martedì 9 giugno 2009

Viaggio dentro le FARC

http://altronline.it/node/282

Intere generazioni di colombiani hanno conosciuto solo la guerra, di cui è ancora più difficile ottenere un bilancio preciso; si parla di almeno 300.000 morti, ma sono numeri che cambiano ogni giorno
Libertà! giustizia sociale! nuovo potere! E' il grido che si leva dal piccolo villaggio di Marquetalia, sulle montagne del Tolima, il 27 maggio 1964, destinato a riecheggiare a lungo nel paese andino.Quel giorno, narra la leggenda eroica della guerriglia, 48 «campesinos» sono costretti a imbracciare le armi contro 16.000 soldati dispiegati nell’ambito del Plan Laso (Latin American Security Operation), strategia messa a punto dai vertici colombiani e dai consiglieri militari statunitensi nel quadro dei rigori della Dottrina della sicurezza nazionale per impedire che la rivoluzione cubana del 1959 si diffonda in altri Paesi latinoamericani.L’attacco fallisce per la resistenza di quel manipolo di contadini agguerriti guidati da Manuel Tirofijo (che non sbaglia un colpo) Marulanda Vélez che avrebbero dato vita alle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), poi Farc-Ep (Esercito del popolo), la formazione guerrigliera più longeva dell’America Latina.Oggi, 45 anni dopo, di Marquetalia non resta quasi nulla, solo qualche casupola abitata da altri campesinos che sopravvivono con pochi mezzi, raggiungibile dopo molte ore di marcia; qualche vecchio si ricorda di Tirofijo, classe 1932, morto un anno fa per infarto, «un uomo di poche parole, cattivo con i cattivi, giusto con i buoni».Eppure la guerra continua, nonostante il presidente Alvaro Uribe si rifiuti di definirla tale, centinaia di migliaia di civili – fra i 3 e i 4 milioni, sommando le stime dell’Onu e delle organizzazioni a difesa dei diritti umani colombiane, protagonisti dimenticati della più grave crisi umanitaria dell’Occidente – sono costretti a lasciare le loro case per la furia della violenza, confluendo nella massa dei desplazados (sfollati) che cresce ogni giorno e per cui il futuro si prospetta in una vita di stenti e abbandono nelle cinture periferiche dei grandi centri urbani.Intere generazioni di colombiani hanno conosciuto solo la guerra, di cui è ancora più difficile ottenere un bilancio preciso; si parla di almeno 300.000 morti, ma sono numeri che cambiano ogni giorno nell’unico paese ancora insanguinato da un conflitto interno in un'America Latina pacificata e sempre più orientata a sinistra.«La guerra nasce perché lo Stato non riesce ad ascoltare e a dare risposte al grido di aiuto che viene dalla gente: ecco perché è la gente che da sola cerca di trovare una soluzione ai suoi problemi, a quello della terra, dell’esclusione sociale, soprattutto per gli indigeni e gli afro-colombiani, dell’impossibilità di partecipare alla vita politica» ci dice un operatore umanitario colombiano, costretto a rimanere anonimo per ragioni di sicurezza; ha 45 anni e non sa cosa sia la pace, ma, aggiunge, «non c’è un solo colombiano che non l’abbia vissuta sulla propria pelle, che non abbia avuto un parente o un amico sequestrato, ucciso, ferito o desplazado».La guerra, dice ancora il nostro interlocutore, «non finirà in tempi brevi perché nasce e si alimenta su un’ingiustizia strutturale.

