis di Richard Owen, il corrispondente da Roma, sul Times, che commenta il "grande vantaggio" di cui Berlusconi dispone come proprietario e controllore politico dei media, in particolare televisivi. "Se Berlusconi dovesse dimettersi domani", comincia l'articolo, "la grande maggioranza degli italiani che ricevono le informazioni solo dalla tivù ne saprebbero poco o nulla". Owen riporta il fatto, di cui l'opinione pubblica britannica e mondiale non sono perfettamente a conoscenza, che Berlusconi possiede i tre canali televisivi di Mediaset e controlla la maggior parte dell'informazione televisiva della Rai in quanto capo della coalizione di governo.

L'analisi del Times nota che il Tg1, "il principale telegiornale Rai", ha ignorato o dato un basso profilo alle notizie sullo scandalo che riguarda il premier, e riferisce le critiche espresse dal presidente della Rai, Paolo Garimberti, ad Augusto Minzolini, direttore del Tg1, "per avere mancato di dare ai telespettatori l'informazione completa e trasparente che è richiesta al servizio pubblico".

Tra gli articoli sul caso Berlusconi pubblicati da altri giornali britannici, spicca poi la vignetta del Sun: un parcheggio pieno di limousine per il summit del G8, ciascuna con una bandierina della nazione che rappresenta sul cofano; quella italiana è letteralmente ricoperta di giovani ragazze maggiorate e seminude, che lavano la macchina brindando con calici di champagne.

L'Economist in edicola domani pubblica due articoli sul caso, più una replica del sottosegretario Bonaiuti. A quanto scrive l'Ansa, nell'articolo intitolato "Un conquistatore, non un utilizzatore finale", l'Economist si occupa degli ultimi sviluppi dell'inchiesta di Bari e scrive tra l'altro: "Gli italiani sono stati tenuti perlopiù all'oscuro sull'inchiesta di Bari, che è stata menzionata solo brevemente e in maniera obliqua sulle principali reti televisive".

Ricordando poi i paragoni fatti da Famiglia Cristiana con quanto avverrebbe in situazioni analoghe in altri paesi, il settimanale sottolinea: "Berlusconi è un uomo risoluto. Paragoni con altri paesi non serviranno a fargli cambiare idea. E nemmeno le richieste di dimissioni avranno eco tra i politici del suo partito: devono a lui la loro posizione. Berlusconi non ha mai avuto grande credito nei circoli internazionali. I suoi ultimi problemi susciteranno una risata tra i suoi ospiti al vertice G8 il mese prossimo. Ma è improbabile che si dimetta o che sia mandato via".

Il secondo articolo pubblicato dal settimanale economico è dedicato alla situazione finanziaria di Fininvest, definita particolarmente vulnerabile alla crisi.

Dalla Spagna agli States. L'attenzione è costante su tutta la stampa europea. El Mundo titola: La perdizione di Berlusconi. Un articolo in cui vengono ripropoposte le varie tappe della vicenda, con citazioni molto ampie dell'intervista a Patrizia D'Addario.

E la Cnn ha dedicato a Berlusconi un lungo servizio. "Ci sono abbastanza ragioni per dimettersi".

(25 giugno 2009) Tutti gli articoli di politica

L’Imperialismo sequestra, i media tacciono

http://www.granma.cu/italiano/2009/junio/sabado27/imperialismo.html
chi sa dei 5 di Miami?


Bartolomé Sancho Morey*

JR-Lo scorso 15 Giugno i magistrati del Tribunale Supremo degli Statu Uniti hanno scritto un’altra pagina vergognosa della loro storia, dicendo NO alla petizione di una decina di premi Nobel, parlamentari, accademici e migliaia di personalità da tutto il mondo affinchè il caso dei Cinque Cubani incarcerati negli Stati Uniti potesse essere rivisto in un nuovo giudizio fuori da Miami, e nel rispetto di tutte le garanzie processuali.

Tra le personalità spagnole si trovavano gli ex Presidenti del Parlamento Europeo José Borrell Fontelles ed Enrique Barón Crespo, i Vicepresidenti Ángel Martínez e Willy Meyer, gli Eurodeputati Teresa Riera e Carlos Carnero, senza dimenticare il prestigioso ex Direttore Generale dell’UNESCO, Federico Mayor Zaragoza, personalità che non si può dire siano estremiste, nè collaboratrici del terrorismo, se non il contrario.

Sono sempre di più le persone nel mondo que, a dispetto del silenzio e della complicità imposta dalla maggio parte dei grandi mezzi di diffusione, specialmente negli Stati Uniti, e della pressione di entrambe le amministrazioni, democratiche o repubblicane-le due facce della stessa medaglia-sanno che il 12 Settembre del 1998 l’FBI, diretta dall’estrema destra statunitense, ed influenzata dalla mafia terrorista cubanoamericana di Miami, detenne cinque giovani Cubani. Cinque giovani professionisti il cui unico “reato”fu denunciare ed evitare atti terroristici contro il proprio Paese. Essi furono arrestati con false accuse e senza la minima prova di un azione di spionaggio contro gli Stati Uniti.

Fino a questo punto arriva la manipolazione e la totale mancanza di scrupoli relativa alla maniera in cui in questi oltre 10 anni è stato portato avanti un giudizio falso ed immorale, da parte di un “superpotente”imperialismo, nelle cui trame comincia a propagarsi il terrore che l’opinione pubblica, soprattutto la statunitense, conosca la verità su questo triste caso: chi sono i Cinque e quali sono i motivi della loro ingiusta ed immorale detenzione. Tutto ciò potrebbe convertirsi in un nuovo boomerang per Washington, così come avvenne per il caso del sequestro di Eliàn, da parte della stessa mafia.

Allora, quando l’informazione e la verità arrivarono all’opinione pubblica, fu lo stesso popolo statunitense, insieme con la grande maggioranza dei Cubani residenti in Florida che obbligarono il Governo statunitense a restituire il piccolo a Cuba.

Ciò che rende preoccupante, indignante ed immorale questa faccenda, è che tanto il FBI, quanto i governi di Bill Clinton, George Bush e Barack Obama – nel quale, diciamolo pure, erano state riposte molte speranze – sapevano e sanno che questa tragi-commedia è un ripugnante montaggio dell’estrema destra statunitense. Così come sanno che questi cinque compatrioti Cubani andarono negli Stati Uniti per ottenere informazioni sui piani delle organizzazioni terroriste con base operativa a Miami, come la Fondazione Nazionale Cubano-Americana, l’Alfa 66, il Cosiglio per la Libertà di Cuba Fratelli al Riscatto, etc., tutte di riconosciuta traiettoria delinquenziale.

Si ricorda che tali gruppi hanno causato, attraverso diversi sabotaggi, oltre che aggressioni contro Cuba, migliaia di morti, feriti, e grandi perdite economiche oltre ad aver collaborato con il contrabbando di armi, droghe e persone.

Nel migliore di casi, il Governo degli Stati Uniti ha fatto finta di non vedere, ma in alcune occasioni, ha appoggiato tali gesti senza vergogna e pubblicamente. Questo si deve chiamare, e di ciò sì, ci sono prove inconfutabili, terrorismo di Stato!

Non è casuale che la stessa ONU abbia giudicato il giudizio di Miami arbitrario ed assolutamente parziale. E neppure que il 9 Agosto del 2005, niente meno che la Corte d’Appello d’Atlanta, nella composizione di 3 magistrati, per niente sospettati di essere Castristi ,ma con etica professionale, all’unanimità abbia dequalificato il processo, decretando la realizzazione di un nuovo giudizio da tenersi in un’altra città, dopo aver considerato che a Miami si commisero numerose violazioni relativamente al procedimento penale, incluse nella richiesta d’appello della difesa, come la manipolazione della giuria, dei testimoni e delle prove.

Perché quindi prevale tanta menzogna? Perché tanto terrore della verità?
*Giornalista spagnolo (Traduzione Granma Int.)

Pasolini, Sabaudia e la società dei consumi

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=9295

venerdì 26 giugno 2009

Aumenti produttivi e salari

avevo in archivio questo testo estratto nel luglio del 2008.

Aumenti produttivi così spartiti:
87% ai profitti, 13% ai salari
Stefano Bocconetti

C'è una data simbolo da cui far cominciare i bui, difficili anni '80. E' la sconfitta alla Fiat. Sconfitta sindacale che è ben presto diventata sconfitta politica, sociale, culturale, che ha segnato un intero decennio. Anche oggi si fanno i conti con un'altra sconfitta. Forse ancora più dura, più lacerante. E pure qui, forse, si può far risalire tutto ad una data: il 23 luglio del '93, quindici anni fa esatti. Quando il sindacato, tutto il sindacato - al più con qualche «mal di pancia» - firmò quell'accordo che introdusse il principio della «concertazione». E che cioè le trattative sindacali si potevano fare, ma solo dentro una cornice prefissata. Quella decisa dalle imprese. E si stabilì che il contratto nazionale doveva essere progressivamente svuotato, a favore dei contratti aziendali. Dove, dissero un po' tutti, si sarebbe redistribuita meglio la produttività. Come sono andate davvero le cose? Rifondazione Comunista nei giorni scorsi ha presentato alla Commissione lavoro della Camera dei deputati un dossier dettagliatissimo che contiene una fotografia oggettiva (sulla base di dati ufficiali, dell'Istat e degli altri principali istituti di studi e di statistica) della situazione economica italiana e di come il prezzo della crisi sia stato tutto pagato dai lavoratori dipendenti, e in particolare da alcuni di loro. Nel dossier, che è stato assunto come materiale di lavoro dalla Commissione, è contenuto un pacchetto di proposte molto articolato.
Partiamo dal contratto di lavoro, e dalla scelta di puntare tutto sui contratti aziendali. A conti fatti, è stata tutta una gigantesca bugia. Un'orrenda bugia. Il 95 per cento dei lavoratori non sa neanche cosa sia la contrattazione di fabbrica. Lavora in imprese troppo piccole, dove è consentito ignorare il sindacato aziendale. Non solo, ma anche il sindacato delle grandi fabbriche non ce la fa più. Visto che l'intensità della contrattazione aziendale s'è ridotta anche lì. E di tanto. Ai lavoratori, allora, restava solo il contratto nazionale per difendersi. Restava, al passato. Perché i numeri ci dicono che in appena cinque anni, gli ultimi cinque anni, la perdita del potere di acquisto è, mediamente, attorno a mille e duecentodieci euro. Ogni dipendente ha perso, insomma, uno stipendio all'anno.
Il risultato della crisi economica? No, anche questa è stata un'altra gigantesca bugia. E' stato solo il risultato delle scelte - politiche, economiche - imposte dalla Confindustria nostrana. A tutti i governi. La controprova è in quel che è avvenuto nel resto d'Europa. Nell'area dell'euro, le retribuzioni sono cresciute, nello stesso periodo, mediamente del dieci per cento, in Francia del 15, in Germania del cinque.
E dove sono finiti allora gli aumenti di produttività? Sono qui forse le cifre più spaventose, la fotografia del disastro. Quel disastro che il voto del 12 aprile si è limitato a fotografare. Dal 2003 al 2006, la produttività è cresciuta del 16,7 per cento. Non sono ritmi da Cina ma siamo da quelle parti. Bene, di questa crescita gigantesca, al lavoro è andato il tredici per cento, nulla. Alle imprese l'87. Ogni cento euro di ricchezza in più, ottantasette se le sono intascate le aziende. La lotta di classe c'è stata insomma. Solo che l'hanno vinta loro, le imprese. Ecco perché in cinque anni, i lavoratori hanno perso uno stipendio. Che diventa di più se ci si mettono anche i seicento euro di mancata restituzione del fiscal drag. Ecco perché un milione e settecentomila giovani - e in questa categoria rientra anche chi ha 34 anni - è «povero». Ufficialmente «povero», visto che questa è la definizione che usa anche l'Istat.
Resta da chiedersi due cose. Oggi in Parlamento c'è un'opposizione ufficiale che ha teorizzato e teorizza la fine dei conflitti nel lavoro. Veltroni quando esordì da segretario del piddì al Lingotto disse che non era più tempo di ideologie novecentesche, disse che gli interessi dell'impresa e dei lavoratori ormai coincidevano. Entrambi uniti dalla richiesta di maggior sviluppo. Loro, però, si sono presi l'87 per cento delle risorse. Ed è facile proporre una «tregua» quando si è preso tutto. L'altra domanda è davvero molto generica. Generica esattamente però come tanti commenti che si leggono qui e là sull'esaurimento del ruolo della sinistra. C'è chi arrivato addirittura a teorizzarne il superamento, l'inutilità. Discorsi da editoriali. Perché c'è una sinistra che, certo, paga il prezzo di non essere stata più capace di parlare alla sua gente. Ma di sinistra c'è bisogno. Lo dicono i numeri. E' poco ma è abbastanza per ricominciare.
Produttività, le imprese
si sono prese tutta la torta
Dal 1993 ad oggi a fronte di un'inflazione media annua del 3,2%, le retribuzioni contrattuali sono cresciute in media solo del 2,7%.
C'è uno scarto tra inflazione programmata e reale e, quindi, una perdita secca del potere d'acquisto dei salari.

Calcolo della perdita cumulata del potere d'acquisto tra il 2002 e il 2007


I confronti internazionali
La bassa crescita delle retribuzioni in Italia si rende ancora più evidente se confrontata con quella dei maggiori paesi europei. Come si vede dalla Tabella , dal 1998 al 2006, cioè nel periodo dell'ingresso nell'Area-euro, le retribuzioni di fatto reali nel nostro paese sono rimaste sostanzialmente stabili, mentre negli altri paesi si registravano tassi di crescita nettamente superiori: il 10% in media nell'area dell'euro, oltre il 15% in Francia e nel Regno Unito, il 5% in Germania, nonostante il sostanziale congelamento salariale degli anni 2000.

Retribuzioni Lorde di fatto Reali- Industria manifatturiera - Valuta Nazionale
(deflazionate con il Deflatore dei Consumi Privati)



I giovani
Ad aggravare la questione salariale e ad abbassare il livello delle retribuzioni medie e del loro
tasso di crescita c'è la questione giovanile. Proprio su quest'ultimo tema le nostre rilevazioni ci dicono che:
a) un apprendista, in età compresa tra i 15 e i 24 anni, guadagna mediamente 737 euro netti mensili;
b) un collaboratore occasionale, in età compresa tra i 15 e i 34 anni, guadagna mediamente 769 euro netti mensili;
c) un co.co.pro. o co.co.co, in età compresa tra i 15 e i 34 anni, guadagna mediamente 899 euro netti mensili.

Anche secondo le ultime rilevazioni Istat, 1 milione 678mila giovani, in età compresa tra i 18 e i 34 anni (13,7%) sono poveri. Se il giovane è capofamiglia o coniuge, è in condizione di povertà relativa il 12,9%; il 45,8% se vive in coppia con tre o più figli. Le giovani coppie con figli a carico hanno un reddito medio annuo lordo di 26.540 euro, ma nel 32% dei casi si collocano nel primo quinto della distribuzione dei redditi (meno di 10mila euro). Il 41,3% delle coppie giovani senza figli, con un solo reddito, appartiene al primo quinto della distribuzione del reddito (meno di 10mila euro).

Le nuove disuguaglianze





Divisione della produttività tra salari e profitti
Nel periodo 1993-2006, su 16,7 punti percentuali di crescita di produttività in Italia, in termini reali, al lavoro sono andati solo 2,2, cioè secondo dati Istat il 13% della produttività è andato al lavoro e l'87% alle imprese.
Nell'industria in senso stretto, cioè nelle grandi e medie imprese del campione Mediobanca, i profitti netti per dipendente (redditività operativa + redditività finanziaria ordinaria, al netto delle imposte) nel periodo 1995 (indice 100) - 2006 hanno avuto la seguente evoluzione:
variazione media annua dei profitti netti per dipendente = + 8,1%
variazione media annua retribuzioni per dipendente = + 0,4 %
Nelle 1400 grandi imprese dell'industria del campione Mediobanca, dal 1995 al 2006, i profitti hanno registrato un + 89,5%, mentre, sempre nello stesso periodo i salari hanno registrato un + 4,8%.







