giovedì 16 ottobre 2008

Il Papa in silenzio

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Il Papa in silenzio

Furio Colombo


Una proposta sorprendente è stata avanzata da Papa Benedetto XVI come ragione importante per la beatificazione di Pio XII: il silenzio. Di fronte al dilagare delle leggi razziali in Europa e all’evidente gravità di quelle leggi prima ancora che arresti e deportazioni svelassero il progetto di distruzione completa di un popolo, Pio XII, capo della più vasta e potente organizzazione religiosa di un mondo che allora era centrato sull’Europa, ha ritenuto di tacere, di tacere anche quando, con l’occupazione tedesca di due terzi della penisola, Roma inclusa, dopo l’armistizio e il tentativo italiano di uscire dalla guerra, forze armate tedesche e fasciste erano attive, e aggressive, e vendicative nel tentativo di catturare quanti più ebrei, individui e famiglie fosse possibile, intimando la pena di morte a chi avesse aiutato i ricercati e compensando ogni delazione italiana (ce ne sono state a migliaia) con lire cinquemila.
La principale ragione per apprezzare come utile e virtuoso quel silenzio è che in tal modo il Papa ha reso possibile una vasta rete di aiuto e sostegno in Vaticano, in chiese e in conventi italiani per salvare, ospitare, nascondere moltissimi italiani ricercati per razzismo e per ragioni politiche. Si è trattato della più estesa e attiva rete di rifugio e di soccorso, ben documentata dalla Storia e di cui migliaia di sopravvissuti, in Italia e nel mondo, hanno dato atto e gratitudine al Vaticano. Ci sono però due grandi obiezioni, una nel mondo dei fatti, l’altra a livello dei principi.
I fatti ci dicono che l’Italia ha avuto un ruolo molto grande nell’orrore delle persecuzioni razziali che hanno insanguinato e marcato come indimenticabile vergogna tutta l’Europa.
L’Italia cristiana, cattolica, legata con un Concordato alla Chiesa di Roma. È importante ricordare tutto ciò, oggi, alla vigilia del 16 ottobre. Quella notte del 1943 mille e diciassette cittadini ebrei romani - dai neonati ai vecchi ai malati - sono stati arrestati nelle loro case del Ghetto di Roma da unità militari tedesche munite di nomi e indirizzi da parte dei fascisti italiani. Tutti i rastrellati sono stati tenuti prigionieri per giorni presso il Collegio militare di Roma sotto la sorveglianza di militi fascisti, e poi deportati ad Aushwitz da dove quasi nessuno è tornato. Dunque ciò che è accaduto a Roma il 16 ottobre non è stato il blitz di un terribile istante ma una lunga, meticolosa operazione nazista e fascista durata per giorni nel silenzio di Roma. L’Italia era l’altra grande potenza che ha invaso e occupato, insieme ai tedeschi. Il ruolo che l’auto-narrazione italiana si è attribuito dopo il disastro e la sconfitta fascista, è quello di uno Stato buono, sgangherato e debole dove i soldati combattevano con le scarpe di cartone. Era vero, nell’esperienza disperata dei soldati di allora, ma persino mentre il disastro italiano si compiva, l’Italia dalla Francia ai Balcani alla Russia, era l’altro grande Paese invasore, oppressore, occupante. Non tutti i diplomatici e i generali italiani ubbidivano, anzi ci sono state clamorose dissociazioni di fatto (che vuol dire cauta ma ferma disobbedienza) dalle leggi razziali. Ma l’Italia era l’altro persecutore, le leggi razziali erano state firmate dal re italiano, unico