Se non si andranno realmente ad esaminare i problemi alle radici, provando solamente tra molte difficoltà di controllarne i frutti, non c’è speranza, siamo tutti perdenti».A 45 anni da Marquetalia, le Farc attraversano forse il momento più critico della loro storia: nonostante i proclami e le rivendicazioni - «Siamo la risposta armata degli sfruttati e dei giusti alla violenza dello Stato» scrivono nel comunicato diffuso in occasione dell’anniversario della loro formazione - col passare del tempo il loro manifesto politico sembra essere sopravvissuto solo sulla carta, tra diatribe interne, sequestri e narcotraffico. Nel 2008 hanno perso tre dei sette membri del Segretariato, il loro comando centrale, oltre a Marulanda anche Raúl Reyes, il numero 2 ucciso nel bombardamento del 1° marzo contro un accampamento della guerriglia in territorio ecuadoriano (che ha causato la rottura delle relazioni diplomatiche con Quito), e Ivan Ríos, assassinato dalla sua guardia del corpo. Tra catture e diserzioni, amplificate dalla stampa governativa, hanno subito l’umiliante sconfitta della cosiddetta Operazione Scacco, degna di un confuso film d’azione in cui non tutte le sequenze risultano limpide allo spettatore, con cui il governo ha liberato il loro ostaggio più famoso, l’ex-candidata alla presidenza franco-colombiana Ingrid Betancourt, ma decine restano ancora prigionieri. Sta di fatto che nessuna offensiva militare, dall’antica Centauro alle più recenti e sofisticate Plan Colombia o Plan Patriota nonostante i generosi contributi finanziari e militari della Casa Bianca al suo più stretto alleato latinoamericano è riuscita finora a decretarne la fine.Così come sono falliti tutti i tentativi di negoziare la pace, dalle trattative volute dal Belisario Betancourt alla metà degli anni ‘80 fino alle ultime del 2002 con Andres Pastrana. Intanto, imboscate e attentati dinamitardi non si fermano – con tre auto-bomba nei primi mesi dell’anno sono stati almeno 10 i morti e decine i feriti attribuiti alle Farc a Bogotá, Cali e Neiva, mentre a marzo l’attacco a un acquedotto a Villavicencio ha lasciato per una settimana senza acqua potabile 300.000 persone – e finanche il nuovo alto commissario per la pace del governo, Frank Pearl, nonostante la ‘vittoria’ sia stata ripetutamente annunciata, ha di recente ammesso che la fine della guerra non è certo vicina; “Occorreranno almeno 15 o 20 anni – ha detto a maggio - incluso un buon percorso di riconciliazione”. Ma oggi sono in molti a chiedersi: che prospettive possono esserci per la pace in un paese guidato da un presidente il cui padre fu ucciso dalle Farc e che fu accolto all’inaugurazione del suo mandato nel 2002 dal pubblico apprezzamento di Salvatore Mancuso, comandante dei feroci paramilitari delle Autodifese unite della Colombia (Auc)? Che, accusato in un rapporto declassificato della ‘Defense Intelligence Agency’ americana di strette relazioni con il defunto capo del cartello della droga di Medellín, Pablo Escobar, ha privilegiato finora l’opzione militare con la sua cosiddetta ‘politica di sicurezza democratica’, senza riuscire ad archiviare il conflitto? Travolto da una serie di scandali – dal clamoroso caso della ‘para-politica’ che sta portando alla luce del sole collusioni stranote tra decine di esponenti della maggioranza e gli squadroni della morte paramilitari di estrema destra, all’inchiesta sulle mazzette pagate ad alcuni ex-deputati nel 2004 per approvare la riforma costituzionale che gli consentì di ricandidarsi per un secondo mandato consecutivo nel 2006? E che ora punta anche al terzo attraverso un referendum popolare? Esecuzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture, detenzioni illegali, fosse comuni, bambini-soldato, spostamenti forzati di civili per violenza o interessi economici, omicidi di sindacalisti e difensori dei diritti umani sono all’ordine del giorno, hanno tuonato di fronte al Consiglio dei diritti umani dell’Onu decine di organizzazioni non governative (ong) e organismi internazionali, denunciando, dati alla mano, che «solo tra il 2002 e il 2007 – durante il governo Uribe - 13.634 persone sono morte per la violenza socio-politica (non si contano i morti in combattimento); il 75,4% (8049 casi) delle vittime è responsabilità dello stato, in modo diretto o indiretto, attraverso gruppi di paramilitari di estrema destra». La mano dura di Uribe finora non è servita, degenerando in altri scandali come quello dei "falsi positivi" , ma neanche la politica della guerriglia ha dato risultati.
Frida Boni - Bogotà

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