martedì 23 giugno 2009

Bollettino del Coordinamento Nazionale Bolivariano - 2009 gennaio

http://www.coordinamentobolivariano.org/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=33&Itemid=27


BRASILE
Possiamo intendere quest’articolo solo come un primo passo di approccio al Brasile. Troppo ampia, complessa e, soprattutto, fluida è la realtà brasiliana perché non appaia improbabile l’impresa di condensarla in poche righe e di tracciare delle deduzioni definitive. Un gigante impantanato nel sottosviluppo, che aspira a diventare una superpotenza di caratura mondiale. Un paese impegnato, in un modo o nell'altro, a cercare di ricalcare il "grande balzo in avanti" cinese che, sempre più, sta soppiantando, non solo economicamente, il vecchio protettore statunitense come un "esempio" da seguire. Mantenendo, però, i caratteri della contraddittorietà indiana. I numeri ci sono tutti, dimensione geografica e demografica, ricchezze naturali, così anche le forze produttive, che si sono sviluppate enormemente negli ultimi venti anni. Una rinascita per certi versi inaspettata, considerando che fino a metà degli anni '80, questo era uno dei paesi al mondo col più alto debito estero, dovuto all'asservimento filocoloniale della borghesia compradora, che per decenni e come tanti altri, ha foraggiato l'espansione dell'economia statunitense.

I passaggi fondamentali che hanno permesso la riapertura di una prospettiva di sviluppo, in chiave capitalistica, sono stati la fuoriuscita dal fascismo e, parallelamente, l'esplosione dei prezzi delle materie prime che, grazie ad una politica economica meno succube all’imperialismo occidentale, ha permesso di accelerare il processo di accumulazione interna di capitale. Soprattutto i grandi processi di concentrazione e centralizzazione della produzione, hanno proiettato molte aziende brasiliane tra le più importanti a livello mondiale, in particolar modo nella siderurgia, nell'estrazione e raffinazione degli idrocarburi, nella manifattura metal-meccanica e perfino nell’industria aerospaziale.

Sviluppi talmente tangibili che, nell'ultimo G20 – in realtà un G8 + invitati-, hanno consentito ai rappresentanti brasiliani di uscire allo scoperto ed avanzare "pretese", sfruttando scaltramente l'emergenza-crisi, nella quale l'economia produttiva è stata meno colpita di quelle speculative occidentali alle quali, così come ha dichiarato a conclusione dei lavori il presidente Lula, è stato presentato il conto per la formazione di un «nuovo ordine economico mondiale». Nell’analisi del presidente brasiliano, infatti, l'inesorabilità di tale cambiamento, che potrebbe richiedere anche alcuni anni, è dovuta al fatto che «tutti si sono resi conto che non è possibile far coesistere una politica di sviluppo dell'economia reale, che richiede la creazione di posti di lavoro, con una politica finanziaria che vive di speculazione». Secondo Lula la crisi deve anche «accelerare la nascita di un nuovo ordine politico mondiale. Vogliamo che il mondo del ventunesimo secolo sia rappresentato per le forze politiche esistenti oggi e non per quelle degli Anni 40 del secolo scorso», ha affermato.

Detto per inciso, la visione di Lula vedrebbe al centro del nuovo sistema una Onu riformata su criteri e principi differenti da quelli scaturiti nella Guerra Fredda, sottolineando che “se avesse avuto maggior potere, questa avrebbe già potuto convocare quest'ultima riunione di Londra, permettendo così una partecipazione globale ad un dibattito di dimensioni globali”. Queste dichiarazioni, aldilà degli aspetti contestuali, fanno presagire per il futuro, un sempre maggiore protagonismo internazionale brasiliano.

Questa proiezione strategica comporta una partita internazionale giocata a tutto campo, articolata in più passaggi, il più importante dei quali è stato, appunto, quello della definizione di obiettivi nazionali indipendenti, da parte di una nuova borghesia al potere, monopolista in senso imperialista, ancorata ad una solida base economico-produttiva ed egemone sia politicamente che ideologicamente, la quale sta soppiantando la vecchia borghesia compra dora e che negli ultimi dieci anni ha proceduto ad un vigoroso smarcamento dalla tutela statunitense. Ampliando e diversificando le sue relazioni internazionali, diplomatiche e commerciali, come mai nella storia del subcontinente, spaziando dall'Asia all'Europa, scambiando in monete alternative al dollaro, che per tutto lo scorso secolo considerata la "vera" moneta nazionale. Una strategia che oltre alla difesa contempla anche l'attacco alle posizioni dell'ex-tutore. Infatti il Brasile sempre più voracemente sta attaccando le posizioni degli USA, in quello che da questi è sempre stato considerato il proprio patio trasero, ossia l'America Latina. Approfittando sapientemente dell'impantanamento internazionale statunitense con la guerra in Medioriente e dell'avanzata progressista continentale, la neopotenza brasiliana sta soppiantando quella nordamericana in un numero sempre maggiore di settori economici-commerciali, alcuni de quali strategici come quello primario, in cui dall'estrazione alla trasformazione delle risorse energetiche, le multinazionali come la PetroBras, stanno furoreggiando, tra acquisizioni e subentri in tutto il continente, ai danni di quelle occidentali. Forti di un know-out di settore ormai all'avanguardia, sfruttando l'appeal progressista della classe politica rappresentata da Lula e che ha portato alla firma di importanti accordi commerciali con Venezuela, Ecuador, Bolivia, Argentina e Cile. Riuscendo, finora, a disinnescare le mine vaganti sulla sua rotta, rappresentate dagli importanti processi di nazionalizzazione a cui stanno comunque procedendo soprattutto il Venezuela di Hugo Chavez e la Bolivia di Evo Morales.

Il prezzo pagato da questo tumultuoso balzo è stato, però, elevatissimo dal punto di vista dei costi sociali ed ambientali. Nella cornice capitalista, il rialzo del costo delle materie prime - di cui il Brasile è ricco - e la volontà di arricchimento di una borghesia in vena di emancipazione dalla sua posizione di compradora, hanno nei fatti determinato una sorta di "corsa all'oro", dove non si è badato agli "effetti collaterali". Devastazione ambientale, aumento delle disuguaglianze economiche, acuirsi della violenza sociale e politica, possono essere annoverate tra questi effetti. Tutto ciò sta portando ad un progressivo disincanto da parte di crescenti settori dei movimenti sociali e sindacali da cui lo stesso Lula proviene e che lo avevano inizialmente sostenuto. Così come lo stesso sta avvenendo per quegli ambienti intellettuali progressisti, di fronte ai “deludenti” indirizzi del governo. A onor del vero si può affermare tuttavia, che Lula non ha ingannato i suoi sostenitori, ma sono loro che si sono ingannati, ad esempio non prestando la necessaria attenzione alla sua famosa "Lettera al Popolo brasiliano" del giugno 2002, quando ha affermato che avrebbe onorato i contratti con i creditori, compiuto l'accordo con il FMI e mantenuto l'indirizzo di politica economica regolata dal mercato. Pensavano che fosse soltanto una delle abituali promesse della campagna elettorale, con lo scopo di assicurare la governabilità di una borghesia lanciata alla “conquista del mondo”, Lula ha optato per non introdurre sostanziali mutamenti nella politica economica e sganciarsi dalle promesse fatte alle masse popolari.