Paga mensile netta
SETTORE METALMECCANICO (INDUSTRIA)
OPERAIO 3°LIVELLO
13.204,18 : 13 = 1015,70 netto mensile

SETTORE METALMECCANICO (INDUSTRIA)
IMPIEGATO 5° LIVELLO
14.385,64 : 13 = 1106,58 netto mensile

SETTORE COMMERCIO
OPERAIO 5° LIVELLO
13.584,42 : 13 = 1044,95

SETTORE COMMERCIO
IMPIEGATO 3° LIVELLO
15.470 : 13 = 1.190,00 netto mensile

SETTORE DELLA SCUOLA
ASSISTENTE AMMINISTRATIVO CON ANZIANITÀ DA 9 A 14 ANNI
13.896,6 : 13 = 1.068,96 netto mensile

SETTORE DELLA SCUOLA
DOCENTE DIPLOMATO ISTITUTO SECONDARIO II GRADO CON ANZIANITÀ DA 9 A 14 ANNI
16.362,4 : 12 = 1.363,5 netto mensile

SETTORE SANITA' PUBBLICA
OPERATORE TECNICO ASSISTENZIALE
13.482,39 : 13 = 1.037,10 netto mensile

SETTORE SANITA' PUBBLICA
ASSISTENTE TECNICO
15.097,3 : 13 = 1.161,33 netto mensile

SALARI AL NORD E AL SUD DEL PAESE
Nel dibattito odierno è tornata prepotentemente in auge la questione della gabbie salariali.
Le gabbie salariali erano il meccanismo vigente in Italia fino al 1969, che differenziava i livelli salariali, su base regionale, rendendoli minori al Sud rispetto al Nord, sulla base del concetto per cui, con mercati locali dei beni e dei servizi ancora relativamente poco integrati, il costo della vita fosse più basso al Sud, e che a questo dovesse corrispondere un minore livello salariale nominale. Nel 1969 le gabbie salariali vennero abolite. C'è un dato che non si può negare: grazie all'azione della contrattazione di secondo livello - presente al Nord e quasi del tutto assente al Sud - i salari odierni restano sensibilmente differenziati. I dati dell'Istat indicano che il costo del lavoro per dipendente nell'industria in senso stretto nel Mezzogiorno è circa l'81% del valore del Centro-Nord.
C'è chi sostiene, però, che anche i prezzi sono decisamente diversi tra il Nord e il Sud del paese. Questa affermazione viene smentita sempre dall'Istat, secondo cui la variazione dei prezzi nelle città mostra che la dinamica inflattiva nell'ultimo decennio (dati febbraio 2008, base 1998=100) è stata molto omogenea nel paese. Questo dice chiaramente che le variazioni sono del tutto simili; anzi, se l'indice Italia è 123,4, a Napoli è 126,2 (seconda dopo Torino) e a Firenze 119,6 (ultima).
Il 28 maggio 2008 è stato presentato il rapporto annuale dell'Istat, da cui emerge che il reddito pro capite dei cittadini italiani è crollato del 13% rispetto ai paesi dell'Unione Europea e la disparità dei redditi tocca picchi che non hanno eguali in Europa.
Sempre secondo l'Istituto di ricerca, il 28% dei nuclei familiari non riesce a far fronte ad una spesa imprevista, il 66,1% non è in grado di risparmiare, il 34,7% ha seri problemi a far quadrare il bilancio domestico. Su questo quadro inquietante intervengono pesantemente le rate dei muti che arrivano ad incidere sul bilancio in media 559 euro (il 19,2% contro il 16% dello scorso anno).
Anche il rapporto annuale dell'Istat segna un paese diviso in due: il reddito medio mensile delle famiglie italiane è di 2.513 euro al Nord, di 2.458 euro al centro, di 1.921 euro al Sud.
Anche per questo assistiamo oggi a una massiccia nuova immigrazione dal Sud al Nord del paese.
Il 10 luglio del 2007, l'Ansa descrive così il Rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno: « L'emigrazione dal Sud torna ai livelli degli anni 60. Lo rileva il rapporto annuale Svimez indicando che "nel 2004, in base agli ultimi dati disponibili, sono stati circa 270mila i trasferimenti dal Sud al Nord (stabili 120mila e temporanei 150mila)". "Numeri molto elevati, se si pensa che negli anni di massima intensità migratoria 1961-63 la quota raggiunse i 295mila". Dati che preoccupano anche perché "la prevalente emigrazione di giovani meridionali scolarizzati, inoltre, depaupera ulteriormente le possibilità di sviluppo dell'area". Sono invece "stabili i trasferimenti Nord-Sud, fermi intorno alle 60mila unità e poco sensibili all'evoluzione dell'economia". Lombardia, Emilia Romagna e Lazio, si legge nel rapporto Svimez, "restano le tre regioni preferite dai nuovi emigranti. L'emigrato tipo ha tra i 25-29 anni , quasi la metà ha un titolo di studio medio-alto (diploma superiore il 36,3% e laurea il 13,1%)". Hanno lasciato la Campania in 38mila, la Sicilia in 28,6mila, la Puglia in 21,5mila, la Calabria in 17,8mila. Tanti, circa 151mila, anche "i pendolari di lungo raggio che nel 2006 si sono spostati dalle aree d'origine. Circa il 60% ha meno di 35 anni. Nel 50% dei casi i pendolari svolgono al Centro-Nord professioni di livello elevato e nel 38% mansioni di livello intermedio, a conferma del fatto che il sistema produttivo meridionale si conferma incapace ad assorbire l'offerta di lavoro più qualificata". »


2008: 8 MILIONI DI LAVORATORI CON IL CONTRATTO SCADUTO
All'inizio del 2008 i lavoratori senza contratto erano circa 10 milioni. Ad oggi, dopo la sigla del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici (1,5 milioni di dipendenti) dei lavoratori del settore gas e luce, degli edili, dei tessili i contratti scaduti interessano circa 8 milioni di dipendenti.

CONTRATTI RINNOVATI 1 GENNAIO 2007 - 30 GIUGNO 2008


I CONTRATTI DA RINNOVARE


TRATTAMENTI ECONOMICI PER I PRINCIPALI CONTRATTI RINNOVATI
1 GENNAIO 2007 - 30 GIUGNO 2008

Come di evince dai dati, l'aumento medio a regime derivante dai contratti nazionali di lavoro è di circa 100 euro lordi (ad eccezione del credito). Tolte le trattenute fiscali e i contributi previdenziali, gli aumenti netti sono di circa 65 euro mensili, scaglionati in più tranches.
E' evidente che si tratta di incrementi assolutamente inadeguati a recuperare il potere d'acquisto dei salari.
C'è poi un problema che riguarda il ritardo a volte clamoroso con cui spesso si rinnovano i contratti, sia nel pubblico che nel privato (è significativo l'esempio del contratto dei lavoratori del settore tessile artigiano, scaduto nel 2000 e rinnovato otto anni dopo).
Per questo è indispensabile che gli aumenti salariali vengano calcolati a partire dal giorno successivo la data di scadenza del contratto (indipendentemente da quando viene rinnovato) e che vengano stabiliti sulla base di indici che consentano il recupero del potere d'acquisto dei salari e prevedano la redistribuzione di una parte della ricchezza prodotta.
E' il contrario di ciò che propone Confindustria, che mira a ridurre il salario contrattato a livello nazionale generando un gigantesco problema sociale.

LA CONTRATTAZIONE DI SECONDO LIVELLO

CONTRATTAZIONE AZIENDALE

La struttura contrattuale disegnata dall'accordo del 23 luglio 1993 assegna un ruolo potenzialmente rilevante, anche per la determinazione del salario, alla contrattazione di secondo livello.

Purtroppo, però, la stragrande maggioranza dei lavoratori beneficia solo del contratto nazionale.
Questo dipende in parte dalla classe dimensionale della imprese italiane. Il 95% delle aziende, infatti, ha tra 1 e 9 addetti: in queste realtà non esiste contrattazione di secondo livello.

Sulla diffusione della contrattazione aziendale le informazioni sono scarse e frammentate, non esistono rilevazioni ufficiali, salvo quelle condotte a cadenza irregolare dall'Istat e dalla Banca d'Italia su un campione di aziende manifatturiere sopra i 50 addetti e alcune analisi del Cnel.

Il Rapporto del Cnel, che ha preso in esame le principali tendenze della contrattazione tra il 1998 e il 2006, evidenzia una flessione dell'intensità della contrattazione.
La tendenza al declino si manifesta sia nelle imprese di dimensioni maggiori, quelle che hanno più di 1000 dipendenti, che per quelle minori (quelle che hanno tra i 100 e i 999 dipendenti), mentre è praticamente inesistente nelle piccole aziende.
Per i diversi settori presi in esame si evidenziano delle punte massime di intensità di contrattazione in corrispondenza alle stagioni di rinnovo della contrattazione integrativa - nel 2000 e nel 2004 per i metalmeccanici; nel 1998 e nel 2002 per gli alimentaristi; nel 2000 e nel 2003 per la chimica - ma sempre restando all'interno di una tendenza alla flessione dell'intensità della contrattazione.
Mentre attorno al 1998 le aziende dove è stata fatta contrattazione di secondo livello varia tra il 20% e il 30%, nel 2006 la percentuale non supera il 15%.

Su una flessione di queste proporzioni hanno influito sia le difficoltà di ordine economico che le difficoltà delle relazioni industriali che hanno prodotto uno slittamento delle stagioni di contrattazione integrativa dal momento che le parti sociali erano impegnate ad affrontare le pesanti ristrutturazioni e le corpose delocalizzazioni all'estero che hanno caratterizzato il periodo.

Oltre alla diffusione, c'è il merito della contrattazione: secondo l'Istat la grande maggioranza degli accordi sottoscritti riguarda voci retributive: nel settore privato la contrattazione aziendale ha implicato effetti sul salario per quasi l'80% dei dipendenti interessati agli accordi.
Sul salario influiscono i premi di risultato. Dall'indagine emerge che l'incidenza media del premio di risultato (il più delle volte variabile) sul complesso della retribuzione lorda è di circa il 3%.


CONTRATTAZIONE TERRITORIALE
Un rapporto del Cnel ci permette di fare una analisi della contrattazione territoriale.
Tra il 1996 e il 2003 gli accordi territoriali sottoscritti sono stati 571.
Il rapporto evidenzia uno scarto tra Nord, Centro e Sud del Paese: più della metà dei contratti territoriali (il 55%) è concentrata al Nord, mentre al Centro sono stati stipulati il 23% dei contratti e al Sud il 22%.
La contrattazione territoriale è diffusa nei settori dell'edilizia (38%) e nell'agricoltura (31%).
Nel comparto dell'artigianato i contratti siglati corrispondono al 18% e nell'area del commercio e del turismo all'8%.
Nell'industria la contrattazione territoriale è pressoché inesistente.

I dati (571 accordi in 7 anni) ci dicono che quello della contrattazione territoriale è un fenomeno non generalizzato.



LE PROPOSTE DI RIFONDAZIONE
Il 23 luglio del 1993 venne siglato il protocollo sulla politica dei redditi che, dopo la liquidazione della scala mobile, inaugurava una nuova stagione di relazioni tra le parti caratterizzata dalla "concertazione".

Di quell'intesa, tuttora in vigore, - che aveva tra i suoi obiettivi la crescita dei salari legata anche alla produttività e alla ricchezza prodotta - oggi è possibile fare un bilancio. Un bilancio assolutamente negativo: le retribuzioni da lavoro dipendente hanno perso oltre dieci punti percentuali a favore dei profitti e delle rendite, che hanno subito un'impennata senza precedenti.

Negli ultimi anni, lo spostamento dai salari alle rendite della ricchezza prodotta ha introdotto nel nostro paese una nuova "categoria": la lavoratrice e il lavoratore poveri.
Contemporaneamente, secondo la Banca d'Italia, nel nostro paese, il 10% delle famiglie detiene circa il 50% della ricchezza nazionale e i guadagni dei dirigenti e dei manager sono 120 volte quelli medi.

La questione salariale del lavoro dipendente si fa dirompente perché alla miseria delle retribuzioni va sommata l'impennata vertiginosa dei prezzi e delle tariffe, lo scandaloso aumento degli affitti e dei mutui, la riduzione dello stato sociale che costringe le lavoratrici e i lavoratori ad "acquistare" dal privato beni e servizi (a partire da quelli sanitari).

In questo quadro in Italia si sta discutendo di riforma del modello contrattuale, in un contesto anche "geografico" assai diverso rispetto al luglio del 1993: l'Europa unita che emana leggi e direttive che i governi nazionali hanno l'obbligo di recepire.
Senza nulla togliere alla necessità di mantenere e rafforzare i contratti nazionali di lavoro e la contrattazione di secondo livello, a nostro avviso è indispensabile ragionare su scala europea.

Per questo suggeriamo alle parti sociali di attivare le rispettive organizzazioni a livello europeo (che a nostro avviso vanno fortemente sburocratizzate) per la definizione di un "contratto europeo".

Per noi il contratto europeo:
deve stabilire sul salario soglie minime sotto le quali non è possibile andare e sull'orario tetti massimi, in modo da impedire la concorrenza al ribasso tra lavoratori, aziende, aree geografiche.




Individuiamo nella semplificazione del numero dei contratti un'altra esigenza, quindi, proponiamo di avviare un percorso che porti alla ricomposizione delle centinaia di contratti nazionali oggi esistenti.


Per noi i contratti nazionali:
possono essere tre, uno per ogni grande area: industria, servizi, pubblica amministrazione.

A una rinnovata e più efficace contrattazione va affiancata una politica fiscale più equa.


Per noi il contratto nazionale di lavoro:

può avere durata triennale;

deve rafforzare il suo carattere solidale e universale, definendo minimi salariali e di diritti non derogabili da altri livelli contrattuali e da applicare su tutto il territorio nazionale;

deve avere l'obiettivo di incrementare il valore reale delle retribuzioni e di ridistribuire parte della ricchezza prodotta;

deve contenere un meccanismo automatico annuale per il recupero del potere d'acquisto dei salari in relazione all'inflazione reale (l'indice Istat sui prodotti ad altra frequenza d'acquisto, dagli alimentari agli affitti, segna per il 2008 il 5.4% )

deve essere rinnovato alla scadenza prevista e deve contenere come clausola che gli aumenti definiti devono essere erogati tenendo come data di riferimento quella della scadenza e non del rinnovo.


Per noi la contrattazione di secondo livello:

può essere aziendale, di sito, di filiera o territoriale (fermo restando i due livelli);

deve essere estesa, generalizzata, esigibile;

deve poter intervenire su tutti gli elementi che compongono la prestazione lavorativa (organizzazione del lavoro, ritmi, orari) e sul salario i cui aumenti non devono avere carattere totalmente variabile;

non può in alcuna materia derogare a quanto previsto dal contratto nazionale;

deve avere una validità che copra l'arco di vigenza del contratto nazionale.


Per noi la politica fiscale:

deve prevedere la riduzione della pressione fiscale utilizzando anche le risorse provenienti dalla lotta all'evasione che - secondo dati apparsi sul Sole24Ore, sulla base dei nuovi valori Istat sull'economia sommersa - nel 2007 corrisponde da un minimo di 89 e un massimo di 100 miliardi. Sono dati che ripropongono le dimensioni minime e massime dell'economia sommersa, che stanno secondo l'Istat tra il 15,3% e il 16,9% del Pil. L'imposta più aggirata è l'Irpef che si attesta tra un minimo di 24,5 e un massimo di 27,6 miliardi non versati. Per ridurre di circa 100 euro al mese le tasse sul lavoro per 16 milioni di lavoratori dipendenti servono circa 15-16 miliardi di euro;

deve reintrodurre il fiscal drag;

deve detassare gli aumenti contrattuali;

deve prevedere la riduzione delle aliquote fiscali sul lavoro dipendente e sulle pensioni basse;

deve prevedere l'aumento al 20% (in Europa è al 23%) della tassazione delle grandi rendite finanziare e delle stock option, salvaguardando i piccoli patrimoni familiari;

devono introdurre il controllo dei prezzi, delle tariffe e delle addizionali locali.


