sabato 10 maggio 2008

Ma gli USA meritano Obama?

Ma l'America merita Obama?
Suketu Metha
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Ma-lAmerica-merita-Obama/2024591&ref=hpsp


C'è un Paese che si è reso conto di non essere al di sopra della società delle Nazioni ma di farne parte

Da tempo credo che il resto del mondo debba avere lo stato giuridico di osservatore ufficiale del Congresso Usa. Le decisioni prese a Washington, infatti, possono avere un impatto nella vita degli abitanti di Paesi anche molto lontani maggiore di quelle prese nelle loro rispettive capitali. I pachistani, i venezuelani, i palestinesi, per esempio, per la loro stessa sopravvivenza sono obbligati a seguire da vicino il mutare e l'alternarsi delle maree della politica estera americana. A seconda di chi siede alla Casa Bianca, i giovani britannici o italiani saranno obbligati a recarsi all'estero ad ammazzare e a farsi ammazzare, oppure resteranno a casa loro a fare l'amore e a guadagnarsi di che vivere. Tutto ciò spiega l'enorme attenzione che in tutto il mondo destano le elezioni del presidente degli Stati Uniti: si tratta nello specifico delle elezioni più importanti della nostra epoca e non è così scontato che gli americani effettuino la scelta giusta. Dopo che nel 2000 la Corte Suprema assegnò a George W. Bush la vittoria, furono molte le richieste di convocare osservatori stranieri per monitorare da vicino lo svolgimento delle elezioni, come potrebbe accadere nello Zimbabwe.

Gli Stati Uniti sono effettivamente in crisi: stentano a rendersi conto che il XXI secolo non è di loro esclusiva proprietà, come è stato per il XX secolo. I loro studenti liceali si classificano agli ultimi posti dei rilevamenti internazionali sull'educazione e l'istruzione dei Paesi sviluppati. La metà dei liceali delle grandi città americane non consegue il diploma. Soltanto un terzo dei giovani è effettivamente in grado di frequentare l'università. Una buona parte dei giovani che abbandonano gli studi finisce in prigione: gli americani rappresentano il 5 per cento della popolazione terrestre, ma sono americani un quarto dei prigionieri di tutto il mondo. Cinquanta milioni di americani sono privi di copertura sanitaria, e vivono nel terrore di ammalarsi.


Nelle elezioni, queste questioni di cruciale importanza non ricevono tutta l'attenzione che meriterebbero da parte della stampa, specialmente della televisione, che è interessata a dettagli assolutamente banali, come sapere se Obama indossa la spillina con la bandiera Usa o se Clinton ha mentito sul fatto di essere scampata in Bosnia ai cecchini. Eppure, la portata dell'emergenza nella quale vive il Paese l'avvertono gli americani sulla loro pelle, quando perdono le loro case, vedono svanire nel nulla i loro risparmi, restano impantanati in una guerra che nessuno sarà in grado di vincere in un immediato futuro. L'81 per cento degli americani crede che il loro Paese sia sulla rotta sbagliata e il presidente in carica ha raggiunto il più basso indice di gradimento della storia.

Barack Obama afferma che l'America ha ancora qualche possibilità. Il suo discorso sul problema razziale intitolato 'Verso un'unione più perfetta' non ha precedenti in fatto di irreprensibilità, franchezza e complessità. Quale altro politico americano ha mai citato uno scrittore in un discorso elettorale? Obama ha ricordato Faulkner: "Il passato non è morto e sepolto. Di fatto non è nemmeno passato". Questo è un livello di raffinatezza al quale gli americani non sono abituati nei discorsi elettorali dei candidati. Non stupisce, pertanto, che Obama sia spesso definito un 'elitista'. In buona parte del Paese prevale un dilagante anti-intellettualismo. Esempio celebre di questo anti-intellettualismo fu un discorso di un senatore del Nebraska, Roman Hruska, nel 1970. Cercando di sostenere che un giudice reputato palesemente mediocre dovesse essere nondimeno nominato per la Corte Suprema disse: "Che importa se è mediocre? Ci sono moltissimi giudici, moltissime persone e moltissimi avvocati mediocri. non hanno anche loro il diritto ad avere una piccola rappresentanza?".