Il documento ricordava, tra l’altro, l'alto prezzo che ebbe la stabilità della moneta durante il Piano Real di Cardoso. Il Brasile si era andato indebitando in modo crescente. Con un debito impagabile, i cui interessi lo fanno crescere incessantemente, la soluzione trovata dalla equipe economica di Lula è stata di ridurre la relazione debito/PIL. Ossia, se il debito non cresce ma il PIL cresce, il debito sarà relativamente minore. Da qui la politica di Lula è stata quella di incentivare la crescita economica a qualsiasi prezzo. Il debito pubblico che era superiore al 60% del Pil è oggi a circa il 50%. Da un punto di vista capitalista è stato certamente un successo. Ovviamente scaricando l’altissimo costo sociale e politico sulle masse popolari. In questo quadro il settore dell'agrobusiness è stato anch’esso privilegiato, a prezzo del disboscamento dell'Amazzonia e del rinvio della Riforma Agraria, aumentando la conflittualità con il movimento dei Sem Terra e la sua repressione; nonostante questo, aspettandosi novità in tal senso, agli inizi del suo mandato i suoi dirigenti avevano allentato la morsa della propria pressione sul governo federale. Anche in questo il governo Lula non si è discostato dai suoi predecessori.

L'aumento della disoccupazione, della sottoccupazione e della precarizzazione del lavoro, e di fatto l'aumento del suo tasso di sfruttamento, hanno caratterizzato le politiche socio-economiche interne, tutte incentrate sulla crescita del PIL - ergo, dei profitti - e sul controllo dell'inflazione, mentre l'attenzione per il "debito sociale" è stata rinviata a data da destinarsi. In poche parole, il governo brasiliano riscuote il più possibile di tasse e spende il meno possibile di spesa, fatti salvi il pagamento degli interessi allo strozzinaggio internazionale e le spese per il passaggio al capitalismo monopolistico di stato, in favore delle multinazionali brasiliane. Il governo Lula sembra lanciato su questa strada, al di là della demagogia e dei pesanti costi sociali. Il suo problema potrebbe essere proprio rappresentato dal fatto che non riesce più a convincere le basi popolari che pagare quel prezzo sia “giusto”, disintegrando il blocco storico tra borghesia neo imperialista e classe operaia – incosciente dei propri interessi di classe - che è stato alla base delle sue vittorie elettorali. Molti ancora si affidano a lui perché, al momento, non ci sono alternative credibili, mentre solo i settori imperialisti sono convinti della giustezza di questa politica, perché è la loro politica. Oggi, grazie alla politica economica neoliberista portata avanti, né Lula né il PT sono in condizione di convocare una mobilitazione simile a quella del periodo della Costituente, il che rende improbabile che questo governo riesca a riconciliarsi con la sua base elettorale.

Questa riconciliazione richiederebbe o un profondo cambiamento nella politica economica o, in alternativa, l’adozione di un sistema di dominio egemonico da parte della borghesia più adatto alle sue pulsioni imperialistiche. La seconda opzione è quella sulla quale si vorrebbe incamminare Lula, che però su questo aspetto sconta tutta l’arretratezza del mancato sviluppo brasiliano.

Il Brasile è infatti una neopotenza contraddittoria, "sviluppatasi" solo in parte, quasi esclusivamente in termini di accumulazione capitalistica, ma che ancora è impantanata in un sottosviluppo politico-sociale preponderante, in cui quello che potremmo definire come un dominio di classe fatto di violenza "arcaica" continua ad essere la cifra funzionale all'"ordine" e al successo di una politica economica esportatrice. Una neopotenza che vede insieme elementi di grande modernità e di estrema arcaicità: trattori estremamente sofisticati con sensori per valutare l'acidità o l'alcalinità del suolo, in grado di correggere chimicamente questa situazione e relazioni tra le persone e nelle organizzazioni politiche vetusti. Una società ancorata ai retaggi coloniali, che si caratterizza ancora ampiamente per l'assenza dello Stato centralizzato e per l'esercizio delle funzioni statali da parte di grandi proprietari. L'"ordine" informa l'uso della brutalità contro chi si ribella e contro l'"agitatore" che lo appoggia. C'è una continuità tra la violenza fisica con la quale si eliminano dirigenti sindacali rurali e i loro sostenitori, religiosi o laici e l'assoluta priorità della crescita dei profitti. Si è visto cosa è successo a Anapu, Parauapebas e Goiânia, ma anche a Unaí e Felisburgo, per citare solo i fatti di repressione antipopolare più recenti. La violenza "arcaica" continua ad essere funzionale all'"ordine" e al successo della politica esportatrice. C'è una recrudescenza delle azioni dei pistoleri come parte del "crimine organizzato" e della cosiddetta "sicurezza privata", a dimostrazione dell'arretratezza della borghesia brasiliana, la quale ancora predilige tuttora appaltare il "servizio di stato" a corpi paramilitari, soprattutto locali, che non a uno stato centralizzato - contraddittoriamente e comunque limitatamente - più "controllabile" dalle masse popolari. Si può dire che la democratizzazione dello Stato brasiliano va molto a rilento, in proporzione all'accelerazione globalizzante del suo ruolo internazionale.

In base a questa prima ricognizione sul sub-continente brasiliano, si può certamente escludere che, nonostante la demagogia del progressismo lulese, ci troviamo di fronte ad una realtà in trasformazione bolivariana. Al contrario si potrebbe affermare che stiamo assistendo al processo di consolidamento di una potenza neoimperialista. Complice una persistente debolezza della coscienza e dell’organizzazione proletaria e popolare, le sorti del paese sembrano saldamente in mano ad una borghesia monopolista con forti ambizioni imperialistiche nella spartizione dei mercati internazionali e che scalzata dal potere la vecchia borghesia compradora, cerca di sfruttare al massimo le potenzialità naturali ed umane del paese per raggiungere i propri scopi. Una determinazione che non l’ha fatta esitare nell’inventarsi una governo di “sinistra”, per competere meglio contro gli yankees nello scacchiere continentale e conquistare al proprio progetto nazionale ampi settori popolari, strumentalizzandoli come inconsapevole massa di manovra. In fin dei conti si potrebbe fotografare il Brasile odierno come una realtà che economicamente vuole seguire le orme cinesi, mentre politicamente appare incamminato sul sentiero, famigerato, del riformismo europeo.
Con buona pace dei benpensanti…


CUBA
Su questo titolo, sotto la bella foto di Madrid, sicuramente qualcuno arriccerà o il naso o le sopracciglia, a seconda di disgusto o perplessità. Ho violato un tabù! Ma come, “con qualche ma” ! Scandaloso vero? E invece va bene così, sempre se sei un amico vero di Cuba, e non un suo chierico adorante, e se alla rivoluzione cubana ci tieni come all’anima tua.