Per noi servono nuove relazioni tra le parti

I problemi strutturali che rendono debole il sistema delle imprese sono legati:
alla dimensione delle aziende (il 95% delle quali ha meno di 9 dipendenti);
alla sottocapitolazione delle aziende;
alla pressoché totale assenza di investimenti in ricerca e innovazione sia di prodotto che di processo;
all'assenza di strutture finanziarie e istituzionali in grado di favorire l'esportazione dei prodotti del made in italy;



A questi elementi, sommati a una ripresa dell'inflazione di circa il 4% e ai clamorosi aumenti del prezzo del petrolio (che porteranno a rincari di prezzi e tariffe che decurteranno ulteriormente il potere d'acquisto dei salari), il Ministro del Lavoro risponde con misure che danneggiano sia i lavoratori che il sistema delle imprese.

La scelta di "rilanciare" la precarietà (ad esempio cancellando il tetto massimo di 36 mesi oltre al quale i lavoratori devono essere assunti a tempo indeterminato e reintroducendo il lavoro a chiamata) oltre a vanificare le poche azioni positive del precedente Governo, non risponde al principio secondo il quale una impresa per essere competitiva nei segmenti a medio e altro valore aggiunto ha bisogno di lavoratori stabili, formati, professionalizzati, motivati.

Dal punto di vista delle relazioni sindacali quello che propone il Ministro è il ritorno al passato: la cancellazione dell'autonomia dei lavoratori e delle loro organizzazioni e un modello di impresa sempre più piccola e frammentata, ossia l'esatto opposto di ciò che servirebbe oggi.

Per competere nelle fasce alte del mercato proponiamo:

la sburocratizzazione delle procedure;
un diverso accesso al credito;
incentivi alla crescita dimensionale e qualitativa delle aziende, alla ricerca e all'innovazione;
rapporti a tempo indeterminato e formazione continua per i lavoratori.


Per nuove relazioni tra le parti:

serve una legge sulla rappresentanza e sulla democrazia sindacale che consenta anche ai delegati dei lavoratori di intervenire nei luoghi dove si discutono e decidono i piani industriali e le strategie delle imprese, permettendo un confronto preventivo basato sulla conoscenza dei processi di trasformazione. E' necessario tanto più oggi, di fronte alle grandi ristrutturazioni che si preparano (da Alitalia a Telecom, all'intero settore degli elettrodomestici).

CONCLUSIONI
I dati sull'evoluzione dei salari e dei profitti dal 1993 al 2007, le cifre relative alla paga mensile netta dei lavoratori dipendenti dei quattro grandi comparti che abbiamo utilizzato come esempio, la comparazione dei salari italiani rispetto al resto d'Europa, le grandi differenze tra Nord e Sud del paese, quelle tra uomini e donne e tra giovani e meno giovani, l'analisi sui rinnovi dei contratti nazionali di lavoro e sulla contrattazione di secondo livello, ci portano ad una serie di considerazioni finali.

La prima rende paradossale l'idea proposta da alcuni per cui ad un ridimensionamento del contratto nazionale corrisponderebbe un aumento della contrattazione di secondo livello.
I dati dicono il contrario: ad un contratto nazionale sempre più debole nel recupero del potere d'acquisto ha corrisposto, nei quindici anni trascorsi, una riduzione quantitativa (in relazione sia al numero di aziende che al numero dei lavoratori coinvolti) della contrattazione di secondo livello.

La seconda. Il fallimento dei propositi redistributivi dell'accordo del luglio 1993 attraverso una contrattazione aziendale con salario variabile.

La terza. La debolezza dei contratti nazionali di lavoro, che hanno a riferimento un indice di inflazione diverso da quello reale, a colmare la perdita di potere d'acquisto delle retribuzioni.

La quarta. La contrattazione aziendale di secondo livello, date anche le ridotte dimensioni della stragrande maggioranza delle imprese italiane, deve essere esigibile.

Di fronte a questi dati di realtà appare evidente la necessità di innovare il modello contrattuale scaturito dall'accordo del luglio 1993 rafforzando la funzione del contratto nazionale. L'idea di indebolirlo ulteriormente e di demandare al secondo livello la contrattazione di diritti universali e del salario, proprio per la difficoltà ad esercitare questa pratica appare strumentale all' impostazione che ha già prodotto molti danni: rispondere all'incapacità innovativa delle imprese italiane facendo leva su un unico, ormai incomprimibile elemento, il salario.

Per queste ragioni riteniamo che a una questione dirompente come quella salariale vada data risposta già dai prossimi mesi.


23/07/2008

L'Artico può essere circumnavigato


Scioglimento record della calotta polare: aperti i passaggi di Nord Ovest e di Nord Est
Lo provano le foto dei satelliti. Studiosi: oceano senza ghiacci d'estate entro il 2030
L'Artico può essere circumnavigato
è la prima volta in 125mila anni


LONDRA - Per la prima volta a memoria d'uomo sarà possibile cirumnavigare l'intero Polo Nord. Foto satellitari scattate due giorni fa mostrano, scrive oggi l'Independent, che lo scioglimento dei ghiacci verificatosi la settimana scorsa ha finalmente aperto contemporaneamente sia il favoleggiato Passaggio a Nord-Ovest che il passaggio a Nord-Est. A dimostrarlo sono immagini scattate da satelliti Nasa. Il Passaggio Nord Ovest, nel territorio canadese, si è aperto nello scorso fine settimana, mentre l'ultima lingua di ghiaccio che ostruiva il Mare di Laptev, in Siberia, si è disciolta qualche giorno dopo.

È un evento clamoroso che, se da un lato corona il sogno secolare di generazioni di esploratori, navigatori e viaggiatori, dall'altro rappresenta un preoccupante segnale dell'accelerarsi del processo del riscaldamento globale. Sul breve periodo, naturalmente, la novità dovrebbe portare soltanto vantaggi alle varie compagnie di navigazione che per la prima volta nella storia potranno tagliare migliaia di miglia marine lungo le rotte tra il nord del Canada e la Russia.

Negli scorsi decenni, in varie occasioni si è verificata la situazione dell'apertura dell'uno o dell'altro passaggio ma mai, come in questi giorni, era accaduto che entrambe le due misteriose porte dell'artico si dischiudessero simultaneamente.

E' questo solo l'ultimo segnale della crisi dell'intero ecosistema artico. Solo pochi giorni fa, il National snow and ice data center (NSIDC) statunitense ha informato che quest'anno l'estensione globale del ghiaccio artico è prossima a battere il record record negativo, dello scorso anno, di 4,14 milioni di chilometri quadrati: un valore inferiore di oltre un milione di metri cubi al record precedente, fissato nell'estate 2005. In due anni, i ghiacci del Polo Nord si sono ritirati per un'estensione grande quattro volte l'Italia.


Quattro settimane fa, i turisti sono stati fatti evacuare dal Parco Nazionale Auyuittung, nell'Isola di Baffin, la grande isola del Nunavut canadese situata a occidente della Groenlandia, a causa dello scioglimento dei ghiacci: "Auyuittung", in lingua inuit, significa "terra che non scioglie mai"... E' di pochi giorni fa la vicenda dei nove orsi polari rimasti senza habitat e visti nuotare in mare aperto, seguita a breve da un immenso crollo nel ghiacciaio Petermann, in Groenlandia, in un'area che si riteneva ancora immune dagli effetti del global warming.

Ma la simultanea apertura del Passaggio Nord Ovest, intorno al Canada, e del Passaggio Nord Est, intorno alla Russia, a costituire un vero e proprio choc. Non accadeva, secondo i climatologi, da almeno 125mila anni. Dall'inizio dell'ultima era glaciale erano rimasti entrambi bloccati: nel 2005 si era aperto solo il Passaggio Nord Est, l'estate seguente era accaduto il contrario.

"I passaggi sono aperti, è un evento storico, ma con il quale dovremmo abituarci a convivere nei prossimi anni - ha confermato il professor Mark Serreze, uno specialista di mari ghiacciati del NSIDC, sottolineando però che le autorità marine dei Paesi interessati potrebbero essere riluttanti ad ammetterlo, per evitare di essere citate a giudizio dalle compagnie di navigazione, le cui imbarcazioni dovessero incontrare ghiaccio e subire danni".

Gli armatori però sono tutt'altro che disinteressati. Il "Beluga Group" di Brema, ad esempio, ha già fatto sapere che manderà navi dalla Germania al Giappone via Passaggio Nord Est, con un taglio netto di 4000 miglia nautiche, quasi 7.500 km, rispetto alla rotta tradizionale. E il premier canadese Stephen Harper ha già fatto sapere che chiunque volesse attraversare il Passaggio Nord Ovest dovrebbe fare riferimento ad Ottawa: un punto di vista, questo, che non piace agli Usa, che considerano quella parte di Artico acque internazionali.

I climatologi però rimarcano che simili dispute potrebbero essere irrilevanti, se il ghiaccio continuasse a sciogliersi al ritmo attuale. In tal caso, infatti, sarebbe possibile navigare direttamente attraverso il Polo Nord, completamente liberato dai ghiacci. Evento questo, che fino a poco tempo fa si riteneva possibile che dal 2070. Ora, però, molti studiosi indicano il 2030 come l'anno entro il quale l'Oceano Artico sarà completamente fluido in estate, mentre uno studio del professor Wieslaw Maslowski, della Naval Postgraduate School di Monterey, California, arriva a concludere che già dal 2013 il mare sarà completamente aperto da metà luglio a metà settembre. Il "punto di rottura", l'evento che ha ulteriormente accelerato il processo di scioglimento, è costituito dalla perdita-record di massa ghiacciata, dello scorso anno: le masse solide sono scese a un livello che non si attendeva fino al 2050, mandando all'aria tutti i calcoli prodotti fino a quel momento.

Quest'anno è andata un po' meglio, l'inverno è stato più freddo, e per un po' è sembrato che i ghiacci potessero difendere meglio le loro posizioni. Ma in agosto lo scioglimento ha subito un'improvvisa accelerazione e la scorsa settimana la superficie globale dell'Artico ricoperto di bianco era già al di sotto del livello minimo del 2005. Secondo l'Agenzia spaziale europea (Esa), in qualche settimana anche il record del 2007 sarà battuto. Uno studio recente dell'Università dell'Alberta dimostra che lo spessore dei ghiacci artici si è assottigliato della metà in soli sei anni. Ed è un processo che alimenta se stesso, perché man mano che la superficie bianca viene rimpiazzata dal mare, la superficie di quest'ultimo, più scura, assorbe via via più calore, contribuendo a riscaldare l'oceano e a sciogliere altro ghiaccio.

(31 agosto 2008)

L'embargo statunitense verso Cuba


non lo sapevo

giovedì 25 giugno 2009

Sinistra in crisi - La prima casamatta

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=9284

di Giulietto Chiesa da il Manifesto del 24 giugno 2009

La descrizione di Asor Rosa sulle cause e responsabilità, politiche, personali e morali, che portarono al naufragio della “ Camera di Consultazione ” è esatta. Le cose sono andate così. Attardarsi in una polemica retrospettiva è pura perdita di tempo, anche perché significherebbe riaprire una discussione proprio con coloro che hanno creato il disastro e che rivelano, ogni giorno che passa, di non avere più la capacità intellettuale di partecipare a un qualsiasi rinnovamento.

Ripartire da quel processo è impossibile. Troppe cose sono cambiate, e si sono, in certo senso, chiarite. Anche sulla diagnosi dello stato delle cose a sinistra non avrei granché da aggiungere.

Ma l'idea della Camera di Consultazione non è da buttare via. Bisogna soltanto ridefinire chi è che vogliamo “consultare”. Chi deve prendere parte a questa consultazione.

I due, tre, quattro spezzoni della sinistra istituzionale (a sinistra del PD)? Naturalmente no.

È finita del tutto l'epoca in cui qualcuno deve e può “dare la linea”.

Ma l'Italia non è ancora morta intellettualmente e moralmente, nella sua io credo ancora maggioranza. In ogni caso questa Italia esiste, anche se non può essere considerata tutta, automaticamente, “sinistra”. Esistono centinaia di realtà che si sono già autonomizzate dalla politica della sinistra istituzionale. Sono milioni di cittadini ed elettori, senza guida e senza rappresentanza, ma esistono, eccome!

Il problema è che non esiste allo stato attuale delle cose un punto di riferimento politico, culturale, organizzativo. E non esisterà per un certo periodo di tempo.

Vediamo cosa significano questi tra aggettivi . I più “difficili” mi sembrano il primo e il secondo. Anche il terzo lo è, ma affrontati i primi due, potrebbe rivelarsi non insormontabile.

Un punto di riferimento politico e culturale nuovo è indispensabile. La sinistra è stata sconfitta perché ha sbagliato l'analisi della società italiana e del mondo globale. L'ha sbagliata perché non ha saputo studiare né la prima né il secondo. Non ha saputo fronteggiare l'irrompere della “società dello spettacolo”. Non ha saputo capire la portata della lotta contro il terrorismo internazionale (e per questo ha sacrificato il grande movimento contro la guerra) . Non ha capito l'11 settembre. Non ha visto la mutazione antropologica che accompagnava il passaggio dal cittadino produttore al consumatore compulsivo. Non ha compreso le trasformazioni strutturali del capitalismo finanziario mondiale. Ha accettato, senza dirselo e senza dircelo, la narrazione del mondo dei dominatori. Non ha visto niente e ha continuato a ripetere un messaggio morto con un linguaggio che è divenuto incomprensibile ai più.

La sconfitta viene da qui. Ed è qui che bisogna porre rimedio. Mettere insieme quattro ciechi non significa crearne un quinto che ci vede.

Il che significa produrre nuova conoscenza, nuova cultura. E, su queste basi, fondare un'agenda chiara di priorità. Sciogliendo prima di tutto i nodi che sono rimasti aggrovigliati nell'ideologia del passato e introducendo un nuovo livello di complessità. Poi costruendo una piattaforma comune a un vasto schieramento di pensieri e di valori. Infine proponendola al paese, a quella parte – solo allora potremo vedere quanto grande - del paese che l'attende.

Chi può organizzare questo percorso? Un gruppo di persone dotate di sapere e liberi da vincoli di partito. Diciamo super partes, che riscuotano larga fiducia, ai quali affidare il compito di organizzare il percorso e di fissare i punti dell'agenda da costruire. A suo tempo dissi su queste colonne che occorreva una Fondazione come terreno comune. Una “Fondazione per l'Alternativa”.

Certo che non è compito facile né rapido. Ma è un compito collettivo ineludibile. Ci sono le forze? Io credo che esistano e che vanno aiutate a unirsi.

Nessuno può e deve essere escluso da questo percorso. Purché accetti il principio che non ci sono, al momento, linee da attuare, ma che c'è prima di tutto la necessità di capire e, poi, di trovare una convergenza politico-culturale. Io proporrei ad Asor Rosa di mettere insieme un gruppo di persone che lo aiuti a svolgere questo ruolo iniziale.

Io sono convinto che, se si attuasse con coerenza questa prima parte del percorso, la questione organizzativa immediatamente successiva potrebbe essere affrontata. Che è quella di costruire una “maniglia” di riferimento comune alla miriade, davvero grande e interessante, di organismi, comitati, forme di lotta, che si muovono in molte aree del paese, ma non si vedono, non si sentono, perché sono isolate, perché non hanno voce, perché non possono raggiungere, ciascuna per conto proprio, la massa critica sufficiente per entrare nella narrazione conosciuta alle grandi masse.

Si capisce che sto parlando anche di un mezzo di comunicazione e di informazione nazionale, che esprima (che si prepari ad esprimere e comunicare) quell'agenda di cui parlavo poc'anzi.