caso in Europa. Ma il re Savoia era imparentato con metà delle monarchie europee del tempo, l’esercito sabaudo era collegato con l’attivismo nazista antisemita attraverso gerarchi, ufficiali, agenti della milizia fascista, che facevano comunque del loro meglio per terrorizzare le popolazioni locali e spingere al peggio i “Gaulatier” e i governi fantoccio. Erano impegnati a terrorizzare tutte le popolazioni, a sostenere tutti i fascismi locali più sanguinosi, ad accumulare, contro l’Italia, un odio che dura ancora. Ma sopratutto erano attivissimi nella collaborazione all’immensa rete di delitti che oggi chiamiamo 
Shoah. Il diario di un uomo giusto come Giorgio Perlasca che, da solo, in Ungheria, ha salvato migliaia di cittadini ebrei dalla deportazione fingendosi diplomatico spagnolo testimonia del frenetico lavoro della persecuzione in regioni e Paesi di un’Europa cristiana e in gran parte cattolica. O comunque sensibilissima all’autorità della Chiesa cattolica, che riguardava anche una parte non irrilevante di soldati e ufficiali tedeschi. E che certo condizionava il fascismo.
E qui entra in campo la questione di principio. Ciò che è accaduto in Italia, sopratutto l’assenza quasi totale di voci italiane contro le leggi razziali, allo stesso tempo spaventose e folli (folli in modo evidente, a cominciare dalle enunciazioni di principio, dai presunti fondamenti storici e logici, dal titolo stesso di “leggi in difesa della razza”) è reso più inspiegabile e difficile da giustificare a causa del comportamento del Parlamento filo-fascista bulgaro. Quel Parlamento, sotto la guida del presidente Dimitar Peshev (cito da libro di Gabriele Nissim «L’uomo che fermò Hitler», Mondadori), rifiutò e respinse le leggi razziali preparate sull’odioso modello italiano. E impedì in tutto il Paese occupato “dai camerati tedeschi” qualsiasi atto contro i cittadini bulgari ebrei. Dunque dire di no da parte di chi aveva autorità era pericoloso ma possibile. Imbarazza la memoria italiana anche il ben noto gesto del re di Danimarca che, pur privo di forza militare e di qualunque strumento di resistenza, si oppose, senza cedere mai, all’imposizione della stella gialla come identificazione dei suoi cittadini ebrei.
Sono leggende, ormai, brandelli di un onore perduto. Sono tentativi di recupero di un minimo rispetto per un’Europa colta e orgogliosa della sua identità in cui è dilagato il peggior delitto della Storia. Ma quel delitto è dilagato nel silenzio. Ed è stato - poche volte - fermato dal coraggio, raro, drammatico, ma, come si vede, efficace di rompere il silenzio. Tutto dimostra che i nazisti avevano bisogno del silenzio e contavano sulla cancellazione della memoria.
C’è un rapporto fra il silenzio che ha consentito a una organizzazione non sospetta e intatta (a causa del silenzio) come la Chiesa cattolica e la salvezza di migliaia di ebrei? Certo, c’è. Ma è lo stesso silenzio che ha consentito la deportazione e lo sterminio di milioni di ebrei d’Europa. Era possibile parlare? Rispondono alcune voci che, in alcuni luoghi, hanno cambiato la Storia. Era pericoloso? Lo era. Ma era anche un ostacolo grave e imbarazzante, se è vero che le radici d’Europa sono - dunque erano - cristiane e cattoliche.
Infine: si ricorda un esempio, nella lunga storia cattolica di martiri e santi, di qualcuno portato all’onore degli altari per avere taciuto? Uno solo?