Se c’è una cosa che nei lunghi anni della mia frequentazione di Cuba e della diffusione che vado facendo di voci, immagini e verità cubane, mi ha profondamente infastidito è l’adorazione acritica di tutto quanto succede nell’isola, dal belato della pecora alle dichiarazioni di Fidel. Nel parlare della rivoluzione giovane di cinquant’anni, ma con qualche ruga, mi preme in primis prendere le distanze da questa genìa. O quanto bene la conosco! Sono coloro che hanno in corpo il bisogno infantile di prostrarsi davanti a un qualche idolo, vitello d’oro o Jehova che sia. A volte, gratta gratta, sotto i “senza se e senza ma” ci trovi gente che a Cuba si è fiondata al richiamo di stimoli del tutto extrarivoluzionari, extrapolitici, e che poi queste istanze delle loro zone basse rivestono delle pailettes fideliste, guevariane, più che dell’ identificazione con l’arduo, nobile, a volte intralciato (un passo avanti e due indietro, diceva Lenin), cammino della rivoluzione socialista. Si sentono riabilitati nella coscienza dalla generosità con cui Cuba elargisce, comprensibilmente, ospitalità e riconoscimenti. Chi non lo farebbe nei confronti di sostenitori che, comunque, sventolano quella bandiera e onorano quella vicenda, mentre si trova serrato al collo da un’ aggressione imperialista pari per ferocia e durata solo a quella che lo Stato fuorilegge israeliano infligge al popolo palestinese?

Qua sopra, a proposito, vedete un’immagine dei diecimila che a Madrid hanno sfilato per il 50° della rivoluzione cubana. Accanto a quella cubana, svetta la bandiera della Palestina. Non ricordo occasioni, salvo qualche coraggiosa partecipazione di gruppi locali, in cui le recenti manifestazioni contro il terrorismo di sterminio israeliano abbiano registrato la presenza dell’ufficialità nazionale filocubana. E se da Cuba, dai suoi combattenti per la liberazione degli africani dal colonialismo e dall’Apartheid, dai suoi insegnanti, medici e istruttori sportivi che in giro per il mondo estraggono dall’ignoranza e dalla malattia – mens sana in corpore sano ! – interi popoli fin qui esclusi, non si è imparato l’internazionalismo, la solidarietà con Cuba equivale a quei pacifisti che innalzano bandiere arcobaleno, ma inorridiscono davanti alla resistenza di iracheni, afghani, palestinesi, colombiani. E, con riguardo a questi ultimi, è lecito o no anteporre la rivoluzione perfino a Fidel, quando il comandante si disimpegna da una lotta in Colombia che, pure, ripercorre, per dura necessità antifascista ed antimperialista, i passi dello stesso Fidel, del Che, di Camilo, essendogli stata preclusa con i massacri ogni altra via alla giustizia? Io, che dedico buona parte della mio modesto impegno al sostegno di Cuba, posso o no pronunciare un piccolo “ma” quando sento bertinottescamente dire, sullo sfondo dei genocidi inflitti dall’imperialismo ai “popoli di troppo”, che la lotta armata è roba d’altri tempi e che i prigionieri delle FARC “devono essere rilasciati senza condizioni” , a dispetto e tradimento delle centinaia di patrioti e compagni delle FARC che agonizzano nelle segrete della tortura colombiane? O quando un giovanotto, dirigente dell’Organizzazione degli Studenti cubani, risponde con stereotipe formulette sulla “libertà religiosa” alla domanda su cosa mai migliaia di cubani vanno cercando nelle chiese evangeliche, strumento dell’infiltrazione controrivoluzionaria Usa, che la rivoluzione non gli offre? O quando, alla ricerca di una zappa per sradicare erbacce infestanti, un esimio economista cerca di dimostrarmi che era corretto impostare lo sviluppo cubano sui servizi, piuttosto che sull’industria di base, meccanica, degli utensili? Ma se ogni cosa deve essere importata e la tua economia dipende quasi per intero dalla valuta in arrivo con il turismo, che ne potrà mai essere di una sovranità appesa all’incerta disponibilità di fornitori perlopiù nemici? Vogliamo nasconderci l’assurdo percorso di guerra che devono superare coloro che da fuori propongono progetti di solidarietà, o la tara della doppia valuta che rischia di riaprire una divisione in classi favorendo la fauna che prospera attorno al turismo a scapito di chi lavora e produce. Quando, finito se il cielo vuole il criminale embargo, sull’isola arriveranno le locuste nordamericane e mafiocubane, quel giro d’affari, non sempre limpidissimo, non minaccerà di produrre una classe di paperoni e vecchi valori di scambio? E visto che Cuba straripa di argilla, buona per eccellenti tegole, vogliamo o no liberarci delle migliaia di tetti d’amianto che seminano nell’isola e nei polmoni patologie per generazioni? Non è Cuba all’avanguardia, con decenni di vantaggio, su tutti i paesi della regione e sulla quasi totalità dei paesi del mondo, quanto a difesa ambientale e progresso ecologico? E qui mi scappa un altro “ma”. Se è vero, come è vero, che gli animali sono i nostri fratelli in Terra più deboli e migliori, non mi sta bene che per Cuba continuino a sfuggire alla rivoluzione migliaia di cagnetti che si aggirano abbandonati per le vie dell’isola ischeletriti, in preda al cimurro e alla lesmaniosi, in spregio agli appassionati e disperati sforzi di pochi veterinari, o che si allevino coccodrilli in via di estinzione per estrarne borsette per cretine da Quinta Strada. Il mio bassotto Nando ne ha parlato più volte a un comprensivo Fidel, ma poi ci sono le famose “priorità”. Dipendesse da Fidel… Molte di queste cose e molte altre sono state espresse direttamente, con formidabile intelligenza rivoluzionaria, dagli studenti dell’Università dell’Avana i quali hanno ben compreso che nella lunga marcia della rivoluzione ogni tanto occorre uno scossone, uno scatto che scuota passi a rischio di autocompiacimento, di inerzia, di letale burocratizzazione brezhneviana. L’unica cosa che procede per inerzia è il moto perpetuo. Che però non è stato ancora inventato.