Senza di esso nulla potrà essere costruito, che sia degno d'interesse. Non perché non si possano mettere in fila i punti di un'agenda reale dei problemi da risolvere per portare il paese fuori dal disastro, ma perché “se non si è trasmessi non si esiste”, quale che sia il valore di ciò che si dice.

La crisi nazionale è grave e potrebbe velocemente demolire il castello di carte bipartitico e fasullo che PD e Berlusconi hanno imposto al paese. I due sono avvinghiati nella caduta. L'unica cosa che non possiamo prevedere è quanto grande sarà il tonfo e quante macerie ci cadranno addosso. Altrettanto si deve dire della crisi economica mondiale, tutt'altro che terminata e che, anch'essa, si riverserà sulle teste dei milioni e miliardi di diseredati e di ceti medi.
Per tutto questo c'è l'urgenza di creare un punto di riferimento. Chiamiamolo una “casamatta”, da cui almeno resistere. Ci sono cose sulle quali, data l'attuale gravissima debolezza del campo democratico, non potremo influire se non marginalmente. Ma ce ne sono molte su cui possiamo agire. Tutto salvo perdere tempo in chiacchiere insulse sulle alleanze di governo con spezzoni di un mondo politico che comunque si frantumeranno in altri mille frammenti.

Sinistra in crisi - Alberto Asor Rosa

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/ricerca-nel-manifesto/vedi/nocache/1/numero/20090617/pagina/01/pezzo/252573/?tx_manigiornale_pi1[showStringa]=asor%2Brosa&cHash=e684f3cf7e

Gli smemorati di sinistra


Con l'articolo che segue Il manifesto apre una discussione sul futuro dei «sinistrati». Nei prossimi giorni seguiranno le riflessioni di Paul Ginsborg, Luciano Gallino, Luigi Ferrajoli, Luciana Castellina, Piero Di Siena.
Il 15 gennaio 2005, preceduta da una campagna di stampa sul manifesto durata sei mesi, alla quale parteciparono le personalità più rilevanti della sinistra italiana, politici e intellettuali, si riunisce alla Fiera di Roma una grande Assemblea nazionale.
Un'assemblea, affollatissima ed entusiastica, che darà vita a quella che qualche giorno più tardi si definirà, - modestamente e ambiziosamente insieme - «Camera di consultazione della sinistra».
Compiti espliciti e teorizzati del neonato organismo sono: a) la riformulazione di un organico programma della sinistra radicale italiana, quale non era ancora uscito dalla fase convulsa post-1989; b) l'intenzione di mettere a confronto continuo ed organico società politica e società civile, politici e intellettuali, partiti e associazionismo, secondo una modalità, da tutti a parole auspicata, di «democrazia partecipativa»; c) l'avvio di un processo di fusione delle forze organizzate della sinistra radicale, allora molto più consistenti di oggi (nel titolo redazionale del mio articolo del 14 luglio 2004, con cui il manifesto dette inizio alla campagna suddetta, vi si accennava in forma interrogativa ma chiara: «Che fare di quel 15%?»). Aderirono in maniera attiva, oltre a molte associazioni politiche e culturali di base (mi piace ricordare con particolare rilievo il fiorentino «Laboratorio per la democrazia»), Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, una componente significativa dei Verdi (Paolo Cento e altri). Vi svolsero un ruolo non irrilevante la Fiom e l'Arci. Vi partecipa attivamente Occhetto. Dà un contributo insostituibile Rossanda. Alle riunioni tematiche intervengono o collaborano Rodotà, Tronti, Ferrajoli, Dogliani, Magnaghi, Ginsborg, Serafini, Bolini, Lunghini, Gallino e altri.
Quando nell'aprile 2005 si tratta di fare un passaggio decisivo, - quello che consiste nel «mettere in comune» un certo numero di temi da discutere e di decisioni da prendere («dichiarazione d'intenti»), - nel corso di un'animata riunione presso la Casa delle culture di Roma, Fausto Bertinotti, improvvisamente e calorosamente, se ne chiama fuori. Una gentile signora, sua fedelissima, abbandonando la sala, mi passa accanto e affettuosamente mi sibila: «Bella come esperienza intellettuale ma la politica è un'altra cosa».
Mi rendo conto, naturalmente, che ognuno che abbia preso parte, attivamente e convintamente, ad una qualche esperienza, sia spinto ad attribuirle un'importanza eccessiva. Mi pare però che, obiettivamente, sia legittimo, a partire da questa, anche personale, disfatta, porre almeno due domande: 1) Quale altro serio tentativo di perseguire l'«unità della sinistra» è stato fatto successivamente? (spero che a nessuno venga in mente di tirar fuori l'aborto elettoralistico dell'Arcobaleno, che è esattamente il contrario di quel che io pensavo si dovesse fare); 2) è mai possibile che ci si ripropongano di volta in volta gli stessi problemi e non ci si chieda mai quale esperienza ne abbiamo già fatto, positivamente o negativamente, nel (talvolta immediato) passato? (sicché non si sa mai bene di chi e di cosa si parla).
La scelta bertinottiana, giusta o sbagliata che fosse (a me pare, naturalmente, che fosse drammaticamente sbagliata), consisteva nello scegliere senza esitazioni le «ragioni del Partito», del «suo» Partito, ovviamente, che, in base al sacro principio dell'autoreferenzialità del ceto politico italiano (di qualsiasi colore esso sia), coincidevano con quelle sue personali. I risultati delle elezioni del 2006, cui egli guardava, sembrarono perfino dargli ragione. Ma su di un periodo appena un po' più lungo, sono risultate catastrofiche.
Cercherò di dire ora, a scanso di equivoci, perché lo schema logico-politico della «Camera di consultazione», così nostalgicamente richiamato nelle righe precedenti, non sia più oggi riproponibile. Quello, in realtà, era un semplicissimo schema binario: bisognava costruire una sinistra radicale unitaria da affiancare in maniera tutt'altro che subalterna ad una sinistra moderata altrettanto unitaria, allo scopo di governare decentemente il paese, arginando la possente ondata berlusconiana.
Oggi le cose rispetto ad allora si sono estremamente complicate, da una parte come dall'altra (ha ragione Parlato a farlo rilevare). Lo schema binario non regge più, se non nei termini assolutamente generali della coppia «progresso-reazione» (sulla quale tuttavia tornerò più tardi). Le ragioni mi sembran queste: 1)fra le due componenti più consistenti (si fa per dire) della sinistra radicale le divergenze sono strategiche, e dunque incomponibili; 2)le forze che hanno dato vita alla lista «Sinistra e libertà» promettevano all'origine di rappresentare una seria alternativa riformista al, presunto, riformismo della cosiddetta sinistra moderata; da come stanno andando le cose, rischiano di fungere solo, al centro come, soprattutto, in periferia, da gambetta di sinistra del Pd; 3)il Pd non è, come dichiarava di voler essere, il partito della sinistra moderata, o di un centro-sinistra moderato o di un moderato riformismo: è invece un qualcosa che rischia sempre più di sparire come tale per la sua organica incapacità di darsi una fisionomia e un'identità, quali che siano; contemporaneamente, non è più neanche in grado di egemonizzare la sinistra (?) moderata (crescita del dipietrismo); 4)l'autoreferenzialità del ceto politico della sinistra - tutto - è cresciuto in misura feroce in ragione diretta della lotta che esso conduce per la propria sopravvivenza.
Contestualmente, il caso italiano, da «anomalo» qual era, rischia di diventare, come è accaduto altre volte nella storia, «esemplare» a livello europeo. La deriva di destra del Vecchio Continente, che rappresenta la sua patetica ma dura e inquietante risposta ai rischi e alle incertezze, contemporaneamente, della globalizzazione e della crisi (in controtendenza, e questo ne costituisce un ulteriore motivo di debolezza, con le scelte americane), dovrebbe costituire attualmente il vero tema di riflessione per la costruzione di una «nuova sinistra» in Italia e in Europa. Anzi, più esattamente: cosa s'intende per «programma di sinistra» oggi in Italia e in Europa? Come si organizza e «si rappresenta», al di là di ogni ulteriore qualificazione, una «forza di sinistra» oggi in Italia e in Europa?
La domanda è così radicale (e io desidero consapevolmente che lo sia) da riguardare nella stessa misura, anche se con modalità diverse, forze di sinistra moderate e forze di sinistra radicali: i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi e spagnoli, i laburisti inglesi, i democratici (?) italiani; e la Link in Germania, i verdi in Francia, i «comunisti» e tutti gli altri in Italia. Insomma, nel suo insieme, il «blocco» politico e sociale di forze cui è affidata in Europa la possibile alternativa (qui torna alla fine, naturalmente molto semplificato per ovvii motivi, lo schema binario, che però, lo ribadisco, in questa parte del mondo è ineludibile).
È chiaro che s'apre in questo modo un orizzonte sconfinato di problematiche e di riflessioni, frutto, oltre che della complessità dei problemi, anche dell'immenso e disastroso ritardo con cui vengono affrontati (ammesso che, ora, lo siano). Io penso seriamente che i milioni di astenuti a sinistra si astengano esattamente perché non hanno una risposta a queste domande. C'è un'alternativa già oggi operante, che sostituisca alla lenta e seria fusione una qualche miracolosa formula alchemica? Fatemela vedere, e cambierò opinione.

cultura giovanile ..... ? cosa?

chissà se riguardo alla prova d'esame sull'origine e gli sviluppi della cultura giovanile si possano trovare le motivazioni per cui accade quanto riportato di seguito.




http://www.repubblica.it/2009/06/sezioni/politica/berlusconi-divorzio-9/manila-intervista/manila-intervista.html

IL PERSONAGGIO
"Così l'organizzazione reclutava le ragazze nei miei reality tv"
Parla Manila, la trans amica delle ospiti del Cavaliere
di CARLO BONINI

BARI - Ai tavolini del "Viveur", un bar nel nulla di Triggiano, Manila Gorio, barese, 27 anni, si ravvia di continuo i capelli neri, manifestando in fondo un qualche compiacimento per il vortice che ha preso a girarle intorno. Il suo cellulare bolle. Manila è un transessuale di successo. "Non solo un corpo - dice - ma un volto e una testa televisiva. Sono una con i coglioni. Sono la Simona Ventura del Mezzogiorno". Soprattutto - ne sono convinti gli investigatori - è una delle chiavi di questa storia. E il motivo, come lei stessa conferma, non sembra essere esattamente una coincidenza o un incrocio del destino.

Patrizia D'Addario, Barbara Montereale, Angela Sozio, le tre ragazze baresi che, in tempi diversi, hanno avuto accesso alle residenze del presidente del Consiglio (la D'Addario e la Montereale a Palazzo Grazioli la sera del 4 novembre 2008, la Sozio, a Villa Certosa, nel 2007, dove venne fotografata da Antonello Zappadu in grembo al premier), sono le sue "migliori amiche". Ma, soprattutto, sono state a lungo satelliti di un sistema di cui Manila dice di essere il sole.

LE FOTO DI MANILA

Perché prima di conoscere la benevolenza del presidente del Consiglio, Patrizia, Barbara e Angela sono passate per la vetrina di Manila. Protagoniste dei suoi set televisivi su "Teleregione": "Bellissimo Sud", "la Masseria", reality che fanno il verso ai più famosi set di "Uomini e Donne" e "la Fattoria". Nei giorni in cui esplode il caso di Patrizia e comincia a prendere forma la rete di Gianpaolo Tarantini, Manila dice sbrigativa: "A Bari c'era questa organizzazione che faceva la spola: questo si diceva da tanto tempo, si sapeva in giro".

Che storia è questa dell'"organizzazione che faceva la spola" e di cui tutti sapevano? La "spola" era tra Bari e Roma? Tra Bari e Milano? Tra Bari e la Sardegna?
"Prima di rispondere, faccio una premessa. Io non sono una di quelle che la dà in giro. Sono sempre arrivata dove sono con le mie forze".

E "l'organizzazione?".
"Patrizia mi aveva confidato qualcosa dei suoi incontri con Berlusconi un po' di mesi fa. Anche se non immaginavo proprio che avrebbe fatto quello che ha fatto. Magari l'avrei anche consigliata. E comunque, quando avevo saputo, facendo uno più uno qualcosa mi era venuto in mente".

Cosa?
"I ragazzi e le ragazze che frequentano i miei programmi vedono in me una speranza. Almeno una cinquantina di ragazze che sono passate da qui, dai miei programmi, sono poi approdate a "Uomini e Donne", ad "Amici", ai provini del "Grande Fratello" e dell'"Isola dei Famosi". Che so, Chantal Sisto ha cominciato con me ed è stata poi una delle troniste di Maria De Filippi. Per carità, non tutti ce la fanno e infatti chi viene scartato spesso torna da me. Perché è brutto avere l'illusione di avercela fatta e poi non avere più niente. E' una cosa terribile".

E questo cosa c'entra con "l'organizzazione"?
"Evidentemente qualcuno ha capito che intorno a Manila c'è un vivaio fertile di persone che vogliono farcela. Ragazze e ragazzi molto belli. E ha pensato di proporli in un giro di persone importanti. Io ovviamente non vado in giro a chiedere alle mie amiche cosa fanno, quali serate accettano. Chi fa l'escort e chi no. Io, diciamo, sono solo una talent scout. A quanto pare un po' ingenua, visto che sono una delle poche a non essere stata invitata a Villa Certosa".

Quindi si può dire che la spola dell'organizzazione a cui lei fa riferimento è sull'asse Bari-Roma-Milano?
"Direi di si".

E si può dire che il bacino di "reclutamento" era su chi è in cerca di fama televisiva o magari la fama televisiva l'ha conosciuta solo per una sera?
"Esatto".

Lei ha detto: "Sono una talent scout". Di Gianpaolo Tarantini?
"Non sono amica di Gianpaolo. Sicuramente sarà capitato di esserci incrociati a qualche festa. Ma nulla di più".

E allora chi è questo "qualcuno" che pesca tra le sue scoperte e le inserisce nell'organizzazione?
"Non ne ho idea. Anche se ho letto che Patrizia ha detto di essere arrivata a Gianpaolo e all'invito a Palazzo Grazioli attraverso un suo "amico"".

A Patrizia lo ha chiesto chi è questo amico?
"No. Sono cinque giorni che non mi risponde al telefono. E la cosa francamente mi sorprende. Io e Patrizia siamo più che amiche. Per me è quasi una sorella. L'ho praticamente aiutata a tirare su sua figlia".

Conosce un tipo che di nome fa Nicola D., ma è più noto nel giro notturno di Bari come "Nic"?
"Sì. Lo conosco".

Nella vita cosa fa questo "Nic"?
"Non ne parlo volentieri perché è una persona che non mi piace. Diciamo che organizza feste e conosce persone importanti. Ma preferisco evitare".

Sa se è coinvolto in giri di cocaina?
"A questa domanda non rispondo".

Pensa che sia stato "Nic" a consigliare a Gianpaolo Tarantini di introdurre Patrizia D'Addario al presidente del Consiglio?
"Penso di sì. Ma, ovviamente, non ne sono sicura. E' una mia impressione, diciamo. E sarà la prima domanda che farò a Patrizia. So che la vogliono invitare nei prossimi giorni a una serata in discoteca. Magari ci vediamo lì".

La notte del 4 novembre 2008 Patrizia è a Palazzo Grazioli. Prima di allora, che lei sappia, aveva avuto modo di frequentare politici?
"Sì, è capitato. A volte eravamo anche insieme. A feste, convention, che so. Insomma, devi capire che Patrizia è bella. Gli uomini se ne vanno a terra per lei. Non so quante volte al "Fico" di Bisceglie, ballavamo sui tavoli a piedi nudi e loro avrebbero fatto qualsiasi cosa. E a Patrizia piace la bella vita e che qualcuno perda la testa per lei".

Frequentava politici di destra e di sinistra?
"Politici".

Le è mai stato offerta una candidatura politica?
"Sì, quest'anno. Nella lista per le comunali di Fitto "La Puglia prima di tutto"".

La stessa di Patrizia.
"Esatto. Ma ho rifiutato".

E perché?
"Mi sembrava caricaturale che io e Patrizia finissimo a fare la stessa cosa".