Il modo in cui Hillary Clinton ha gestito la sua campagna elettorale ha sconcertato più d'uno di coloro che avrebbero potuto appoggiarla. La sua minaccia di "annientare" l'Iran qualora Teheran decidesse di attaccare Israele ha fatto sì che la gente si chiedesse se è poi tanto diversa da George Bush. Da molti punti di vista, Hillary è sicuramente meglio di Obama, ad esempio per il fatto di essere propensa a estendere a tutti l'assistenza sanitaria, una scelta logica per un Paese che si ripropone di essere considerato civile.

Ma un'eventuale elezione di Obama alla presidenza non ha molto a che vedere con la politica, quanto piuttosto con un'idea di America, quell'America multi-razziale, quella meraviglia composita e multiforme di colori e sfumature di pelle che si vede circolare per le strade di New York. Obama è un candidato nato da madre bianca del Kansas, da padre nero del Kenya, con un patrigno musulmano indonesiano, che non solo ha viaggiato molto, ma ha anche vissuto all'estero. Obama rappresenta l'America che si è finalmente resa conto di non essere al di sopra della comunità delle nazioni, ma di farne parte.

In definitiva, la questione non è se Obama meriti o meno la vittoria, ma se l'America si meriti un presidente del calibro di Obama, se i suoi elettori siano abbastanza colti e raffinati da eleggerlo. Questa elezione è troppo importante, per l'America e per il mondo intero, perché a decidere siano i mediocri.

traduzione di Anna Bissanti

venerdì 2 maggio 2008

Se lo stato sociale diventa un nemico


Repubblica — 24 aprile 2008 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA
- NADIA URBINATI