Ombre che non offuscano le luci che ininterrottamente da 50 anni dall’isola si spandono sul mondo con la forza di una volontà e di una verità che è riuscita a intralciare, grazie appunto anche ai veri amici di Cuba, quelli rivoluzionari, lo tsunami politico e mediatico della diffamazione, delle menzogne, delle campagne terroristiche, delle guerre economiche e biologiche. Luci che in America Latina sono diventate fiamme e hanno incendiato un continente. Scrive giustamente Maurizio Matteuzzi sul “manifesto”: “Se il 1. gennaio 1959 la rivoluzione cubana non avesse vinto non ci sarebbe stato il rinascimento democratico e progressista dell’America Latina… Se non ci fosse stato “l’antidemocratico” Fidel Castro, oggi non ci sarebbero i Chavez, i Morales, i Correa , i radicali, ma neanche i Lula, i Kirchner, i Lugo, i moderati, e forse neppure i Vasquez e Bachelet, i pallidissimi”. Aggiungo che senza l’incredibile, indomabile forza di resistenza delle masse cubane, l’intelligenza dei quadri dirigenti educati da un’istruzione rivoluzionaria per tutti, l’indefettibile difesa e diffusione dei diritti umani collettivi, quelli fondamentali, della conoscenza, della sanità, del lavoro, della sicurezza e cura di bambini, donne e anziani (con tutti i limiti dovuti allo strangolamento, all’isolamento geopolitico e anche all’indolenza caraibica), a quale filo di speranza avrebbero potuto allacciarsi nelle Americhe i milioni di oppressi, schiacciati, obliterati da cinque secoli?

Eccoci qua, noialtri, rinserrati in Stati e manipolati da forze politiche che praticano la virtù massima della macelleria sociale all’interno e del colonialismo subimperialista verso terre e genti già predate nei secoli e ora da riconquistare e spopolare col terrorismo. Eccoci qua, corruttori di menti e sfruttatori di corpi, rapinatori e devastatori dell’ambiente, ammaestrati da cosche criminali a cavare qualche detrito di vita e di benessere dal genocidio degli altri e dal taglio delle gambe ai nostri pari. Eccoci qua che sulla tessera dei “Giovani Comunisti”, sedicenti tali forse da sempre, fieri e ottusi mettiamo la foto di chi smantella il muro di Berlino regalando ai vampiri del capitalismo quel milione di morti ammazzati dal “libero mercato” nei paesi dell’Est. Mica ci hanno messo il muro lungo il Rio Bravo contro cui si infrangono le vite di chi dai costruttori di quel muro ha avuto solo la scelta di morire nella terra da loro saccheggiata, o fucilato da ronde di tipo padano lungo il confine. Né ci hanno dipinto quell’altro muro dell’apartheid che punta a disintegrare definitivamente, chiudendolo in riserve indiane, il popolo che di quella terra è il legittimo titolare. E neppure qualcuno ha messo sulla sua tessera di rivoluzionario la muraglia invisibile dei necrocrati che, vista l’impossibilità di ricostruire il vecchio lupanare, vorrebbero allargare la loro Guantanamo a tutta Cuba. Cuba, e poi i suoi succedanei in Venezuela e Bolivia, hanno rotto i rapporti con lo Stato Canaglia israeliano e hanno invitato il mondo civile a condannare “i criminali massacri e a mobilitarsi per esigere l’immediata cessazione degli attacchi contro la popolazione civile palestinese, rinnovando solidarietà e sostegno indefettibili al sofferente ed eroico popolo palestinese” . Qui ci si balocca con codarde e indecenti equidistanze tra chi, prima di farsi eliminare, tira due razzi di latta e il “popolo della Shoah che si difende”. Ci dividiamo tra le due bande del partito unico che, in ottemperanza agli interessi della criminalità organizzata, indigena e imperialista, manifestano il massimo della convergenza delinquenziale nella complicità con olocausti più estesi nel tempo e più definitivi nella soluzione di quello che si pretende essere l’unico. E ci permettiamo di assistere dalla finestra alla gogna di un conduttore televisivo che, unico nella bolgia dei rinnegati, bugiardi e cospiratori, ha mostrato di che lacrime grondi e di che sangue la “democrazia” israeliana.

Su Cuba, grazie alla demenziale manomissione inflitta al clima di tutti dalla cieca voracità di pochi, si abbattono cicloni cui non si può impedire di stritolare case, campi, fattorie e fabbriche, ma ai quali la rivoluzione sottrae i sacrifici umani che decimano le popolazioni di tutti i paesi coinvolti, compresi gli Usa. Da noi frane, alluvioni, bufere, mareggiate ci lasciano inermi e nudi ai piedi dei fortilizi dei potenti. Basterebbe l’antimperialismo dei saggi cubani, filo rosso che attraversa ogni momento di questi 50 anni e che è il più convincente esempio della possibilità e della necessità della fratellanza umana, per impegnare ogni essere raziocinante e giusto alla difesa di Cuba e, come diceva il Che, alla lotta hasta la muerte su tutti i campi di battaglia del mondo. Qui di Guantanamo ne sopportiamo serenamente tante che metastizzano le regioni di mezzo paese. Non solo. Ce ne facciamo utilizzare per riprodurre in giro per il mondo le rapine e le carneficine che Mussolini faceva da solo o al seguito di Hitler.

Siamo dovuti andare a Cuba, e poi a Caracas e a La Paz, per farci trarre dalla nebbia tossica dello scontro di civiltà a base di guerra al terrorismo, per farci illustrare in modo inoppugnabile quale sia il terrorismo nel mondo e chi ne sono i promotori e piloti. E grazie a Cuba – e a pochi isolati “complottisti” in Occidente, esecrati addirittura dalla sinistra – che si è lacerato il mostruoso inganno del “terrorismo” diventato, con la speculare frode della “democrazia” e della “sicurezza”, “l’ascia di guerra per lo scontro di civiltà, la bandiera delle spedizioni di conquista” e della ricostituzione di una dittatura borghese che, nella morsa della sua crisi, si propone di diventare la più spietata di tutti i tempi. Nei giorni scorsi è apparso sui giornali di sinistra un megadocumento intitolato, con involontaria ironia, “Ritorno al futuro” e firmato da una caterva di illustri detriti dell’”Arcobaleno”, con in testa la masnada poltronara e di pura fuffa del vendolismo. Se i padroni vicini e lontani sognavano una rassicurazione strategica, questo lieve programmino socialdemocratico, che parte, sì, dal basso, ma dalla bassa politica, glie l’ha garantita. Stato sociale, certo, l’egida dell’ONU per la salvaguardia dell’ambiente e del rapporto produzione-riproduzione della forza lavoro, come no, regole contro gli abusi finanziari, perbacco, interventi pubblici nell’economia, già li fanno Tremonti e Brunetta, l’utilizzo a pieno (da parte di chi?) delle capacità e competenze formate dalla scuola e dall’università, come dice Gelmini, mobilità collettiva e individuale, come detta Fiat, e bla bla bla. Peccato che questi neoprodiani si siano dimenticati dell’imballaggio in cui tutti i bei propositi vanno a essere chiusi: l’imperialismo. Termine non trendy, lo so, ma credono davvero questi profeti delle compatibilità e della nonviolenza che si diano rapporti capitale-lavoro non vampireschi, salvaguardie dell’ambiente, emancipazione dei deboli e delle donne, immigrazione accettata e onorata, quando si è parte integrante di un meccanismo planetario di dominio, sfruttamento e distruzione, di deumanizzazione come è quello del capitalismo al suo apice imperialista? Molti di costoro hanno votato per l’assalto a popoli poveri e inermi, nessuno di loro parla più di Nato e delle basi nella colonia Italia, non ci si cura del fatto che a tirare le fila dei veltrusconi (fra un po’ chiederò le royalties per il termine) ci sono i burattinai a stelle e striscie, tutti schizzano la lotta dell’effettivamente equivoco (ma che c’entra?) Di Pietro contro il rullo compressore piduista-fascista che frantuma libertà e diritti.