23 giugno 2009

Sinistra in crisi - Luciano Gallino

http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2009/mese/06/articolo/994/
Valentino Parlato

Luciano Gallino, questa crisi della sinistra è una crisi italiana, con Berlusconi, oppure è europea?

Direi che seppure con molte differenze tra un paese e l’altro è una crisi europea che ha molte forme. Basti pensare al caos del Partito socialista francese o la deriva verso posizioni di centro-destra del labour britannico o dei socialdemocratici tedeschi. Quindi nell’insieme direi che è una sindrome europea.

Negli anni 70 questa sinistra era forte in Italia e in Europa. Quali possono essere le cause di questa crisi? La miopia dei dirigenti?

Il crollo dell’Unione sovietica è stato un fattore di grande importanza, non foss’altro perché ha rafforzato fortemente il centro-destra e la destra. Teniamo presente che le conquiste dei lavoratori tra gli anni ’60 e ’70 - salari decenti, prolungamento delle ferie, sabato festivo, servizio sanitario nazionale, nel nostro paese come in altri - sono stati possibili anche perché la classe egemone vedeva con grande preoccupazione l’Urss, naturalmente per il suo peso sulla scena mondiale ma anche per quello che poteva significare come sostegno – ideologico oltre che materiale – ai partiti di sinistra dell’occidente. Caduta l’Unione sovietica, la destra ha preso forza e fiato e le sinistre si son trovate un po’ l’erba tagliata sotto i piedi.
C’è un altro aspetto che in parte spiega la sconfitta, cioè il totale fraintendimento da parte delle sinistre, dei partiti socialdemocratici in particolare, del processo di globalizzazione. Mi riferisco allo scambio che è effettivamente avvenuto fra l’Occidente che ci ha messo capitali e tecnologia, e la Cina, l’India ecc. che ci hanno messo la manodopera pagata una miseria. Non hanno capito, quindi sono caduti in una prospettiva che io chiamo adattazionista: la globalizzazione c’è, perciò non resta che adattarsi ad essa. Che significa aver perso la partita ancor prima di cominciare.

Ma non c’è anche un cambiamento nel mondo del lavoro e una perdita di importanza del lavoro, la fine del fordismo, la società post-industriale... si può dire una società post-industriale?

No, direi di no per due motivi. Intanto l’industria continua ad essere un settore di grande importanza in tutte le economie sviluppate. In secondo luogo i modelli di organizzazione dell’industria, messi a punto nell’arco di un secolo dall’industria manufatturiera, sono stati applicati anche ad altri settori. Al presente l’agroindustria, la ristorazione rapida, i call centers ecc. utilizzano dei modelli di organizzazione del lavoro che sono quelli inventati un secolo fa.

Secondo lei il terziario si è industrializzato?

Gran parte del terziario ha adottato modelli organizzativi dell’industria che si fondavano, e in gran parte ancora si fondano, sull’imperativo taylorista: voi lavorate, noi pensiamo.

C’è quella frase di Marx che ogni tanto viene citata «lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà una ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza». C’è una perdita di valore nel lavoro?

Certamente sì. Perché a partire dalla fine degli anni 70 si è avuta una straordinaria finanziarizzazione dell’industria e dell’attività produttiva in generale. Quindi si sono sempre più sviluppate tecnologie complesse per produrre denaro mediante denaro, scartando per quanto possibile il passaggio attraverso le merci, o facendo fabbricare le merci dai cinesi o dagli indiani. Quindi la produzione di denaro per mezzo di denaro ha portato con sé -e per certi aspetti è stata anche scientificamente cercata – la svalutazione, la sottovalutazione del lavoro manuale, del lavoro industriale.

Non potevano resistere dei partiti, il Pci soprattutto, che già avevano preso le distanze dall’Unione sovietica? O sono stati capitolardi?

Debbo dire, con mio rincrescimento, che sono del tutto d’accordo con questa interpretazione. La capitolazione dei partiti comunisti è stata precipitosa, e per certi aspetti inconsulta, anche se il crollo dell’Urss è stato un trauma colossale. Però che il socialismo realizzato avesse crepe profonde si sapeva da tempo. Temo quindi che la definizione di capitolardi sia azzeccata.

Insomma, a questo punto le sinistre hanno rifiutato l’identità passata ma non si sono date una identità nuova...

Certo, perché - l’ho detto all’inizio - non avevano capito nulla del processo di globalizzazione. Non avevano capito che la globalizzazione è un aspetto di una guerra di classe globale. E’ una espressione che da noi fa saltare sulla sedia, anche molti a sinistra. Ma io la prendo da un libro che ho sul tavolo, un libro americano che si intitola The global class war di Jeff Faux, fondatore dell’ Economic Policy Institute, che da buon americano liberal non teme di usare le parole che occorre usare, cioè conflitto di classe. Mentre le nostre sinistre hanno rimosso l’idea stessa di classe sociale.

Cosa fare per tornare forti e protagonisti?

Dall’89 sono passati 20 venti anni. Quello che si è smontato in vent’anni non è che si possa rimontare in poco tempo. Sicuramente un recupero della teoria critica, intesa non soltanto come recupero dei francofortesi che, comunque, avevano molte cose da dire. Ma anche come capacità di analizzare a fondo il processo dell’economia globale, come ad esempio sanno fare molti centri studi liberal americani, perché se uno vuol capire qualcosa finisce che deve passare di lì. Gran parte del nostro centro sinistra è molto più a destra dei liberal americani, quindi bisognerebbe partire dall’analisi delle classi, da una analisi seria del processo di globalizzazione.

Adesso Bertinotti dice confluiamo nel Pd.

Il Pd è certo un aggregato un po’ singolare. Debbo dire che nelle conferenze, nei seminari che faccio, negli incontri ai quali sono spesso invitato anche dal Pd, scopro che molti interlocutori sono di sinistra. E’ vero che sapendo che io sono di sinistra c’è una sorta di pre-selezione, comunque credo che nel Pd ci sia davvero una componente di sinistra. Però il confluire nel Pd non mi parrebbe una soluzione.

E per esempio l’unificazione fra Sinistra e libertà e Rifondazione.. a me non convince. Non potrebbero mettersi insieme e cercare di definire un programma di sinistra, sulla base di un programma poi unificarsi, mettersi d’accordo..

Sì. Credo che la partenza dovrebbe essere l’analisi, la critica, l’opposizione intellettuale, gli approfondimenti e un programma. E poi su questo vedere come ci si può aggregare. Però da qualche parte bisogna pur cominciare

Dovrebbero smettere di litigare...

E sì, questo fa veramente cascare le braccia.

L’ultima domanda. Io faccio questa intervista, chiedo articoli proprio per aprire una discussione proprio sul che fare della sinistra. Come si rinnova e si unifica la sinistra. E’ utile che il manifesto cerchi di diventare un forum di questa discussione?

Direi di sì, anche perché non ce ne sono altri. Il manifesto si vede, gira, è letto. E’ che inventarsi nuovi forum, nuovi mezzi di comunicazione mi pare – oggi come oggi – molto difficile. E’ chiaro che le voci, gli umori, le sensibilità sono molto diverse, quindi bisogna restare assai aperti. Però mi pare che lo spazio ci sia e che in ogni caso, qualunque sforzo di allargarlo può essere utile.

martedì 23 giugno 2009

Storia del colonialismo in Africa


per capire meglio il presente:

http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_colonialismo_in_Africa

Bruxelles maggio 2009 - seminario internazionale comunista

ammetto l'ignoranza. Non sapevo che ci fossero questi seminari.


www.resistenze.org - pensiero resistente - movimento comunista internazionale - 12-06-09 - n. 278

da Partito dei lavoratori del Belgio www.wpb.be
Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura di CT del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

18° Seminario Internazionale Comunista

L’attuale situazione dei giovani, l’azione dei comunisti tra i giovani e l’inclusione delle nuove generazioni nei Partiti comunisti
Bruxelles, 15-17 maggio 2009

1/6/2009

Mozione di solidarietà con Cuba

Il meeting dei partiti al 18° Seminario Comunista Internazionale esprime la solidarietà con il popolo di Cuba e saluta il 50° anniversario della Rivoluzione cubana.

Nonostante tutti i tentativi degli imperialisti di distruggere, condannare e isolare la Rivoluzione cubana, essa prosegue nel suo sviluppo e rafforzamento e si conferma un’alternativa giusta, equa e sostenibile.

Riconosciamo il contributo che Cuba ha dato al processo di integrazione in corso nell’America Latina. Appoggiamo la battaglia dei popoli latinoamericani volta alla costruzione di società democratiche e antimperialiste e animata da aspirazioni socialiste, una lotta mai venuta meno nonostante le cospirazioni degli Stati Uniti e l’offensiva controrivoluzionaria.

Chiediamo l’abolizione del blocco economico, commerciale e finanziario che è stato imposto a Cuba più di 48 anni fa dai governi USA che si sono succeduti e rappresenta una perdita superiore a 93 miliardi di dollari. Il blocco è il principale ostacolo per lo sviluppo economico e sociale dell’isola. Non c’è nessuna scusa morale e politica che giustifichi il proseguimento di questa politica genocida. Il blocco deve essere sospeso, senza alcuna dilazione o condizione, senza aspettarsi da Cuba alcun segnale o azione.

Chiediamo l’immediata liberazione dei cinque eroi cubani che sono in prigione da più di 10 anni negli Stati Uniti, per aver combattuto contro il terrorismo, e che sono vittime dell’odio, delle azioni arbitrarie e dell’ingiustizia dell’impero.

Appoggiamo il proseguimento del dialogo politico tra Cuba e l’Unione Europea come importante passo verso la piena normalizzazione delle relazioni. Chiediamo che la posizione comune debba essere superata per il suo carattere unilaterale e inflessibile, che riflette la visione discriminatoria e manipolata della società cubana.

Chiediamo che vengano rispettati i diritti di Cuba all’autodeterminazione e alla costruzione senza indugi del sistema politico, economico e sociale che il suo popolo ha scelto. Questo costituisce un requisito indiscutibile di sovranità.

Viva la solidarietà internazionale!
Viva il socialismo!

Bollettino del Coordinamento Nazionale Bolivariano - 2009 gennaio

http://www.coordinamentobolivariano.org/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=33&Itemid=27


BRASILE
Possiamo intendere quest’articolo solo come un primo passo di approccio al Brasile. Troppo ampia, complessa e, soprattutto, fluida è la realtà brasiliana perché non appaia improbabile l’impresa di condensarla in poche righe e di tracciare delle deduzioni definitive. Un gigante impantanato nel sottosviluppo, che aspira a diventare una superpotenza di caratura mondiale. Un paese impegnato, in un modo o nell'altro, a cercare di ricalcare il "grande balzo in avanti" cinese che, sempre più, sta soppiantando, non solo economicamente, il vecchio protettore statunitense come un "esempio" da seguire. Mantenendo, però, i caratteri della contraddittorietà indiana. I numeri ci sono tutti, dimensione geografica e demografica, ricchezze naturali, così anche le forze produttive, che si sono sviluppate enormemente negli ultimi venti anni. Una rinascita per certi versi inaspettata, considerando che fino a metà degli anni '80, questo era uno dei paesi al mondo col più alto debito estero, dovuto all'asservimento filocoloniale della borghesia compradora, che per decenni e come tanti altri, ha foraggiato l'espansione dell'economia statunitense.

I passaggi fondamentali che hanno permesso la riapertura di una prospettiva di sviluppo, in chiave capitalistica, sono stati la fuoriuscita dal fascismo e, parallelamente, l'esplosione dei prezzi delle materie prime che, grazie ad una politica economica meno succube all’imperialismo occidentale, ha permesso di accelerare il processo di accumulazione interna di capitale. Soprattutto i grandi processi di concentrazione e centralizzazione della produzione, hanno proiettato molte aziende brasiliane tra le più importanti a livello mondiale, in particolar modo nella siderurgia, nell'estrazione e raffinazione degli idrocarburi, nella manifattura metal-meccanica e perfino nell’industria aerospaziale.

Sviluppi talmente tangibili che, nell'ultimo G20 – in realtà un G8 + invitati-, hanno consentito ai rappresentanti brasiliani di uscire allo scoperto ed avanzare "pretese", sfruttando scaltramente l'emergenza-crisi, nella quale l'economia produttiva è stata meno colpita di quelle speculative occidentali alle quali, così come ha dichiarato a conclusione dei lavori il presidente Lula, è stato presentato il conto per la formazione di un «nuovo ordine economico mondiale». Nell’analisi del presidente brasiliano, infatti, l'inesorabilità di tale cambiamento, che potrebbe richiedere anche alcuni anni, è dovuta al fatto che «tutti si sono resi conto che non è possibile far coesistere una politica di sviluppo dell'economia reale, che richiede la creazione di posti di lavoro, con una politica finanziaria che vive di speculazione». Secondo Lula la crisi deve anche «accelerare la nascita di un nuovo ordine politico mondiale. Vogliamo che il mondo del ventunesimo secolo sia rappresentato per le forze politiche esistenti oggi e non per quelle degli Anni 40 del secolo scorso», ha affermato.

Detto per inciso, la visione di Lula vedrebbe al centro del nuovo sistema una Onu riformata su criteri e principi differenti da quelli scaturiti nella Guerra Fredda, sottolineando che “se avesse avuto maggior potere, questa avrebbe già potuto convocare quest'ultima riunione di Londra, permettendo così una partecipazione globale ad un dibattito di dimensioni globali”. Queste dichiarazioni, aldilà degli aspetti contestuali, fanno presagire per il futuro, un sempre maggiore protagonismo internazionale brasiliano.

Questa proiezione strategica comporta una partita internazionale giocata a tutto campo, articolata in più passaggi, il più importante dei quali è stato, appunto, quello della definizione di obiettivi nazionali indipendenti, da parte di una nuova borghesia al potere, monopolista in senso imperialista, ancorata ad una solida base economico-produttiva ed egemone sia politicamente che ideologicamente, la quale sta soppiantando la vecchia borghesia compra dora e che negli ultimi dieci anni ha proceduto ad un vigoroso smarcamento dalla tutela statunitense. Ampliando e diversificando le sue relazioni internazionali, diplomatiche e commerciali, come mai nella storia del subcontinente, spaziando dall'Asia all'Europa, scambiando in monete alternative al dollaro, che per tutto lo scorso secolo considerata la "vera" moneta nazionale. Una strategia che oltre alla difesa contempla anche l'attacco alle posizioni dell'ex-tutore. Infatti il Brasile sempre più voracemente sta attaccando le posizioni degli USA, in quello che da questi è sempre stato considerato il proprio patio trasero, ossia l'America Latina. Approfittando sapientemente dell'impantanamento internazionale statunitense con la guerra in Medioriente e dell'avanzata progressista continentale, la neopotenza brasiliana sta soppiantando quella nordamericana in un numero sempre maggiore di settori economici-commerciali, alcuni de quali strategici come quello primario, in cui dall'estrazione alla trasformazione delle risorse energetiche, le multinazionali come la PetroBras, stanno furoreggiando, tra acquisizioni e subentri in tutto il continente, ai danni di quelle occidentali. Forti di un know-out di settore ormai all'avanguardia, sfruttando l'appeal progressista della classe politica rappresentata da Lula e che ha portato alla firma di importanti accordi commerciali con Venezuela, Ecuador, Bolivia, Argentina e Cile. Riuscendo, finora, a disinnescare le mine vaganti sulla sua rotta, rappresentate dagli importanti processi di nazionalizzazione a cui stanno comunque procedendo soprattutto il Venezuela di Hugo Chavez e la Bolivia di Evo Morales.