Pubblicato il: 15.10.08

il Sindaco va veloce

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Salerno, il sindaco va veloce ma il Pd arranca

Ninni Andriolo


Da Calatrava a Fuksas, da Bohigas a Chipperfield, da Jean Nouvel a Zaha Hadid. A Salerno non c’è «Palazzo Vecchio o il Colosseo», ma il sindaco non si scoraggia e guarda a Valencia o Barcellona. Firme di rilievo dell’architettura contemporanea per trasformare in stazione marittima i vecchi magazzini generali o lo scalo merci in cittadella giudiziaria. La fondarono in quattro questa città sdraiata sul Tirreno: un greco, un ebreo, un arabo e un latino. Ma quella è una leggenda antica. La storia di oggi, invece, porta il nome di Vincenzo De Luca, il sindaco che ha rifondato la città dopo alluvione e terremoto. Diciotto punti in più: i sondaggi dei mesi scorsi bissano il successo amministrativo del 2006. La «politica del fare» contrapposta a quella «politicante dei partiti». Del Pd, innanzitutto, il partito di cui De Luca è un po’ padre e un po’ padrone. Comproprietario, in realtà, per via delle quote suddivise tra ex diessini ed ex diellini. A Salerno il Pd ha raggiunto alle elezioni consensi maggiori di quelli nazionali. In provincia ha incassato meno. Ma i democratici ancora non decollano come forza organizzata: una cinquantina di circoli già formati a fronte di 158 comuni, 10.000 preiscrizioni, con il tesseramento tuttora bloccato. «I Ds contavano circa 120 sezioni – ricorda Alfredo D’Attorre, già segretario del partito di Fassino – Nel 2006 avevamo circa 13000 tesserati, insieme alla Sinistra giovanile». E oggi? «La decisione di sciogliere i vecchi partiti, senza che nessuno avesse idea di come organizzare concretamente il nuovo, è stata un errore - aggiunge - Occorreva qualche passaggio intermedio. C’è da dire, però, che oggi il Pd conta su un terzo dei voti. Un dato da cui ripartire con determinazione, ma il centro deve trasmettere l’idea di voler costruire un partito vero». D’Attorre, 35 anni, è tra i promotori di Red, l’associazione legata a Italianieuropei. «A Salerno e in campania Red avrà un profilo politico culturale, cercando di collegarsi al lavoro della Fondazione che ha aperto una sede a Napoli». Qui le «aree politiche» proliferano più che a Roma. Carmine Pinto, altro promotore di Red e docente di filosofia, racconta di gruppi dirigenti dei circoli nominati a tavolino, fotografando le percentuali provinciali di questo o quel raggruppamento e calandole giù fino a quartieri e comuni. Correnti, gruppi, fino “alle monadi”, fino ai piccoli “potentati”. Se al centro salta l’accordo, il parto del circolo si rinvia, in attesa di tempi migliori.
Manca «la sintesi» tra già diessini e già diellini? Per Alfonso Andria, ex popolare, ex presidente della Provincia, ex sfidante dell’attuale sindaco nel 2006, il problema «delle originarie appartenenze è superabile, se non già superato». Il ministro ombra Pd per l’Agricoltura punta il dito contro il «soffocamento del partito» a livello locale. E a De Luca, che parla di un «Pd di anime morte», Andria replica che «evidentemente c’è chi vuole così, c’è a chi conviene». C’è una giustapposizione «tra le istituzioni e il partito - aggiunge - E tutto questo provoca un blocco dello sviluppo organizzativo, che configge con i desideri della base». Ma Luca Lascaleia, ex Sinistra giovanile, vede positivo anche sulla possibile intesa tra il sindaco e i suoi critici più ostinati. «Il problema è riuscire a far dialogare tra loro istituzioni e partiti». Ma De Luca rifugge dalle discussioni «in politichese» che tengono occupato «chi non ha mai sentito l’odore del sudore della gente». Il sindaco prende le distanze dalle «mediazioni» «dalle trattative estenuanti», dal «perder tempo senza decidere». «Ho incontrato da sempre ostacoli e ostilità. Non da fuori, ma da dentro il partito – accusa - Nessuno ha avuto modo di riflettere su un quindicennio in cui io ho avuto ragione e torto il partito. Riesci a trasformare una realtà urbana e hai un consenso altissimo, una forza politica dovrà pur porsi il problema di riflettere sul suo rapporto con la gente». Ultima candidatura nel 2006 con i «riformisti per Salerno» - una lista con molti ds che sfidò il resto della coalizione - da quindici anni (un intervallo parlamentare, senza perdere d’occhio il suo Comune), De Luca vive la luna di miele con i salernitani. La sua popolarità cresce, come la “movida” che anima le notti in via Roma, o nel centro storico rimesso a nuovo. Immigrato a Salerno da un paesino della Lucania, il sindaco parla alla pancia della città popolana e moderata. E scaccia albanesi, rom, rumeni, senegalesi e prostitute. Ha fatto della sicurezza la sua bandiera, della caccia all’immigrato «che non rispetta la legge» un punto d’onore. Va bene la solidarietà, sottolinea, ma «l’insicurezza è un’emergenza e non si può continuare a fare i poeti». Loda il leghista Maroni, fa i turni di notte in giro per quartieri con i vigili urbani, perché «i primi a rischiare le coltellate sono loro», Sindaco «sceriffo»? A costo di finire in ospedale per i ceffoni di una squillo con foglio di via obbligatorio. «Populismo leghista in salsa salernitana», accusano gli anti-deluchiani che, cifre alla mano, negano che qui il problema più grave sia quello dell’immigrazione e puntano il dito contro un «seminar paura» che riproduce in «fotocopia» quello della destra berlusconiana. De Luca non se ne cura e va avanti per la sua strada. E trova perfino il tempo - novello «maestro Manzi» - di insegnare in tv i principi di una perfetta raccolta differenziata. Un venerdì dopo l’altro, in televisione: la «fatwa del sindaco», scherzano i collaboratori.
Ufficio a pochi metri dalla sala dei marmi dove Badoglio riuniva il suo governo, De Luca regna su Salerno come un tempo regnarono longobardi e normanni. «La fiducia nel cambiamento nasce soltanto dalla verifica del cambiamento - insiste, seduto in un bar, davanti al Duomo - Il tempo degli annunci è finito, Oggi è il momento dei bilanci. Non puoi più dire “faremo”, ma “abbiamo fatto”». Ex comunista di lungo corso, già riformista di scuola dalemiana, De Luca fece un passo indietro quando Bassolino, avversario di sempre, strinse legame con D’Alema. Oggi si definisce un pd “liberal-gobettiano”, un «deluchiano di ferro» che si schiera contro «le correnti». E che fa appello perché «sostengano tutti lo sforzo di semplificazione e di chiarimento programmatico avviato da Veltroni». Dal segretario, cioè, al quale De Luca oggi si ricollega.
I suoi lo vorrebbero alla presidenza della Campania. E la Salerno politica nota segnali di pace lanciati alla volta di Bassolino. Disponibilità alla candidatura? «Non faccio certo l’idraulico, chiaro che guardo con interesse alla Regione, Adesso, però, bisogna lavorare. Quando verrà il momento dirò sicuramente la mia». Non entra in gioco platealmente, Vincenzo De Luca. Si scalda a bordo campo e da lì cerca di capire se lo spazio c’è e se la squadra Pd lo farà segnare. Dovrà fare i conti con il resto del partito, e con la corsa per il dopo Bassolino già avviata da Luigi Nicolais.
Cosa ne pensano i democratici salernitani? Massimo Adinolfi, docente di filosofia a Cassino, spiega che «De Luca viene da una scuola politica capace di fare emergere dirigenti di primo piano. L’immagine positiva del sindaco è legata all’amministratore che sceglie e decide in tempi rapidi. Non all’uomo forte, ma alla macchina amministrativa che qui funziona bene». Per Adinolfi, tuttavia, «il problema è capire come sia possibile costruire un Pd capace di sfornare personalità a livello di De Luca, oggi, alle soglie del 2009». Accade, di converso, «che essendosi spappolati i partiti, rimangono soltanto le figure personali». L’efficienza amministrativa, poi, «non deve per forza di cose scolorire un certo orizzonte ideale». Nel Salernitano il Pd governa provincia, città capoluogo e un’ottantina di comuni. Ma Baronissi, lunga tradizione di sinistra, è un caso da manuale. Con il Pd diviso tra maggioranza (con An, Fi e Rifondazione) e opposizione.
A Pontecagnano, invece, il Pd è in minoranza. Lì si governava fino al 2007, poi il Pd è passato all’opposizione. Il circolo Pd in paese c’è e funziona pure. Popolari, diessini, socialisti, ambientalisti, donne, un ragazzo ex Prc, società civile: una mescolanza che piacerebbe dovunque in giro per l’Italia. «Abbiamo messo assieme esperienze diverse, ma oggi abbiamo una sola identità», spiega il segretario Enrico Ferrara. Si sono ritrovati in trenta sabato intorno al tavolo. Carla, 25 anni, racconta «orti di città», giardini gestiti dagli anziani nel parco geo-archeologico del Comune. «Pontecagnano è un esempio di come dovrebbe nascere il Pd dappertutto», sottolinea Michele Figliulo, segretario del Pd Salernitano. La tangenziale ci riporta a Salerno, al “bar goccia” dove ci attende Michele Grimaldi. «Le appartenenze ai gruppi sono più forti di quelle al partito», racconta l’ex Sg della segreteria Pd campana. A Salerno non si riesce «a esprimere una forza organizzata visibile», afferma. Poi, però, «basta attaccare un manifesto e la gente arriva, uno rompe il ghiaccio e si va avanti a discutere per ore». Le primarie? «Strumento ottimo per selezionare i candidati, ma non per il gruppo dirigente del partito che, altrimenti, tende a confondersi con le istituzioni». Si ripropone il nodo Pd-enti locali. «Le critiche ai primi cittadini? - si chiede Luigi Gravagnolo, sindaco Pd di Cava dei Tirreni - Non ci si rende conto che le amministrazioni sono una grande opportunità per i democratici e che, anzi, sono loro il partito nel territorio».