Le luci da Cuba denudano i re e i loro corifei. La storia vissuta a Cuba è la prima a darci lezioni per il presente. Grazie a essa possiamo capire il prezzo, le difficoltà, gli arretramenti e le conquiste di libertà come ideale concreto, la forza e la fragilità delle utopie, la precarietà delle fede quando è indiscussa e sterilmente superba, il carattere insaziabile della libertà. Da essa ci viene la lezione del’irriducibile resistenza al colonialismo, politico, economico, culturale. A Cuba abbiamo dovuto lottare contro due colonizzazioni, quella del capitalismo e quella del socialismo detto reale. Queste colonizzazioni richiedono l’esercizio del pensiero critico collettivo. Per favorire questo pensiero, senza il quale non è possibile rompere con la cultura del capitale, occorre riformulare il tipo di potere che costruiamo in tutte le nostre relazioni sociali: il potere tra figli e genitori, il potere tra maestro e alunno, il potere tra Stato e popolo… Siccome vogliamo il socialismo, dobbiamo riscoprirlo nell’organizzazione della produzione, nel lavoro libero e associato, sociale, cooperativo e autogestito, nella forma in cui il discorso sociale deve essere inserito nel discorso politico, nella consapevolezza che all’inizio di tutto sta la sconfitta dell’imperialismo, condizione perché l’eliminazione dello sfruttamento sia l’eliminazione della povertà, ma anche dell’alienazione, come voleva il Che Guevara”.

Così parlarono a Fidel Castro Ariel Dacon, Julio Antonio Fernandez, Julio César Guanche, Diosnara Ortega, studenti dell’Università dell’Avana. Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della rivoluzione che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero governo cubano, se ne possono fidare. Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della rivoluzione, che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero governo cubano, se ne possono fidare.