Il prezzo pagato da questo tumultuoso balzo è stato, però, elevatissimo dal punto di vista dei costi sociali ed ambientali. Nella cornice capitalista, il rialzo del costo delle materie prime - di cui il Brasile è ricco - e la volontà di arricchimento di una borghesia in vena di emancipazione dalla sua posizione di compradora, hanno nei fatti determinato una sorta di "corsa all'oro", dove non si è badato agli "effetti collaterali". Devastazione ambientale, aumento delle disuguaglianze economiche, acuirsi della violenza sociale e politica, possono essere annoverate tra questi effetti. Tutto ciò sta portando ad un progressivo disincanto da parte di crescenti settori dei movimenti sociali e sindacali da cui lo stesso Lula proviene e che lo avevano inizialmente sostenuto. Così come lo stesso sta avvenendo per quegli ambienti intellettuali progressisti, di fronte ai “deludenti” indirizzi del governo. A onor del vero si può affermare tuttavia, che Lula non ha ingannato i suoi sostenitori, ma sono loro che si sono ingannati, ad esempio non prestando la necessaria attenzione alla sua famosa "Lettera al Popolo brasiliano" del giugno 2002, quando ha affermato che avrebbe onorato i contratti con i creditori, compiuto l'accordo con il FMI e mantenuto l'indirizzo di politica economica regolata dal mercato. Pensavano che fosse soltanto una delle abituali promesse della campagna elettorale, con lo scopo di assicurare la governabilità di una borghesia lanciata alla “conquista del mondo”, Lula ha optato per non introdurre sostanziali mutamenti nella politica economica e sganciarsi dalle promesse fatte alle masse popolari.

Il documento ricordava, tra l’altro, l'alto prezzo che ebbe la stabilità della moneta durante il Piano Real di Cardoso. Il Brasile si era andato indebitando in modo crescente. Con un debito impagabile, i cui interessi lo fanno crescere incessantemente, la soluzione trovata dalla equipe economica di Lula è stata di ridurre la relazione debito/PIL. Ossia, se il debito non cresce ma il PIL cresce, il debito sarà relativamente minore. Da qui la politica di Lula è stata quella di incentivare la crescita economica a qualsiasi prezzo. Il debito pubblico che era superiore al 60% del Pil è oggi a circa il 50%. Da un punto di vista capitalista è stato certamente un successo. Ovviamente scaricando l’altissimo costo sociale e politico sulle masse popolari. In questo quadro il settore dell'agrobusiness è stato anch’esso privilegiato, a prezzo del disboscamento dell'Amazzonia e del rinvio della Riforma Agraria, aumentando la conflittualità con il movimento dei Sem Terra e la sua repressione; nonostante questo, aspettandosi novità in tal senso, agli inizi del suo mandato i suoi dirigenti avevano allentato la morsa della propria pressione sul governo federale. Anche in questo il governo Lula non si è discostato dai suoi predecessori.

L'aumento della disoccupazione, della sottoccupazione e della precarizzazione del lavoro, e di fatto l'aumento del suo tasso di sfruttamento, hanno caratterizzato le politiche socio-economiche interne, tutte incentrate sulla crescita del PIL - ergo, dei profitti - e sul controllo dell'inflazione, mentre l'attenzione per il "debito sociale" è stata rinviata a data da destinarsi. In poche parole, il governo brasiliano riscuote il più possibile di tasse e spende il meno possibile di spesa, fatti salvi il pagamento degli interessi allo strozzinaggio internazionale e le spese per il passaggio al capitalismo monopolistico di stato, in favore delle multinazionali brasiliane. Il governo Lula sembra lanciato su questa strada, al di là della demagogia e dei pesanti costi sociali. Il suo problema potrebbe essere proprio rappresentato dal fatto che non riesce più a convincere le basi popolari che pagare quel prezzo sia “giusto”, disintegrando il blocco storico tra borghesia neo imperialista e classe operaia – incosciente dei propri interessi di classe - che è stato alla base delle sue vittorie elettorali. Molti ancora si affidano a lui perché, al momento, non ci sono alternative credibili, mentre solo i settori imperialisti sono convinti della giustezza di questa politica, perché è la loro politica. Oggi, grazie alla politica economica neoliberista portata avanti, né Lula né il PT sono in condizione di convocare una mobilitazione simile a quella del periodo della Costituente, il che rende improbabile che questo governo riesca a riconciliarsi con la sua base elettorale.

Questa riconciliazione richiederebbe o un profondo cambiamento nella politica economica o, in alternativa, l’adozione di un sistema di dominio egemonico da parte della borghesia più adatto alle sue pulsioni imperialistiche. La seconda opzione è quella sulla quale si vorrebbe incamminare Lula, che però su questo aspetto sconta tutta l’arretratezza del mancato sviluppo brasiliano.

Il Brasile è infatti una neopotenza contraddittoria, "sviluppatasi" solo in parte, quasi esclusivamente in termini di accumulazione capitalistica, ma che ancora è impantanata in un sottosviluppo politico-sociale preponderante, in cui quello che potremmo definire come un dominio di classe fatto di violenza "arcaica" continua ad essere la cifra funzionale all'"ordine" e al successo di una politica economica esportatrice. Una neopotenza che vede insieme elementi di grande modernità e di estrema arcaicità: trattori estremamente sofisticati con sensori per valutare l'acidità o l'alcalinità del suolo, in grado di correggere chimicamente questa situazione e relazioni tra le persone e nelle organizzazioni politiche vetusti. Una società ancorata ai retaggi coloniali, che si caratterizza ancora ampiamente per l'assenza dello Stato centralizzato e per l'esercizio delle funzioni statali da parte di grandi proprietari. L'"ordine" informa l'uso della brutalità contro chi si ribella e contro l'"agitatore" che lo appoggia. C'è una continuità tra la violenza fisica con la quale si eliminano dirigenti sindacali rurali e i loro sostenitori, religiosi o laici e l'assoluta priorità della crescita dei profitti. Si è visto cosa è successo a Anapu, Parauapebas e Goiânia, ma anche a Unaí e Felisburgo, per citare solo i fatti di repressione antipopolare più recenti. La violenza "arcaica" continua ad essere funzionale all'"ordine" e al successo della politica esportatrice. C'è una recrudescenza delle azioni dei pistoleri come parte del "crimine organizzato" e della cosiddetta "sicurezza privata", a dimostrazione dell'arretratezza della borghesia brasiliana, la quale ancora predilige tuttora appaltare il "servizio di stato" a corpi paramilitari, soprattutto locali, che non a uno stato centralizzato - contraddittoriamente e comunque limitatamente - più "controllabile" dalle masse popolari. Si può dire che la democratizzazione dello Stato brasiliano va molto a rilento, in proporzione all'accelerazione globalizzante del suo ruolo internazionale.

In base a questa prima ricognizione sul sub-continente brasiliano, si può certamente escludere che, nonostante la demagogia del progressismo lulese, ci troviamo di fronte ad una realtà in trasformazione bolivariana. Al contrario si potrebbe affermare che stiamo assistendo al processo di consolidamento di una potenza neoimperialista. Complice una persistente debolezza della coscienza e dell’organizzazione proletaria e popolare, le sorti del paese sembrano saldamente in mano ad una borghesia monopolista con forti ambizioni imperialistiche nella spartizione dei mercati internazionali e che scalzata dal potere la vecchia borghesia compradora, cerca di sfruttare al massimo le potenzialità naturali ed umane del paese per raggiungere i propri scopi. Una determinazione che non l’ha fatta esitare nell’inventarsi una governo di “sinistra”, per competere meglio contro gli yankees nello scacchiere continentale e conquistare al proprio progetto nazionale ampi settori popolari, strumentalizzandoli come inconsapevole massa di manovra. In fin dei conti si potrebbe fotografare il Brasile odierno come una realtà che economicamente vuole seguire le orme cinesi, mentre politicamente appare incamminato sul sentiero, famigerato, del riformismo europeo.
Con buona pace dei benpensanti…


CUBA
Su questo titolo, sotto la bella foto di Madrid, sicuramente qualcuno arriccerà o il naso o le sopracciglia, a seconda di disgusto o perplessità. Ho violato un tabù! Ma come, “con qualche ma” ! Scandaloso vero? E invece va bene così, sempre se sei un amico vero di Cuba, e non un suo chierico adorante, e se alla rivoluzione cubana ci tieni come all’anima tua.

Se c’è una cosa che nei lunghi anni della mia frequentazione di Cuba e della diffusione che vado facendo di voci, immagini e verità cubane, mi ha profondamente infastidito è l’adorazione acritica di tutto quanto succede nell’isola, dal belato della pecora alle dichiarazioni di Fidel. Nel parlare della rivoluzione giovane di cinquant’anni, ma con qualche ruga, mi preme in primis prendere le distanze da questa genìa. O quanto bene la conosco! Sono coloro che hanno in corpo il bisogno infantile di prostrarsi davanti a un qualche idolo, vitello d’oro o Jehova che sia. A volte, gratta gratta, sotto i “senza se e senza ma” ci trovi gente che a Cuba si è fiondata al richiamo di stimoli del tutto extrarivoluzionari, extrapolitici, e che poi queste istanze delle loro zone basse rivestono delle pailettes fideliste, guevariane, più che dell’ identificazione con l’arduo, nobile, a volte intralciato (un passo avanti e due indietro, diceva Lenin), cammino della rivoluzione socialista. Si sentono riabilitati nella coscienza dalla generosità con cui Cuba elargisce, comprensibilmente, ospitalità e riconoscimenti. Chi non lo farebbe nei confronti di sostenitori che, comunque, sventolano quella bandiera e onorano quella vicenda, mentre si trova serrato al collo da un’ aggressione imperialista pari per ferocia e durata solo a quella che lo Stato fuorilegge israeliano infligge al popolo palestinese?

Qua sopra, a proposito, vedete un’immagine dei diecimila che a Madrid hanno sfilato per il 50° della rivoluzione cubana. Accanto a quella cubana, svetta la bandiera della Palestina. Non ricordo occasioni, salvo qualche coraggiosa partecipazione di gruppi locali, in cui le recenti manifestazioni contro il terrorismo di sterminio israeliano abbiano registrato la presenza dell’ufficialità nazionale filocubana. E se da Cuba, dai suoi combattenti per la liberazione degli africani dal colonialismo e dall’Apartheid, dai suoi insegnanti, medici e istruttori sportivi che in giro per il mondo estraggono dall’ignoranza e dalla malattia – mens sana in corpore sano ! – interi popoli fin qui esclusi, non si è imparato l’internazionalismo, la solidarietà con Cuba equivale a quei pacifisti che innalzano bandiere arcobaleno, ma inorridiscono davanti alla resistenza di iracheni, afghani, palestinesi, colombiani. E, con riguardo a questi ultimi, è lecito o no anteporre la rivoluzione perfino a Fidel, quando il comandante si disimpegna da una lotta in Colombia che, pure, ripercorre, per dura necessità antifascista ed antimperialista, i passi dello stesso Fidel, del Che, di Camilo, essendogli stata preclusa con i massacri ogni altra via alla giustizia? Io, che dedico buona parte della mio modesto impegno al sostegno di Cuba, posso o no pronunciare un piccolo “ma” quando sento bertinottescamente dire, sullo sfondo dei genocidi inflitti dall’imperialismo ai “popoli di troppo”, che la lotta armata è roba d’altri tempi e che i prigionieri delle FARC “devono essere rilasciati senza condizioni” , a dispetto e tradimento delle centinaia di patrioti e compagni delle FARC che agonizzano nelle segrete della tortura colombiane? O quando un giovanotto, dirigente dell’Organizzazione degli Studenti cubani, risponde con stereotipe formulette sulla “libertà religiosa” alla domanda su cosa mai migliaia di cubani vanno cercando nelle chiese evangeliche, strumento dell’infiltrazione controrivoluzionaria Usa, che la rivoluzione non gli offre? O quando, alla ricerca di una zappa per sradicare erbacce infestanti, un esimio economista cerca di dimostrarmi che era corretto impostare lo sviluppo cubano sui servizi, piuttosto che sull’industria di base, meccanica, degli utensili? Ma se ogni cosa deve essere importata e la tua economia dipende quasi per intero dalla valuta in arrivo con il turismo, che ne potrà mai essere di una sovranità appesa all’incerta disponibilità di fornitori perlopiù nemici? Vogliamo nasconderci l’assurdo percorso di guerra che devono superare coloro che da fuori propongono progetti di solidarietà, o la tara della doppia valuta che rischia di riaprire una divisione in classi favorendo la fauna che prospera attorno al turismo a scapito di chi lavora e produce. Quando, finito se il cielo vuole il criminale embargo, sull’isola arriveranno le locuste nordamericane e mafiocubane, quel giro d’affari, non sempre limpidissimo, non minaccerà di produrre una classe di paperoni e vecchi valori di scambio? E visto che Cuba straripa di argilla, buona per eccellenti tegole, vogliamo o no liberarci delle migliaia di tetti d’amianto che seminano nell’isola e nei polmoni patologie per generazioni? Non è Cuba all’avanguardia, con decenni di vantaggio, su tutti i paesi della regione e sulla quasi totalità dei paesi del mondo, quanto a difesa ambientale e progresso ecologico? E qui mi scappa un altro “ma”. Se è vero, come è vero, che gli animali sono i nostri fratelli in Terra più deboli e migliori, non mi sta bene che per Cuba continuino a sfuggire alla rivoluzione migliaia di cagnetti che si aggirano abbandonati per le vie dell’isola ischeletriti, in preda al cimurro e alla lesmaniosi, in spregio agli appassionati e disperati sforzi di pochi veterinari, o che si allevino coccodrilli in via di estinzione per estrarne borsette per cretine da Quinta Strada. Il mio bassotto Nando ne ha parlato più volte a un comprensivo Fidel, ma poi ci sono le famose “priorità”. Dipendesse da Fidel… Molte di queste cose e molte altre sono state espresse direttamente, con formidabile intelligenza rivoluzionaria, dagli studenti dell’Università dell’Avana i quali hanno ben compreso che nella lunga marcia della rivoluzione ogni tanto occorre uno scossone, uno scatto che scuota passi a rischio di autocompiacimento, di inerzia, di letale burocratizzazione brezhneviana. L’unica cosa che procede per inerzia è il moto perpetuo. Che però non è stato ancora inventato.

Ombre che non offuscano le luci che ininterrottamente da 50 anni dall’isola si spandono sul mondo con la forza di una volontà e di una verità che è riuscita a intralciare, grazie appunto anche ai veri amici di Cuba, quelli rivoluzionari, lo tsunami politico e mediatico della diffamazione, delle menzogne, delle campagne terroristiche, delle guerre economiche e biologiche. Luci che in America Latina sono diventate fiamme e hanno incendiato un continente. Scrive giustamente Maurizio Matteuzzi sul “manifesto”: “Se il 1. gennaio 1959 la rivoluzione cubana non avesse vinto non ci sarebbe stato il rinascimento democratico e progressista dell’America Latina… Se non ci fosse stato “l’antidemocratico” Fidel Castro, oggi non ci sarebbero i Chavez, i Morales, i Correa , i radicali, ma neanche i Lula, i Kirchner, i Lugo, i moderati, e forse neppure i Vasquez e Bachelet, i pallidissimi”. Aggiungo che senza l’incredibile, indomabile forza di resistenza delle masse cubane, l’intelligenza dei quadri dirigenti educati da un’istruzione rivoluzionaria per tutti, l’indefettibile difesa e diffusione dei diritti umani collettivi, quelli fondamentali, della conoscenza, della sanità, del lavoro, della sicurezza e cura di bambini, donne e anziani (con tutti i limiti dovuti allo strangolamento, all’isolamento geopolitico e anche all’indolenza caraibica), a quale filo di speranza avrebbero potuto allacciarsi nelle Americhe i milioni di oppressi, schiacciati, obliterati da cinque secoli?

