mercoledì 17 giugno 2009

Se i cinesi si ribellano

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/se-i-cinesi-si-ribellano/2101520&ref=hpsp

Se i cinesi si ribellano
di Minxin Pei
Venti milioni di disoccupati. Due o tre milioni di neo laureati senza lavoro. Il governo si prepara a fronteggiare la protesta. Con la politica del bastone e della carota

Fino a non molto tempo fa, la sola idea che l'economia più dinamica del mondo, quella cinese, fosse duramente colpita dall'attuale crisi economica globale appariva quasi ridicola. L'opinione più diffusa era che la Cina potesse contare su potenti motori economici interni, quali l'urbanizzazione e gli investimenti di tipo infrastrutturale e che il rallentamento dell'economia globale non l'avrebbe intaccata.
Di fronte a una contrazione della crescita cinese dal 13 per cento del 2007 ai 6 o 8 punti percentuali previsti per il 2009, il sentimento riguardo alla Cina è cambiato drammaticamente. I pessimisti temono che una recessione mondiale prolungata, oltre a condurre alla stagnazione economica, crei le condizioni per tumulti sociali e ricordano la minaccia della disoccupazione.
Sono più di 20 milioni i lavoratori migranti, impiegati per la maggior parte nell'edilizia e nelle industrie della filiera delle esportazioni, che hanno già perso il lavoro. A questi si aggiungono i circa 2 o 3 milioni di nuovi laureati che quest'anno non troveranno occupazione. Ne risulta che anche se la Cina riuscirà a crescere nel 2009 al ritmo dell'8 per cento, i posti di lavoro creati saranno solo 7 milioni, vale a dire, che per le persone in cerca di prima occupazione ci sarà un posto di lavoro per una sola su tre.
La Cina va verso una esplosione politica? Non necessariamente. È ovvio che la disoccupazione di massa farà pagare un prezzo spaventoso ai più sfortunati, tra cui i lavoratori migranti, e che, dato che i loro salari rappresentano il 40 per cento del reddito nelle campagne, essa aggraverà anche la povertà rurale. La criminalità è quindi destinata a crescere perché i lavoratori disoccupati, che non sono protetti da alcuna rete sociale, potrebbero essere spinti ad agire in maniera disperata per sopravvivere.

Anche la protesta politica potrebbe montare in quanto i lavoratori disoccupati attribuiranno la colpa della loro disperata condizione al governo cinese. Tuttavia, una intensificazione dell'agitazione sociale non deve necessariamente sfociare in tumulti a livello nazionale.
Diversamente da altri paesi in via di sviluppo, la Cina conta su forze di sicurezza tra le più numerose e meglio addestrate del mondo. Inoltre, avendo dovuto controllare fin dalla metà degli anni Novanta decine di migliaia di proteste e di ribellioni locali ogni anno, il Partito comunista al potere ha anche accumulato una notevole esperienza nel gestire la ribellione sociale a livello locale. Ancora più determinante è forse il fatto che il malcontento economico è più semplice da affrontare rispetto ai movimenti antiregime d'ispirazione politica. Il governo cinese ha ovviamente imparato queste lezioni cruciali e sviluppato conseguentemente una serie di sofisticati metodi per gestire le proteste motivate dalle condizioni economiche e, solitamente, per calmare i subbugli sociali impiega una combinazione di bastone e carota.
A tutto ciò si aggiunge un altro dato importante: l'enorme territorio cinese rende molto difficile organizzare movimenti sociali contro il regime a livello interregionale, anche quando le persone coinvolte nella frustrazione e nella rabbia sono decine di milioni. Delle circa 100 mila rivolte antigovernative o manifestazioni che hanno avuto luogo negli ultimi anni, nessuna è travalicata nella contea o nel distretto confinante. I tumulti sociali in Cina hanno dunque un effetto destabilizzante limitato.
Curiosamente, benché il governo cinese abbia registrato finora un notevole successo nel mantenere l'ordine, ora lo spettro della disoccupazione di massa sembra averlo innervosito. Forse Pechino si sta posizionando per essere in grado di giustificare le dure misure che potrebbe adottare per piegare la protesta.
Oppure, è anche possibile che i dirigenti cinesi siano semplicemente troppo paranoici. Tenuto conto del fatto che il Partito comunista non mette mai a rischio la propria sopravvivenza, una tale paranoia è comprensibile. Tuttavia sarebbe sciocco confondere la paranoia e i discorsi con la realtà.
traduzione di Guiomar Parada
(12 giugno 2009)

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