VENEZUELA
Il Venezuela ha conosciuto negli ultimi 20 anni una accelerazione di avvenimenti che ha cambiato la sua storia per sempre.
Il 27 febbraio 1989 scoppia una insurrezione popolare a Caracas e Guarenas, contro le riforme economiche ultra liberiste volute dal Fondo Monetario Internazionale, imposte dall’allora Presidente Carlos Andres Perez, leader del partito socialdemocratico Acción Democratica.
Il governo risponde con una repressione selvaggia. Più di 5.000 persone, principalmente proletari e sottoproletari, muoiono assassinati dall’esercito e dalla Polizia.
La commozione suscitata da tale massacro è tale da generare in una buona parte della popolazione, anche in militari e funzionari pubblici, una reazione di rigetto verso un sistema politico classista e dittatoriale, strettamente controllato dall’oligarchia “creola”, che vede alternarsi al potere i democristiani di Copei e i socialdemocratici di AD.
Nel 1992 ci sono due tentativi insurrezionali (il 4 di febbraio e il 27 novembre) portati avanti da militari progressisti e da gruppi di civili, organizzati nel “Movimiento Bolivariano Revolucionario 200”, guidato da Chávez. Benché entrambi i tentativi falliscano, e molti dei militari patrioti e bolivariani vengano arrestati, questi atti fanno rinascere la speranza nelle classi oppresse venezuelane.
La situazione economica della popolazione si aggrava di giorno in giorno, per poi precipitare nel 1995 quando scoppia forse il più grosso scandalo finanziario del Venezuela, per il quale i principali banchieri del paese si intascano i soldi dei piccoli risparmiatori, mentre continua la repressione contro i movimenti studenteschi, giovanili e dei lavoratori.
Centinaia di compagni muoiono uccisi dagli sbirri in manifestazioni o torturati nelle carceri. Così quando Chávez esce di prigione e inizia a fare campagna politica molti vedono in lui un leader in grado di rappresentare i loro ideali e le loro aspirazioni.
Su pressione del MBR200 e dei movimenti di sinistra, nel 1998 viene convocata una Assemblea Costituente e successivamente un referendum popolare per approvare una nuova costituzione democratica e progressista: la Costituzione Bolivariana.
È l’inizio del Processo Bolivariano, e nel 1999 Hugo Chávez viene eletto alla Presidenza della Repubblica.
Grazie alla Costituzione Bolivariana e alle riforme varate negli anni successivi dal governo bolivariano, viene sempre più limitato il potere dell’oligarchia e vengono ampliati i diritti delle classi subalterne.
Vengono riconosciuti i diritti delle popolazioni originarie e afrodiscendenti; delle donne; viene proibito il latifondo e si incentiva la costituzione di Comitati di Terra grazie ai quali si inizia un processo di redistribuzione delle terre incolte ai piccoli contadini (oltre 2 milioni di ettari); la popolazione ha finalmente accesso al sistema sanitario, che diventa gratuito; vengono ampliati i diritti dei lavoratori.
L'oligarchia, privata dei suoi privilegi, organizza il tentativo di colpo di Stato militare finanziato dagli USA , nell’aprile 2002, col quale viene deposto Chávez e portato al potere per due soli giorni il presidente della Confindustria venezuelana Pedro Carmona Estanga. Il golpe fallisce per la determinazione del popolo venezuelano che non si piega davanti alla cruenta repressione delle forze oligarchiche e filoimperialiste, e scende in strada a difendere il suo Processo e il suo Presidente momentaneamente sequestrato nell’isola della Orchila.
Si rafforza in questa occasione il legame fra le organizzazioni rivoluzionarie “civili” e alcuni reparti progressisti dell’esercito, che rifiutano la svolta fascista, nell' “unione civico-militare”.
Ad agosto dello stesso anno, dopo l’assoluzione dei militari golpisti da parte del Tribunale Supremo, vi sono settimane di scontri sanguinosi che lasciano sulle strade decine di morti e centinaia di feriti fra i compagni, per mano della polizia metropolitana comandata dall’Alcalde Mayor di Caracas, Alfredo Peña, appartenente all’opposizione.
Il 2 dicembre 2002 inizia poi la serrata padronale golpista che, fallita la destituzione del Presidente, prova a mettere in ginocchio il governo e l’economia del paese. Progressivamente scompaiono gli alimenti dai supermercati; non c’è più benzina; non c’è più gas. Dura fino a febbraio 2003 ma anche questa volta il glorioso popolo venezuelano dirotta l’oligarchia fascista: i lavoratori occupano le fabbriche chiuse, una parte degli operai della compagnia di petroli nazionali PDVSA riprende le installazioni e rilancia la produzione.
Da questo momento l’opposizione inizia a declinare irrimediabilmente in termini di sostegno, ma non per questo rinuncia ai suoi piani eversivi: nella primavera del 2003 dà vita alle cosiddette “guarimbas”, con barricate e atti di destabilizzazione violenta, e nell’agosto 2004, in occasione del Referendum Revocatorio (instaurato dalla Costituzione del 1998, che prevede che ogni carica pubblica possa essere sottoposto a verifica elettorale a metà del proprio mandato), con diversi morti fra i compagni.
Malgrado gli attacchi della destra “vendepatria”, il governo bolivariano si consolida e può continuare il suo operato, sia a livello nazionale che internazionale.
Sul piano interno vengono create le “Missioni” sociali: il “Plan Barrio Adentro”, che è un progetto di estensione della sanità a tutti quegli strati della popolazione finora esclusi da ogni sostegno medico statale, con la creazione di centri di diagnostico e cura, in tutte le favelas, nelle campagne e anche nei villaggi indigeni, grazie al determinante apporto di 15.000 fra medici e preparatori fisici cubani, approdati nella patria di Simon Bolivar, nel quadro del “Convegno Cuba-Venezuela”; la “Misión Robinson”, un programma di alfabetizzazione che mira a ridurre l’analfabetismo nel paese, grazie al quale milioni di persone imparano a leggere e scrivere e porterà il Venezuela al raggiungimento dell'obiettivo di essere il secondo paese latinoamericano (dopo Cuba) libero dall'analfabetismo; la “Misión Sucre”, che permette a chi non ha finito gli studi di completare il proprio percorso formativo; la “Misión Ribas”, che mira a dare una formazione professionale a chi vi accede, ecc.
Nel mondo del lavoro viene creata una nuova centrale sindacale, la UNT, in antitesi al sindacato giallo CNT; viene sostenuto lo sviluppo delle cooperative; vengono nazionalizzate le principali industrie del paese nei settori strategici (il petrolio, la siderurgia e ultimamente il cemento) e riconosciute nuove forme di imprese, oltre a quelle statali e private: quelle miste (Stato/privati), quelle cogestite (Stato/lavoratori) e quelle sotto controllo operaio.
Vengono riconosciuti e sostenuti i consigli dei lavoratori.
Il governo stimola un ricambio all’interno delle forze dell’ordine e dell’esercito e forma i nuovi funzionari e cadetti nei valori del rispetto dell’uomo e della sua dignità.
A livello di istruzione vengono create le scuole bolivariane e l’Università Bolivariana (UBV) per permettere a tutti un accesso gratuito all’istruzione di base e superiore.
Anche il mondo dell’informazione e della comunicazione conosce profondi cambiamenti. Viene infatti creata una rete nazionale di media alternativi e comunitari per fare contrappeso agli strapotenti media privati, e per dare strumenti di espressione, organizzazione e partecipazione al popolo venezuelano. Nascono così la Agenzia Bolivariana di Informazione (ABN), l’Associazione Nazionale dei Media Comunitari e Alternativi (ANMCLA), Vive TV e Avila TV, e infine Telesur che è il primo esempio di network internazionale sudamericano di televisione.