Eccoci qua, noialtri, rinserrati in Stati e manipolati da forze politiche che praticano la virtù massima della macelleria sociale all’interno e del colonialismo subimperialista verso terre e genti già predate nei secoli e ora da riconquistare e spopolare col terrorismo. Eccoci qua, corruttori di menti e sfruttatori di corpi, rapinatori e devastatori dell’ambiente, ammaestrati da cosche criminali a cavare qualche detrito di vita e di benessere dal genocidio degli altri e dal taglio delle gambe ai nostri pari. Eccoci qua che sulla tessera dei “Giovani Comunisti”, sedicenti tali forse da sempre, fieri e ottusi mettiamo la foto di chi smantella il muro di Berlino regalando ai vampiri del capitalismo quel milione di morti ammazzati dal “libero mercato” nei paesi dell’Est. Mica ci hanno messo il muro lungo il Rio Bravo contro cui si infrangono le vite di chi dai costruttori di quel muro ha avuto solo la scelta di morire nella terra da loro saccheggiata, o fucilato da ronde di tipo padano lungo il confine. Né ci hanno dipinto quell’altro muro dell’apartheid che punta a disintegrare definitivamente, chiudendolo in riserve indiane, il popolo che di quella terra è il legittimo titolare. E neppure qualcuno ha messo sulla sua tessera di rivoluzionario la muraglia invisibile dei necrocrati che, vista l’impossibilità di ricostruire il vecchio lupanare, vorrebbero allargare la loro Guantanamo a tutta Cuba. Cuba, e poi i suoi succedanei in Venezuela e Bolivia, hanno rotto i rapporti con lo Stato Canaglia israeliano e hanno invitato il mondo civile a condannare “i criminali massacri e a mobilitarsi per esigere l’immediata cessazione degli attacchi contro la popolazione civile palestinese, rinnovando solidarietà e sostegno indefettibili al sofferente ed eroico popolo palestinese” . Qui ci si balocca con codarde e indecenti equidistanze tra chi, prima di farsi eliminare, tira due razzi di latta e il “popolo della Shoah che si difende”. Ci dividiamo tra le due bande del partito unico che, in ottemperanza agli interessi della criminalità organizzata, indigena e imperialista, manifestano il massimo della convergenza delinquenziale nella complicità con olocausti più estesi nel tempo e più definitivi nella soluzione di quello che si pretende essere l’unico. E ci permettiamo di assistere dalla finestra alla gogna di un conduttore televisivo che, unico nella bolgia dei rinnegati, bugiardi e cospiratori, ha mostrato di che lacrime grondi e di che sangue la “democrazia” israeliana.

Su Cuba, grazie alla demenziale manomissione inflitta al clima di tutti dalla cieca voracità di pochi, si abbattono cicloni cui non si può impedire di stritolare case, campi, fattorie e fabbriche, ma ai quali la rivoluzione sottrae i sacrifici umani che decimano le popolazioni di tutti i paesi coinvolti, compresi gli Usa. Da noi frane, alluvioni, bufere, mareggiate ci lasciano inermi e nudi ai piedi dei fortilizi dei potenti. Basterebbe l’antimperialismo dei saggi cubani, filo rosso che attraversa ogni momento di questi 50 anni e che è il più convincente esempio della possibilità e della necessità della fratellanza umana, per impegnare ogni essere raziocinante e giusto alla difesa di Cuba e, come diceva il Che, alla lotta hasta la muerte su tutti i campi di battaglia del mondo. Qui di Guantanamo ne sopportiamo serenamente tante che metastizzano le regioni di mezzo paese. Non solo. Ce ne facciamo utilizzare per riprodurre in giro per il mondo le rapine e le carneficine che Mussolini faceva da solo o al seguito di Hitler.

Siamo dovuti andare a Cuba, e poi a Caracas e a La Paz, per farci trarre dalla nebbia tossica dello scontro di civiltà a base di guerra al terrorismo, per farci illustrare in modo inoppugnabile quale sia il terrorismo nel mondo e chi ne sono i promotori e piloti. E grazie a Cuba – e a pochi isolati “complottisti” in Occidente, esecrati addirittura dalla sinistra – che si è lacerato il mostruoso inganno del “terrorismo” diventato, con la speculare frode della “democrazia” e della “sicurezza”, “l’ascia di guerra per lo scontro di civiltà, la bandiera delle spedizioni di conquista” e della ricostituzione di una dittatura borghese che, nella morsa della sua crisi, si propone di diventare la più spietata di tutti i tempi. Nei giorni scorsi è apparso sui giornali di sinistra un megadocumento intitolato, con involontaria ironia, “Ritorno al futuro” e firmato da una caterva di illustri detriti dell’”Arcobaleno”, con in testa la masnada poltronara e di pura fuffa del vendolismo. Se i padroni vicini e lontani sognavano una rassicurazione strategica, questo lieve programmino socialdemocratico, che parte, sì, dal basso, ma dalla bassa politica, glie l’ha garantita. Stato sociale, certo, l’egida dell’ONU per la salvaguardia dell’ambiente e del rapporto produzione-riproduzione della forza lavoro, come no, regole contro gli abusi finanziari, perbacco, interventi pubblici nell’economia, già li fanno Tremonti e Brunetta, l’utilizzo a pieno (da parte di chi?) delle capacità e competenze formate dalla scuola e dall’università, come dice Gelmini, mobilità collettiva e individuale, come detta Fiat, e bla bla bla. Peccato che questi neoprodiani si siano dimenticati dell’imballaggio in cui tutti i bei propositi vanno a essere chiusi: l’imperialismo. Termine non trendy, lo so, ma credono davvero questi profeti delle compatibilità e della nonviolenza che si diano rapporti capitale-lavoro non vampireschi, salvaguardie dell’ambiente, emancipazione dei deboli e delle donne, immigrazione accettata e onorata, quando si è parte integrante di un meccanismo planetario di dominio, sfruttamento e distruzione, di deumanizzazione come è quello del capitalismo al suo apice imperialista? Molti di costoro hanno votato per l’assalto a popoli poveri e inermi, nessuno di loro parla più di Nato e delle basi nella colonia Italia, non ci si cura del fatto che a tirare le fila dei veltrusconi (fra un po’ chiederò le royalties per il termine) ci sono i burattinai a stelle e striscie, tutti schizzano la lotta dell’effettivamente equivoco (ma che c’entra?) Di Pietro contro il rullo compressore piduista-fascista che frantuma libertà e diritti.

Le luci da Cuba denudano i re e i loro corifei. La storia vissuta a Cuba è la prima a darci lezioni per il presente. Grazie a essa possiamo capire il prezzo, le difficoltà, gli arretramenti e le conquiste di libertà come ideale concreto, la forza e la fragilità delle utopie, la precarietà delle fede quando è indiscussa e sterilmente superba, il carattere insaziabile della libertà. Da essa ci viene la lezione del’irriducibile resistenza al colonialismo, politico, economico, culturale. A Cuba abbiamo dovuto lottare contro due colonizzazioni, quella del capitalismo e quella del socialismo detto reale. Queste colonizzazioni richiedono l’esercizio del pensiero critico collettivo. Per favorire questo pensiero, senza il quale non è possibile rompere con la cultura del capitale, occorre riformulare il tipo di potere che costruiamo in tutte le nostre relazioni sociali: il potere tra figli e genitori, il potere tra maestro e alunno, il potere tra Stato e popolo… Siccome vogliamo il socialismo, dobbiamo riscoprirlo nell’organizzazione della produzione, nel lavoro libero e associato, sociale, cooperativo e autogestito, nella forma in cui il discorso sociale deve essere inserito nel discorso politico, nella consapevolezza che all’inizio di tutto sta la sconfitta dell’imperialismo, condizione perché l’eliminazione dello sfruttamento sia l’eliminazione della povertà, ma anche dell’alienazione, come voleva il Che Guevara”.

Così parlarono a Fidel Castro Ariel Dacon, Julio Antonio Fernandez, Julio César Guanche, Diosnara Ortega, studenti dell’Università dell’Avana. Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della rivoluzione che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero governo cubano, se ne possono fidare. Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della rivoluzione, che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero governo cubano, se ne possono fidare.

VENEZUELA
Il Venezuela ha conosciuto negli ultimi 20 anni una accelerazione di avvenimenti che ha cambiato la sua storia per sempre.
Il 27 febbraio 1989 scoppia una insurrezione popolare a Caracas e Guarenas, contro le riforme economiche ultra liberiste volute dal Fondo Monetario Internazionale, imposte dall’allora Presidente Carlos Andres Perez, leader del partito socialdemocratico Acción Democratica.
Il governo risponde con una repressione selvaggia. Più di 5.000 persone, principalmente proletari e sottoproletari, muoiono assassinati dall’esercito e dalla Polizia.
La commozione suscitata da tale massacro è tale da generare in una buona parte della popolazione, anche in militari e funzionari pubblici, una reazione di rigetto verso un sistema politico classista e dittatoriale, strettamente controllato dall’oligarchia “creola”, che vede alternarsi al potere i democristiani di Copei e i socialdemocratici di AD.
Nel 1992 ci sono due tentativi insurrezionali (il 4 di febbraio e il 27 novembre) portati avanti da militari progressisti e da gruppi di civili, organizzati nel “Movimiento Bolivariano Revolucionario 200”, guidato da Chávez. Benché entrambi i tentativi falliscano, e molti dei militari patrioti e bolivariani vengano arrestati, questi atti fanno rinascere la speranza nelle classi oppresse venezuelane.
La situazione economica della popolazione si aggrava di giorno in giorno, per poi precipitare nel 1995 quando scoppia forse il più grosso scandalo finanziario del Venezuela, per il quale i principali banchieri del paese si intascano i soldi dei piccoli risparmiatori, mentre continua la repressione contro i movimenti studenteschi, giovanili e dei lavoratori.
Centinaia di compagni muoiono uccisi dagli sbirri in manifestazioni o torturati nelle carceri. Così quando Chávez esce di prigione e inizia a fare campagna politica molti vedono in lui un leader in grado di rappresentare i loro ideali e le loro aspirazioni.
Su pressione del MBR200 e dei movimenti di sinistra, nel 1998 viene convocata una Assemblea Costituente e successivamente un referendum popolare per approvare una nuova costituzione democratica e progressista: la Costituzione Bolivariana.
È l’inizio del Processo Bolivariano, e nel 1999 Hugo Chávez viene eletto alla Presidenza della Repubblica.
Grazie alla Costituzione Bolivariana e alle riforme varate negli anni successivi dal governo bolivariano, viene sempre più limitato il potere dell’oligarchia e vengono ampliati i diritti delle classi subalterne.
Vengono riconosciuti i diritti delle popolazioni originarie e afrodiscendenti; delle donne; viene proibito il latifondo e si incentiva la costituzione di Comitati di Terra grazie ai quali si inizia un processo di redistribuzione delle terre incolte ai piccoli contadini (oltre 2 milioni di ettari); la popolazione ha finalmente accesso al sistema sanitario, che diventa gratuito; vengono ampliati i diritti dei lavoratori.
L'oligarchia, privata dei suoi privilegi, organizza il tentativo di colpo di Stato militare finanziato dagli USA , nell’aprile 2002, col quale viene deposto Chávez e portato al potere per due soli giorni il presidente della Confindustria venezuelana Pedro Carmona Estanga. Il golpe fallisce per la determinazione del popolo venezuelano che non si piega davanti alla cruenta repressione delle forze oligarchiche e filoimperialiste, e scende in strada a difendere il suo Processo e il suo Presidente momentaneamente sequestrato nell’isola della Orchila.
Si rafforza in questa occasione il legame fra le organizzazioni rivoluzionarie “civili” e alcuni reparti progressisti dell’esercito, che rifiutano la svolta fascista, nell' “unione civico-militare”.
Ad agosto dello stesso anno, dopo l’assoluzione dei militari golpisti da parte del Tribunale Supremo, vi sono settimane di scontri sanguinosi che lasciano sulle strade decine di morti e centinaia di feriti fra i compagni, per mano della polizia metropolitana comandata dall’Alcalde Mayor di Caracas, Alfredo Peña, appartenente all’opposizione.
Il 2 dicembre 2002 inizia poi la serrata padronale golpista che, fallita la destituzione del Presidente, prova a mettere in ginocchio il governo e l’economia del paese. Progressivamente scompaiono gli alimenti dai supermercati; non c’è più benzina; non c’è più gas. Dura fino a febbraio 2003 ma anche questa volta il glorioso popolo venezuelano dirotta l’oligarchia fascista: i lavoratori occupano le fabbriche chiuse, una parte degli operai della compagnia di petroli nazionali PDVSA riprende le installazioni e rilancia la produzione.
Da questo momento l’opposizione inizia a declinare irrimediabilmente in termini di sostegno, ma non per questo rinuncia ai suoi piani eversivi: nella primavera del 2003 dà vita alle cosiddette “guarimbas”, con barricate e atti di destabilizzazione violenta, e nell’agosto 2004, in occasione del Referendum Revocatorio (instaurato dalla Costituzione del 1998, che prevede che ogni carica pubblica possa essere sottoposto a verifica elettorale a metà del proprio mandato), con diversi morti fra i compagni.
Malgrado gli attacchi della destra “vendepatria”, il governo bolivariano si consolida e può continuare il suo operato, sia a livello nazionale che internazionale.
Sul piano interno vengono create le “Missioni” sociali: il “Plan Barrio Adentro”, che è un progetto di estensione della sanità a tutti quegli strati della popolazione finora esclusi da ogni sostegno medico statale, con la creazione di centri di diagnostico e cura, in tutte le favelas, nelle campagne e anche nei villaggi indigeni, grazie al determinante apporto di 15.000 fra medici e preparatori fisici cubani, approdati nella patria di Simon Bolivar, nel quadro del “Convegno Cuba-Venezuela”; la “Misión Robinson”, un programma di alfabetizzazione che mira a ridurre l’analfabetismo nel paese, grazie al quale milioni di persone imparano a leggere e scrivere e porterà il Venezuela al raggiungimento dell'obiettivo di essere il secondo paese latinoamericano (dopo Cuba) libero dall'analfabetismo; la “Misión Sucre”, che permette a chi non ha finito gli studi di completare il proprio percorso formativo; la “Misión Ribas”, che mira a dare una formazione professionale a chi vi accede, ecc.
Nel mondo del lavoro viene creata una nuova centrale sindacale, la UNT, in antitesi al sindacato giallo CNT; viene sostenuto lo sviluppo delle cooperative; vengono nazionalizzate le principali industrie del paese nei settori strategici (il petrolio, la siderurgia e ultimamente il cemento) e riconosciute nuove forme di imprese, oltre a quelle statali e private: quelle miste (Stato/privati), quelle cogestite (Stato/lavoratori) e quelle sotto controllo operaio.
Vengono riconosciuti e sostenuti i consigli dei lavoratori.
Il governo stimola un ricambio all’interno delle forze dell’ordine e dell’esercito e forma i nuovi funzionari e cadetti nei valori del rispetto dell’uomo e della sua dignità.
A livello di istruzione vengono create le scuole bolivariane e l’Università Bolivariana (UBV) per permettere a tutti un accesso gratuito all’istruzione di base e superiore.
Anche il mondo dell’informazione e della comunicazione conosce profondi cambiamenti. Viene infatti creata una rete nazionale di media alternativi e comunitari per fare contrappeso agli strapotenti media privati, e per dare strumenti di espressione, organizzazione e partecipazione al popolo venezuelano. Nascono così la Agenzia Bolivariana di Informazione (ABN), l’Associazione Nazionale dei Media Comunitari e Alternativi (ANMCLA), Vive TV e Avila TV, e infine Telesur che è il primo esempio di network internazionale sudamericano di televisione.
Tutte queste iniziative favoriscono la crescita del PIL, che si attesta intorno al 7% all’anno.
A livello internazionale la politica di Chávez e del suo governo acquista ancor più prestigio e rompe le dinamiche precedenti alla sua presidenza: il Venezuela riesce a rompere il blocco materiale e ideologico che strozza Cuba, ed inizia una collaborazione preziosissima. Caracas fornisce petrolio e tecnologia a Cuba, che garantisce la presenza del suo personale medico specializzato in Venezuela.
E insieme a Cuba elabora poi un progetto di liberazione dell’America Latina dalla morsa del FMI, degli USA e degli altri paesi imperialisti.
Vengono costruiti meccanismi di collaborazione e solidarietà con vari paesi del subcontinente americano, principalmente la Bolivia, l’Ecuador, l’Argentina e il Brasile.
Questi meccanismi vengono poi perfezionati e formalizzati attraverso la proposta di integrazione economica dell’ALBA (Alternativa Bolivariana delle Americhe), che si oppone al progetto Statunitense dell’ALCA - che vorrebbe imporre il predominio economico e politico degli USA attraverso accordi di libero commercio di chiaro stampo neoliberista.
Il governo venezuelano partecipa poi al processo di fortificazione dell’OPEP nei confronti dei paesi del blocco Atlantico, e alla creazione dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Gas, insieme a Russia e Iran, sempre nella direzione di ridefinire le relazioni Nord-Sud.
Tutto questo è sempre più intollerabile per l’Oligarchia e i suoi alleati stranieri, che proseguono nell’azione eversiva.
Dovendo però fare i conti con la propria debolezza a livello elettorale e di partecipazione, l’opposizione dà vita una vera e propria guerra di bassa intensità, attraverso:
-campagne terroristiche dei media privati.
-introduzione dei paramilitari colombiani dentro alle frontiere del paese.
-omicidi selettivi di sindacalisti e dirigenti contadini per mano di sicari e paramilitari
-sabotaggio della produzione e della distribuzione dei beni alimentari di base, come il latte, lo zucchero, la carne e i fagioli.
-costante ingerenza del Vaticano nella politica del paese, attraverso la Conferenza Episcopale del Venezuela e il Cardinale Urosa Savino, membro dell’Opus Dei.
-finanziamento dei movimenti di opposizione attraverso numerose ONG, che ben lungi da svolgere una funzione sociale, compiono una chiara attività di ingerenza politica
-e, infine, a partire dalle elezioni presidenziali del 2006 e in modo ancora maggiore dopo il Referendum di Revisione Costituzionale del 2007 l’opposizione utilizza il “movimento studentesco” , il quale conta poche migliaia di aderenti, per portare avanti la destabilizzazione.
Ma chi sono questi studenti? Non certo gli studenti proletari e piccolo borghesi della UBV, bensì i figli delle famiglie ricche che frequentano le Università private e d'èlite del paese. Per età - intorno ai venti anni - e posizione sociale, ben poco sanno di come era la situazione prima del Processo Bolivariano, quando i poliziotti e l’esercito sparavano per un’occupazione o una semplice protesta, o del generalizzato livello di povertà.
I leaders del “movimento studentesco”, non sono né ingenui, né tantomeno sinceri. Molti di loro, primi fra tutti Yon Goycoechea, hanno ricevuto una formazione strategico-militare dagli Stati Uniti. Sono stati formati da Gene Sharp, dell’Albert Einstein Institute, che ha sviluppato la teoria della disubbidienza civile applicata da tutte quelle forze reazionarie e filo-occidentali che hanno realizzato le “rivoluzioni arancione” nei paesi dell’ex Patto di Varsavia: Yugoslavia, Ukraina, Georgia, Azerbaijan.
Il “Yon nazionale”, come viene chiamato ironicamente in Venezuela, ha così partecipato a vari incontri internazionali, nell’ex Yugoslavia, ospiti di OTPOR (da cui gli “studenti oppositori” hanno assunto anche il simbolo della mano nera), in Ecuador e Bolivia. In questi ultimi due paesi hanno stretto alleanze con gli studenti fascisti, sostenendo i movimenti indipendentisti presenti nella Mezzaluna boliviana, o nella regione di Guayaquil in Ecuador. Questo perché le forze imperialiste vogliono riproporre in America Latina la stessa strategia di smembramento utilizzata in Yugoslavia (la cosiddetta balcanizzazione della regione), concepita dall’International Crisis Group (del quale fa parte oltre a George Soros, Zbigniew Brzezinski e Morton Abramowitz, anche un ex governatore di Caracas, latifondista, Diego Arria), e gli studenti venezuelani ne rappresentano la punta di lancia.
Per i buoni servigi resi al blocco imperialista, il 23 aprile 2008 Goycoechea è stato premiato da un potente think-thank ultraliberista nordamericano finanziato principalmente da Rockfeller, il “Cato Institute”, con il premio Milton Friedman, e ha incassato un assegno di 500.000 dollari.
Il 15 febbraio si è svolto il Referendum di revisione costituzionale, relativo alla modifica degli articoli 160, 162, 174, 192, 230 della Costituzione sulla possibilità che un candidato potesse ricandidarsi, senza nessun limite di volte, alle principali cariche pubbliche: Presidente della Repubblica, Governatore, parlamentare nazionale, sindaco e parlamentare statale.
Il popolo venezuelano e bolivariano ha approvato la proposta di modifica con il 54,6%.
Puntualmente è arrivata la criminalizzazione del risultato, portata avanti dai principali media privati venezuelani, che sono in mano all’opposizione reazionaria, e da quelli stranieri. Alcuni dei titoli apparsi: “Chávez, verso la presidenza a vita”, o ancora “Chávez dittatore a vita”.
L’opposizione organizzata nel “blocco del No”, che sognava un avvenire senza Chávez e senza rivoluzionari, sperava che non fosse approvata la proposta di modifica, come avvenne precedentemente con il Referendum di Revisione Costituzionale del 2007, quando il SI perse di poco.
Ad ogni odo, in quell’occasione la Riforma non riguardava solo la questione dell’elezione indefinita, ma toccava anche questioni di spiccato rilievo come: giornata di 6 ore lavorative, aumento diritti lavoratori, aumento dei diritti studenteschi, riconoscimento della proprietà collettiva e di quella sociale accanto alla proprietà privata, messa sotto controllo governativo della Banca Centrale, ecc...
Questioni forse troppo importanti, un sicuro passo in avanti verso il socialismo. E per questo la parte “di destra”, “borghese” (la nuova classe media e i burocrati) o “light” del Chavismo, non ha fatto campagna o si è dichiarata addirittura contraria, facendo emergere pienamente le contraddizioni all’interno dell’area bolivariana, fra chi vuole il socialismo e chi invece è favorevole a una socialdemocrazia progressista, ma fortemente imperniata sulla concezione borghese di Stato per quanto attiene alle relazioni sociali, ed ai rapporti di produzione (il partito Podemos ad esempio ha tradito il fronte chavista ed è passato all’opposizione).
Il 15 febbraio, però, il “blocco del Sì” è stato compatto perché tutti sapevano che la permanenza di Hugo Chávez in carica é troppo importante per la stabilità del processo bolivariano e per quella del paese in generale. Questo non perché Chávez sia il “capo”, o il “caudillo”, ma perché lo scontro con le forze reazionarie è gigantesco, e le conquiste conseguite fino ad ora devono essere preservate ad ogni costo. Per sconfiggere le forze reazionarie e realizzare le riforme e i cambi necessari al paese ci vuole tempo, molto tempo . Ne va della vita e del benessere di milioni di persone.