Pubblicato il: 15.10.08

mercoledì 1 ottobre 2008

p2p - nuova versione

http://www.repubblica.it/2007/09/sezioni/scienza_e_tecnologia/musica-digitale/sconfitta-major/sconfitta-major.html

Tutto da rifare per le case discografiche: Jammie Thomas, era stata sanzionata di 222mila dollari per violazione copyright

P2p, disoccupata batte le major non dovrà pagare la supermulta

Un giudice del Minnesota dà ragione alla donna

"Bisogna dimostrare che lo scambio sia avvenuto"

di ALESSANDRO LONGO

I DISCOGRAFICI americani hanno perso la causa più importante per la lotta al peer to peer e adesso per loro è tutto da rifare: Jammie Thomas, 30enne disoccupata che era stata condannata a pagare 222 mila dollari per violazione del copyright, non dovrà più farlo. L'ha deciso Michael Davis, giudice distrettuale del Minnesota, dov'è stato dibattuto il caso. Alla base della sentenza, un motivo che fa crollare il castello costruito finora per la lotta al peer to peer pirata: "Rendere disponibile" ("making available") un file su rete peer to peer - sostiene il giudice- non significa che quel file sia stato in effetti scaricato da altri e che quindi sia stato distribuito. È un reato distribuire il file protetto da copyright, non il semplice metterlo in condivisione (l'intenzione di reato non è perseguibile).

Tutto quanto significa che ora Riaa (l'Associazione discografici americani, che aveva denunciato la donna) avrà l'onere della prova: dovrà dimostrare che lo scambio di un file protetto da copyright è in effetti avvenuto. Non basta provare che l'utente l'ha condiviso su reti peer to peer. Per Jammie Thomas è una notizia di quelle che ti cambiano la vita: la donna, che si mantiene grazie agli assegni sociali, non aveva certo i mezzi per pagare la super multa (pari a 9.250 dollari per ogni file condiviso). Ma è anche una notizia che cambia lo scenario del confronto tra detentori di copyright e utenti di peer to peer. La sentenza è storica perché la multa a Jammie Thomas era il solo caso di vittoria dei detentori di copyright in un processo del peer to peer. La giurisprudenza, a riguardo, ricade così nell'incertezza. Riuscire a portare in tribunale la prova dello scambio può essere peraltro impresa molto difficile (se non impossibile). Prova dello scambio potrebbe essere memorizzata nel programma peer to peer utilizzato e ottenibile quindi con il sequestro del computer. Non tutti i programmi memorizzano questi dati, però, e comunque l'utente può fare in modo di cancellarli. I dati possono essere anche nel log (nel registro) del server utilizzato per lo scambio. Ed essere quindi ottenuti tramite il sequestro del server, cosa non facile però se è posto all'estero. Non è detto inoltre che il log ci sia e sia valido ai fini del processo (potrebbe aver registrato il traffico degli utenti in modo anonimo). Ci sono inoltre programmi peer to peer che permettono di scambiare file senza server di mezzo (per esempio eMule su rete Kad). "Non mi risulta che in Italia qualcuno sia stato mai condannato dopo un processo completo, per aver fatto peer to peer per scopi personali", dice Andrea Monti, avvocato tra i massimi esperti della questione. Molti hanno pagato la multa perché hanno patteggiato (da 51 a 2.065 euro, secondo la normativa italiana). Altri hanno subito un decreto penale di condanna (come capitato a settembre due utenti della rete peer to peer Direct Connect), a cui hanno poi rinunciato a opporsi. In entrambi i casi, però, si tratta di decisioni precedenti a un effettivo processo dibattuto. "Gli utenti hanno accettato di pagare perché affrontare un processo di questo tipo costa anche 20-30 mila euro tra spese legali e di consulenza. Molto più di quanto si rischi di multa se si patteggia", aggiunge Monti. Sarà anche per la difficoltà ad avere vittoria certa in un processo, che i detentori di copyright stanno provando diverse strade per la lotta al peer to peer. Per esempio, la via di far bloccare certi siti oppure di ottenere leggi che obblighino i provider a cancellare gli abbonamenti Internet degli utenti peer to peer. Anche queste sono però strade in salita: è stato appena sospeso il blocco a Pirate Bay; l'Europarlamento qualche giorno fa ha bocciato le politiche anti-peer to peer contenute nel pacchetto di riforma della normativa tlc e ispirate da alcune procedure ideate dal governo francese.

(30 settembre 2008)