Tutte queste iniziative favoriscono la crescita del PIL, che si attesta intorno al 7% all’anno.
A livello internazionale la politica di Chávez e del suo governo acquista ancor più prestigio e rompe le dinamiche precedenti alla sua presidenza: il Venezuela riesce a rompere il blocco materiale e ideologico che strozza Cuba, ed inizia una collaborazione preziosissima. Caracas fornisce petrolio e tecnologia a Cuba, che garantisce la presenza del suo personale medico specializzato in Venezuela.
E insieme a Cuba elabora poi un progetto di liberazione dell’America Latina dalla morsa del FMI, degli USA e degli altri paesi imperialisti.
Vengono costruiti meccanismi di collaborazione e solidarietà con vari paesi del subcontinente americano, principalmente la Bolivia, l’Ecuador, l’Argentina e il Brasile.
Questi meccanismi vengono poi perfezionati e formalizzati attraverso la proposta di integrazione economica dell’ALBA (Alternativa Bolivariana delle Americhe), che si oppone al progetto Statunitense dell’ALCA - che vorrebbe imporre il predominio economico e politico degli USA attraverso accordi di libero commercio di chiaro stampo neoliberista.
Il governo venezuelano partecipa poi al processo di fortificazione dell’OPEP nei confronti dei paesi del blocco Atlantico, e alla creazione dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Gas, insieme a Russia e Iran, sempre nella direzione di ridefinire le relazioni Nord-Sud.
Tutto questo è sempre più intollerabile per l’Oligarchia e i suoi alleati stranieri, che proseguono nell’azione eversiva.
Dovendo però fare i conti con la propria debolezza a livello elettorale e di partecipazione, l’opposizione dà vita una vera e propria guerra di bassa intensità, attraverso:
-campagne terroristiche dei media privati.
-introduzione dei paramilitari colombiani dentro alle frontiere del paese.
-omicidi selettivi di sindacalisti e dirigenti contadini per mano di sicari e paramilitari
-sabotaggio della produzione e della distribuzione dei beni alimentari di base, come il latte, lo zucchero, la carne e i fagioli.
-costante ingerenza del Vaticano nella politica del paese, attraverso la Conferenza Episcopale del Venezuela e il Cardinale Urosa Savino, membro dell’Opus Dei.
-finanziamento dei movimenti di opposizione attraverso numerose ONG, che ben lungi da svolgere una funzione sociale, compiono una chiara attività di ingerenza politica
-e, infine, a partire dalle elezioni presidenziali del 2006 e in modo ancora maggiore dopo il Referendum di Revisione Costituzionale del 2007 l’opposizione utilizza il “movimento studentesco” , il quale conta poche migliaia di aderenti, per portare avanti la destabilizzazione.
Ma chi sono questi studenti? Non certo gli studenti proletari e piccolo borghesi della UBV, bensì i figli delle famiglie ricche che frequentano le Università private e d'èlite del paese. Per età - intorno ai venti anni - e posizione sociale, ben poco sanno di come era la situazione prima del Processo Bolivariano, quando i poliziotti e l’esercito sparavano per un’occupazione o una semplice protesta, o del generalizzato livello di povertà.
I leaders del “movimento studentesco”, non sono né ingenui, né tantomeno sinceri. Molti di loro, primi fra tutti Yon Goycoechea, hanno ricevuto una formazione strategico-militare dagli Stati Uniti. Sono stati formati da Gene Sharp, dell’Albert Einstein Institute, che ha sviluppato la teoria della disubbidienza civile applicata da tutte quelle forze reazionarie e filo-occidentali che hanno realizzato le “rivoluzioni arancione” nei paesi dell’ex Patto di Varsavia: Yugoslavia, Ukraina, Georgia, Azerbaijan.
Il “Yon nazionale”, come viene chiamato ironicamente in Venezuela, ha così partecipato a vari incontri internazionali, nell’ex Yugoslavia, ospiti di OTPOR (da cui gli “studenti oppositori” hanno assunto anche il simbolo della mano nera), in Ecuador e Bolivia. In questi ultimi due paesi hanno stretto alleanze con gli studenti fascisti, sostenendo i movimenti indipendentisti presenti nella Mezzaluna boliviana, o nella regione di Guayaquil in Ecuador. Questo perché le forze imperialiste vogliono riproporre in America Latina la stessa strategia di smembramento utilizzata in Yugoslavia (la cosiddetta balcanizzazione della regione), concepita dall’International Crisis Group (del quale fa parte oltre a George Soros, Zbigniew Brzezinski e Morton Abramowitz, anche un ex governatore di Caracas, latifondista, Diego Arria), e gli studenti venezuelani ne rappresentano la punta di lancia.
Per i buoni servigi resi al blocco imperialista, il 23 aprile 2008 Goycoechea è stato premiato da un potente think-thank ultraliberista nordamericano finanziato principalmente da Rockfeller, il “Cato Institute”, con il premio Milton Friedman, e ha incassato un assegno di 500.000 dollari.
Il 15 febbraio si è svolto il Referendum di revisione costituzionale, relativo alla modifica degli articoli 160, 162, 174, 192, 230 della Costituzione sulla possibilità che un candidato potesse ricandidarsi, senza nessun limite di volte, alle principali cariche pubbliche: Presidente della Repubblica, Governatore, parlamentare nazionale, sindaco e parlamentare statale.
Il popolo venezuelano e bolivariano ha approvato la proposta di modifica con il 54,6%.
Puntualmente è arrivata la criminalizzazione del risultato, portata avanti dai principali media privati venezuelani, che sono in mano all’opposizione reazionaria, e da quelli stranieri. Alcuni dei titoli apparsi: “Chávez, verso la presidenza a vita”, o ancora “Chávez dittatore a vita”.
L’opposizione organizzata nel “blocco del No”, che sognava un avvenire senza Chávez e senza rivoluzionari, sperava che non fosse approvata la proposta di modifica, come avvenne precedentemente con il Referendum di Revisione Costituzionale del 2007, quando il SI perse di poco.
Ad ogni odo, in quell’occasione la Riforma non riguardava solo la questione dell’elezione indefinita, ma toccava anche questioni di spiccato rilievo come: giornata di 6 ore lavorative, aumento diritti lavoratori, aumento dei diritti studenteschi, riconoscimento della proprietà collettiva e di quella sociale accanto alla proprietà privata, messa sotto controllo governativo della Banca Centrale, ecc...
Questioni forse troppo importanti, un sicuro passo in avanti verso il socialismo. E per questo la parte “di destra”, “borghese” (la nuova classe media e i burocrati) o “light” del Chavismo, non ha fatto campagna o si è dichiarata addirittura contraria, facendo emergere pienamente le contraddizioni all’interno dell’area bolivariana, fra chi vuole il socialismo e chi invece è favorevole a una socialdemocrazia progressista, ma fortemente imperniata sulla concezione borghese di Stato per quanto attiene alle relazioni sociali, ed ai rapporti di produzione (il partito Podemos ad esempio ha tradito il fronte chavista ed è passato all’opposizione).
Il 15 febbraio, però, il “blocco del Sì” è stato compatto perché tutti sapevano che la permanenza di Hugo Chávez in carica é troppo importante per la stabilità del processo bolivariano e per quella del paese in generale. Questo non perché Chávez sia il “capo”, o il “caudillo”, ma perché lo scontro con le forze reazionarie è gigantesco, e le conquiste conseguite fino ad ora devono essere preservate ad ogni costo. Per sconfiggere le forze reazionarie e realizzare le riforme e i cambi necessari al paese ci vuole tempo, molto tempo . Ne va della vita e del benessere di milioni di persone.