Le analisi via via più puntuali dei risultati elettorali dimostrano che operai e casalinghe hanno votato per il partito più radicale e populista della coalizione di centrodestra, premiando un messaggio a un tempo liberista e razzista. E nemmeno a tener fuori prodotti e manovalanza a basso costo; e infine e soprattutto lo stato sociale che con le sue politiche dei servizi sociali è reso colpevole di debilitare la solidarietà locale e le reti comunitarie di sostegno ai bisognosi. Il messaggio che viene dalla cascata di voti rastrellati dalla Lega Nord anche in regioni di consolidata tradizione socialdemocratica come l' Emilia-Romagna, sarebbe dunque questo: il mercato deve riportare lo stato alla sua vocazione originaria, quella che aveva prima della formazione dello stato-nazione e della conversione bismarkiana dei governi europei; deve tornare ad essere un sistema coercitivo che si occupa esclusivamente di difendere diritti civili di base e che investe le proprie risorse nella sicurezza dei cittadini e nella difesa delle frontiere. Lo stato non deve più occuparsi di giustizia sociale e di ridistribuzione della ricchezza tra i "figli uguali della nazione", come èstato costretto a fare negli anni della ricostruzione del dopo guerra. Non deve più essere ostaggio delle illusioni socialdemocratiche per la ragione assai semplice che non c' è alcun problema di ingiustizia sociale a cui rimediare, ma solo la sfortuna e la disgrazia del bisogno: piaghe fatali che l' umanità ha ereditato dalla caduta di Adamo ed Eva e che la carità del buon samaritano può curare molto più umanamente di uno stato dispensatore di servizi di cittadinanza. Questa è la lezione filosofica che ci viene dalle recenti elezioni. Comunitarismo e liberismo sono naturalmente alleati, soprattutto quando, come in questo scorcio di modernità, le coordinate tradizionali della politica (gli stati nazione) non sono in grado di far fronte ai rischi e alle sfide della mondializzazione. Ma contrariamente ai vaticini dei filosofi d' occasione, Marx aveva visto giusto. Il suo Manifesto è l' earthlink del nostro tempo, una lente che zumma dal pianeta alle sue periferie e viceversa, dandoci immagini nitide di come siamo. Ci fa vedere come l' integrazione globale dei mercati stia insieme a un ricompattamento comunitario locale; come l' espansione a macchia d' olio delle metropoli si affianchi a periferie selettive e chiuse (i sobborghi americani creati ex novo e protetti come cittadelle medievali, con cancelli, guardiani e visti d' ingresso); come la diffusione planetaria di una cultura di massa e di una lingua (quella inglese) si integri alla rinascita di linguaggi e culture locali, spesso permeabili solo a chi li pratica quotidianamente (come molti cartelli stradali nei villaggi e nelle campagne del Nord-Est). In questa schizofrenia le solidarietà trasversali, per intenderci quella cultura etica universalista sulla quale la "classe operaia" aveva definito la propria identità e lo stato sociale le proprie politiche di giustizia, appaiono inattuali, inefficaci, e perfino tirannici. La libertà contro lo stato sociale (non contro lo stato gendarme) è la sola forte libertà che le destre liberiste-comunitarie esaltano e vogliono proteggere. Se le questioni sociali sono questioni di povertà e carità volontaria non più di giustizia sociale, la classe operaia non ha più senso di esistere. Essa non è altro che una fascia di basso reddito misurata dalle statistiche, l' insieme delle famiglie povere o a rischio di povertà, gente (non classe) che arranca a fine mese su bollette e debiti, che si ciba a costo quasi zero della cultura pop-global televisiva, che si sente pericolosamente tallonata dall' immigrato low-cost e si fa razzista. Si fa alleata di quegli imprenditori che vogliono le frontiere chiuse ai beni cinesi e indiani. Una prova di questa trasformazione ci viene ancora una volta dagli Stati Uniti, che per la loro enorme geografia sono stati a buon diritto un laboratorio del globale-locale fin dai primi del Novecento; qui la classe operaia non è mai riuscita a costruire una solidarietà universale-nazionale proprio perché l' immigrazione permanente ha reso impossibile conquistare e difendere regole e diritti sociali a protezione dei lavoratori. Il mercato del lavoro come uno stato di natura dove il vicino è un potenziale nemico, non un alleato di classe. Dunque, una storia globale, non italiana. Una storia globale che mostra però i propri effetti laddove le persone vivono: nelle città e nei paesi, non nel generico globo. La politica dei "muri" che la caduta del muro di Berlino ha generato esemplifica molto bene questa storia. Muri sono in costruzioni in molti luoghi del mondo: per dividere stati e popoli, ma anche quartieri di una stessa città come a Padova, dove gli italiani hanno in questo modo cercato di "proteggere e separare" se stessi dai vicini residenti di origine extra-Europea. Se il muro di Berlino doveva bloccare il diritto di uscita ai sudditi della Germania comunista, questi nuovi muri protezionistici dovrebbero ostruire l' entrata ai migranti o rendere la loro vicinanza invisibile o meno visibile. I muri anti-immigrazione, come quello spettacolare che la California ha costruito sui confini con il Messico, sono un modo molto concreto per dire che coloro che li innalzano pensano che potranno preservare i loro piccoli e grandi privilegi se e fino a quando solo loro ne godranno. Mettono in evidenza una delle più stridenti contraddizioni che affliggono le nostre affluenti società democratiche: quella tra una cultura raffinata che condivide valori universalistici e cosmopolitici e che resta comunque una minoranza (spesso snob), e una diffusa cultura popolare che mentre si appaga del consumismo globale è atterrita dalla globalizzazione, teme fortemente l' incertezza economica e sviluppa un attaccamento parossistico ad un benessere che appare sempre più risicato, fragile e temporaneo. Come si legge nel troppo poco letto Manifesto di Marx, alla crescita inarrestabile di un' uniformità globale si affianca la crescita di un' evidente resistenza del locale: nascono nuovi nazionalismi, il razzismo, la nostalgia per comunità pre-moderne come il borgo e le chiese. E a questi parossismi una parte dell' impresa capitalistica (quella piccola e media) ha un naturale interesse ad allearsi perché il mercato globale è una bestia selvaggia contro la quale trova altro rimedio se non il vecchio stato poliziotto. La classe operaia è un anacronismo, dunque, ma non perché non c' è più diseguaglianza di potere e c' è comunanza di interessi, ma perché questa diseguaglianza è stata tradotta in termini morali e apocalittici: una questione di sfortuna, di migrazioni bibliche, di scenari finanziari in permanente rischio di crollo. In questo panorama, il linguaggio della politica e del riformismo appare inefficace e fuori posto mentre quello populista avvince e unisce. Eppure, gli esseri umani non dispongono che di ragione pubblica e linguaggio politico per governare le loro società in modi civili e senza rinunciare a limitare le ragioni di sofferenza e dare a tutti la possibilità di vivere con umana decenza e dignità. - NADIA URBINATI