SALVADOR
Il 16 gennaio 1992 l’eroico Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (FMLN) si sedeva al tavolo dei negoziati in Messico per firmare l’accordo di pace tra la guerriglia ed il governo oligarca.
Dopo l’offensiva generale del 1989, in cui una delle guerriglie più coraggiose del mondo - su un territorio di 20 mila chilometri quadrati e senza importanti massicci montuosi - mise in ginocchio un esercito addestrato direttamente dall’imperialismo Nordamericano, si chiudeva il ciclo di 12 anni di scontro politico-militare contro la dittatura militare fascista.
Più di 30 mila guerriglieri combatterono strenuamente fino all'ultimo in tutto il Salvador contro più di 100 mila militari, mentre la capitale, San Salvador, era nelle mani del fronte rivoluzionario dopo due settimane di duri combattimenti.
In quei giorni si misurò il coraggio e la forza delle convinzioni ideologiche, durante la lotta per instaurare un processo di costruzione del socialismo.
Nessuno dei due eserciti fu sconfitto militarmente: l’esercito degli oligarchi fu umiliato per non essere riuscito a sconfiggere in tre mesi i ribelli, come aveva promesso al governo degli Stati Uniti, ma neanche il FMLN fu in grado di distruggere le vecchie strutture sociali, economiche, politiche e culturali della sovrastruttura del capitalismo sviluppatosi in Salvador.
Dopo 12 anni di conflitto sociale, con la confrontazione diretta delle classi, il cammino dei negoziati fu in quel momento della storia, il più saggio: le condizioni internazionali erano sfavorevoli, (il crollo dell’URSS, la crisi Sandinista, ecc.) e le correlazioni di forze interne indicavano che era il momento di uscire dal conflitto con un trattato: si aprirono così le porte delle nuove forme di lotta per il popolo salvadoregno.
Il negoziato fu il frutto della lotta che portò ad una riduzione considerevole dello strapotere dell’Esercito governativo, alla scomparsa dei vecchi corpi di polizia assassini e alla nascita della nuova polizia nazionale civile di cui diventarono membri ex-combattenti guerriglieri, vecchi poliziotti più o meno rieducati e cittadini civili. Nacque anche l’organo governativo dei diritti umani, e per i combattenti si aprirono nuove opportunità per riprendere la vita produttiva e ricongiungersi nuovamente con le proprie famiglie..
Non venne tuttavia toccato il tema delle riforme economiche, e le forze reazionarie ne approfittarono per introdurre il modello neoliberale, privatizzando i beni ed i servizi pubblici, le banche, il settore delle telecomunicazioni, ecc.
A 17 anni della fine del conflitto ci troviamo in un momento storico caratterizzato dalla crisi pubblica del capitalismo, dell’imperialismo e dell’economia globalizzata, una crisi che nasce dal cuore del sistema.
Non possiamo parlare della fine delle ideologie, ma della fine della teoria del capitalismo: non ha più niente da offrire al mondo. Oggi i governi che sostenevano l'ideologia liberista contraddicono i principi di libero mercato e di non intervento dello stato nell’economia; ma i loro sforzi sono vani, perché la malattia da cui è afflitto il sistema capitalista è arrivata alla sua fase terminale.
Le elezioni in Salvador del 18 gennaio scorso per eleggere i deputati e consigli comunali e le prossime elezioni del 15 marzo vanno analizzare nel contesto della crisi del capitalismo e il suo modello di sviluppo neoliberista; la vita stessa è in gioco in questo dibattito e la vittoria più importante in questo momento è quella di carattere ideologico.
Mentre il capitalismo cade, e l’imperialismo col suo governo mondiale e la sua economia globale non sanno come uscire dalla crisi che loro stessi hanno creato, le sinistre Latinoamericane guidano le speranze, le resistenze popolari e la radicalizzazione politica contro le destre locali, contro le misure insulse ed i trattati inefficienti.
Il processo politico in cui si stanno sviluppando le elezioni per la presidenza della repubblica, la massima carica dello stato, sta determinando la possibilità reale, dopo 20 anni, di scacciare la destra estrema dal governo. Non è un compito facile, perché il numero di deputati del FMLN eletti in seguito alle prime consultazioni del 18 gennaio scorso, trentacinque, non garantisce la possibilità di bloccare oppure approvare leggi che riformino in modo sostanziale l’economia del paese.
L’assemblea legislativa, composta da 85 deputati, continuerà ad avere una maggioranza di destra, debole politicamente ma numericamente forte; un governo delle sinistre in queste condizioni richiede un’ampia alleanza con i lottatori sociali non allineati al partito FMLN.
Il partito politico del FMLN può vincere, stando ai sondaggi, le elezioni presidenziali, ma il potere formale sarà debole se non sarà accompagnato dall'appoggio reale del popolo organizzato attraverso un ampio Movimento Sociale.
Gli analisti di sinistra in Salvador paragonano la crisi interna ad una situazione potenzialmente rivoluzionaria, dove la classe dominante non può stabilire il controllo sociale ed economico e la popolazione non vuole essere più governata da questa classe borghese.
Anche se il Frente saprà disegnare l' alleanza con il Movimento Sociale per ottenere dei voti, ma il cittadino non avrà la possibilità di cambiare con il voto il sistema politico ed economico, in ogni caso possiamo affermare che questa sarà una dittatura elettorale, un livello più basso della dittatura democratica borghese.
Sul terreno elettorale, utilizzato come uno strumento politico, le sinistre in Latinoamerica stanno abbattendo le destre ovunque; oggi i pochi ricchi non dormono per la paura, mentre i poveri, la grande maggioranza della popolazione, non dormono per la fame.
Il cittadino ha il potere del voto, ma consegna quel potere ai nuovi governanti, e la classe governante non può condurre da sola un progetto di cambiamenti strategici: la classe governante come potere formale si confronterà con il potere reale, e in questo scenario, gli stessi cittadini saranno nuovamente chiamati a difendere un governo che propone un cambiamento di modello, affronta l’imperialismo e radicalizza la lotta politica ed ideologica.
Ricordiamo che il 18 gennaio scorso il partito FMLN ha perso la capitale, proprio per non aver lavorato sugli strati più deboli della popolazione e per non aver fatto delle alleanze con le altre sinistre esterne al partito: comprendere e superare questo difetto sarebbe l’azione più saggia che possa fare oggi la dirigenza del FMLN.
Dopo il 18 gennaio scorso, le relazioni fra le forze elettorali si sono equilibrate, al punto che il 15 marzo può vincere il blocco delle destre o l' alleanza delle sinistre; in entrambi casi, il vincitore dovrà gestire una crisi profonda, dove i poveri saranno più emarginati se non si offre loro un’uscita urgente; già la classe media è stata colpita mortalmente, e questo significa che i governi di destra non hanno saputo favorire neanche il settore della piccola imprenditoria e dei singoli professionisti.
Un altro aspetto interessante da sottolineare è che gli Stati Uniti non sono più visti come la via della salvezza economica.
La situazione geopolitica in America sta cambiando: il blocco dei paesi composto da Venezuela, Brasile, Equador, Bolivia, Paraguay, Nicaragua, insieme a Cuba, sta indicando la strada da seguire, sulla via dell’emancipazione politica ed economica non soltanto dall’imperialismo statunitense: un' utopia che muove al di là del pacifico, una liberazione spirituale che arriva in Europa.
Per questo è importante la vittoria politica delle sinistre in Salvador, perché questa vittoria aprirebbe le possibilità di espandere in Centro America le resistenze politiche, aprendo le porte verso nuove forme d’investimento e cooperazione internazionale del blocco anti-imperialista.
Se il partito FMLN capisce l’importanza di entrare in sintonia con il popolo, di vedere quello che la gente vede, cioè, il sogno Salvadoregno, non più il sogno “gringo”, può costruire le condizioni per portare il paese sulla via della rinascita sociale e della sovranità.
Il Movimento Popolare è il soggetto in grado di far valere un governo di sinistre, il popolo organizzato in comitati, chiese progressiste, studenti, operai, “campesinos”, venditori di strada, insegnanti, ecc., questo Movimento Sociale, indipendentemente della vittoria elettorale, in breve avrà il carattere di soggetto politico col suo potere politico costruito proprio dal basso e difeso nei posti di lavoro.
La vittoria delle sinistre il 15 marzo prossimo rappresenterebbe una vittoria in più di tutte le sinistre del mondo; se non si riesce ad arrivare al potere in questo ciclo di lotte politiche, si avrà un aggravarsi della crisi in Salvador nell'ambito della repressione sociale e politica, della crisi economica, dell’immigrazione, dell’insicurezza, della sanità, dell'educazione, della nutrizione dei bambini, e dell'angosciosa lotta per la sopravvivenza nella miseria.
Questo scenario obbligherebbe le sinistre a resistere politicamente e lottare e ad esercitare una pressione sociale nelle strade.
La collettività e fatta di singole persone, esseri umani che pensano, sentono, amano, odiano, sognano, mangiano e decidono: possono decidere di lottare per vivere o accettare di vivere in schiavitù ideologica, schiavitù che porta alla perdita del carattere umano e converte gli uomini e le donne in macchine, in cifre, in voti, in oggetti.
Oggi il capitalismo come concezione del mondo ha fallito, un nuovo orizzonte comincia, la stella della rivoluzione torna ad essere la fiamma della liberazione dei popoli oppressi per secoli, obbligati a vivere come ombre in un mondo di colori.