SALVADOR
Il 16 gennaio 1992 l’eroico Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (FMLN) si sedeva al tavolo dei negoziati in Messico per firmare l’accordo di pace tra la guerriglia ed il governo oligarca.
Dopo l’offensiva generale del 1989, in cui una delle guerriglie più coraggiose del mondo - su un territorio di 20 mila chilometri quadrati e senza importanti massicci montuosi - mise in ginocchio un esercito addestrato direttamente dall’imperialismo Nordamericano, si chiudeva il ciclo di 12 anni di scontro politico-militare contro la dittatura militare fascista.
Più di 30 mila guerriglieri combatterono strenuamente fino all'ultimo in tutto il Salvador contro più di 100 mila militari, mentre la capitale, San Salvador, era nelle mani del fronte rivoluzionario dopo due settimane di duri combattimenti.
In quei giorni si misurò il coraggio e la forza delle convinzioni ideologiche, durante la lotta per instaurare un processo di costruzione del socialismo.
Nessuno dei due eserciti fu sconfitto militarmente: l’esercito degli oligarchi fu umiliato per non essere riuscito a sconfiggere in tre mesi i ribelli, come aveva promesso al governo degli Stati Uniti, ma neanche il FMLN fu in grado di distruggere le vecchie strutture sociali, economiche, politiche e culturali della sovrastruttura del capitalismo sviluppatosi in Salvador.
Dopo 12 anni di conflitto sociale, con la confrontazione diretta delle classi, il cammino dei negoziati fu in quel momento della storia, il più saggio: le condizioni internazionali erano sfavorevoli, (il crollo dell’URSS, la crisi Sandinista, ecc.) e le correlazioni di forze interne indicavano che era il momento di uscire dal conflitto con un trattato: si aprirono così le porte delle nuove forme di lotta per il popolo salvadoregno.
Il negoziato fu il frutto della lotta che portò ad una riduzione considerevole dello strapotere dell’Esercito governativo, alla scomparsa dei vecchi corpi di polizia assassini e alla nascita della nuova polizia nazionale civile di cui diventarono membri ex-combattenti guerriglieri, vecchi poliziotti più o meno rieducati e cittadini civili. Nacque anche l’organo governativo dei diritti umani, e per i combattenti si aprirono nuove opportunità per riprendere la vita produttiva e ricongiungersi nuovamente con le proprie famiglie..
Non venne tuttavia toccato il tema delle riforme economiche, e le forze reazionarie ne approfittarono per introdurre il modello neoliberale, privatizzando i beni ed i servizi pubblici, le banche, il settore delle telecomunicazioni, ecc.
A 17 anni della fine del conflitto ci troviamo in un momento storico caratterizzato dalla crisi pubblica del capitalismo, dell’imperialismo e dell’economia globalizzata, una crisi che nasce dal cuore del sistema.
Non possiamo parlare della fine delle ideologie, ma della fine della teoria del capitalismo: non ha più niente da offrire al mondo. Oggi i governi che sostenevano l'ideologia liberista contraddicono i principi di libero mercato e di non intervento dello stato nell’economia; ma i loro sforzi sono vani, perché la malattia da cui è afflitto il sistema capitalista è arrivata alla sua fase terminale.
Le elezioni in Salvador del 18 gennaio scorso per eleggere i deputati e consigli comunali e le prossime elezioni del 15 marzo vanno analizzare nel contesto della crisi del capitalismo e il suo modello di sviluppo neoliberista; la vita stessa è in gioco in questo dibattito e la vittoria più importante in questo momento è quella di carattere ideologico.
Mentre il capitalismo cade, e l’imperialismo col suo governo mondiale e la sua economia globale non sanno come uscire dalla crisi che loro stessi hanno creato, le sinistre Latinoamericane guidano le speranze, le resistenze popolari e la radicalizzazione politica contro le destre locali, contro le misure insulse ed i trattati inefficienti.
Il processo politico in cui si stanno sviluppando le elezioni per la presidenza della repubblica, la massima carica dello stato, sta determinando la possibilità reale, dopo 20 anni, di scacciare la destra estrema dal governo. Non è un compito facile, perché il numero di deputati del FMLN eletti in seguito alle prime consultazioni del 18 gennaio scorso, trentacinque, non garantisce la possibilità di bloccare oppure approvare leggi che riformino in modo sostanziale l’economia del paese.
L’assemblea legislativa, composta da 85 deputati, continuerà ad avere una maggioranza di destra, debole politicamente ma numericamente forte; un governo delle sinistre in queste condizioni richiede un’ampia alleanza con i lottatori sociali non allineati al partito FMLN.
Il partito politico del FMLN può vincere, stando ai sondaggi, le elezioni presidenziali, ma il potere formale sarà debole se non sarà accompagnato dall'appoggio reale del popolo organizzato attraverso un ampio Movimento Sociale.
Gli analisti di sinistra in Salvador paragonano la crisi interna ad una situazione potenzialmente rivoluzionaria, dove la classe dominante non può stabilire il controllo sociale ed economico e la popolazione non vuole essere più governata da questa classe borghese.
Anche se il Frente saprà disegnare l' alleanza con il Movimento Sociale per ottenere dei voti, ma il cittadino non avrà la possibilità di cambiare con il voto il sistema politico ed economico, in ogni caso possiamo affermare che questa sarà una dittatura elettorale, un livello più basso della dittatura democratica borghese.
Sul terreno elettorale, utilizzato come uno strumento politico, le sinistre in Latinoamerica stanno abbattendo le destre ovunque; oggi i pochi ricchi non dormono per la paura, mentre i poveri, la grande maggioranza della popolazione, non dormono per la fame.
Il cittadino ha il potere del voto, ma consegna quel potere ai nuovi governanti, e la classe governante non può condurre da sola un progetto di cambiamenti strategici: la classe governante come potere formale si confronterà con il potere reale, e in questo scenario, gli stessi cittadini saranno nuovamente chiamati a difendere un governo che propone un cambiamento di modello, affronta l’imperialismo e radicalizza la lotta politica ed ideologica.
Ricordiamo che il 18 gennaio scorso il partito FMLN ha perso la capitale, proprio per non aver lavorato sugli strati più deboli della popolazione e per non aver fatto delle alleanze con le altre sinistre esterne al partito: comprendere e superare questo difetto sarebbe l’azione più saggia che possa fare oggi la dirigenza del FMLN.
Dopo il 18 gennaio scorso, le relazioni fra le forze elettorali si sono equilibrate, al punto che il 15 marzo può vincere il blocco delle destre o l' alleanza delle sinistre; in entrambi casi, il vincitore dovrà gestire una crisi profonda, dove i poveri saranno più emarginati se non si offre loro un’uscita urgente; già la classe media è stata colpita mortalmente, e questo significa che i governi di destra non hanno saputo favorire neanche il settore della piccola imprenditoria e dei singoli professionisti.
Un altro aspetto interessante da sottolineare è che gli Stati Uniti non sono più visti come la via della salvezza economica.
La situazione geopolitica in America sta cambiando: il blocco dei paesi composto da Venezuela, Brasile, Equador, Bolivia, Paraguay, Nicaragua, insieme a Cuba, sta indicando la strada da seguire, sulla via dell’emancipazione politica ed economica non soltanto dall’imperialismo statunitense: un' utopia che muove al di là del pacifico, una liberazione spirituale che arriva in Europa.
Per questo è importante la vittoria politica delle sinistre in Salvador, perché questa vittoria aprirebbe le possibilità di espandere in Centro America le resistenze politiche, aprendo le porte verso nuove forme d’investimento e cooperazione internazionale del blocco anti-imperialista.
Se il partito FMLN capisce l’importanza di entrare in sintonia con il popolo, di vedere quello che la gente vede, cioè, il sogno Salvadoregno, non più il sogno “gringo”, può costruire le condizioni per portare il paese sulla via della rinascita sociale e della sovranità.
Il Movimento Popolare è il soggetto in grado di far valere un governo di sinistre, il popolo organizzato in comitati, chiese progressiste, studenti, operai, “campesinos”, venditori di strada, insegnanti, ecc., questo Movimento Sociale, indipendentemente della vittoria elettorale, in breve avrà il carattere di soggetto politico col suo potere politico costruito proprio dal basso e difeso nei posti di lavoro.
La vittoria delle sinistre il 15 marzo prossimo rappresenterebbe una vittoria in più di tutte le sinistre del mondo; se non si riesce ad arrivare al potere in questo ciclo di lotte politiche, si avrà un aggravarsi della crisi in Salvador nell'ambito della repressione sociale e politica, della crisi economica, dell’immigrazione, dell’insicurezza, della sanità, dell'educazione, della nutrizione dei bambini, e dell'angosciosa lotta per la sopravvivenza nella miseria.
Questo scenario obbligherebbe le sinistre a resistere politicamente e lottare e ad esercitare una pressione sociale nelle strade.
La collettività e fatta di singole persone, esseri umani che pensano, sentono, amano, odiano, sognano, mangiano e decidono: possono decidere di lottare per vivere o accettare di vivere in schiavitù ideologica, schiavitù che porta alla perdita del carattere umano e converte gli uomini e le donne in macchine, in cifre, in voti, in oggetti.
Oggi il capitalismo come concezione del mondo ha fallito, un nuovo orizzonte comincia, la stella della rivoluzione torna ad essere la fiamma della liberazione dei popoli oppressi per secoli, obbligati a vivere come ombre in un mondo di colori.

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