sabato 19 settembre 2009

In Honduras il cambio di Obama stenta ad arrivare

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Dopo l’iniziale condanna, la posizione degli Usa sul golpe nel Paese centroamericano sembra essersi ammorbidita. Fra i Repubblicani cresce la mentalità da “guerra fredda regionale”. Le insidie per la Casa Bianca. Perché è stato deposto Zelaya.


Un golpe in America Latina non è certo una novità, anche se quella stagione si credeva chiusa; ciononostante il colpo di Stato honduregno è particolare per almeno due motivi: il ruolo dei militari, - i cui vertici sono stati addestrati alla tristemente famosa Scuola delle Americhe - che non hanno preso in mano il potere esecutivo, e il profilo politico del deposto presidente. Zelaya, figlio di un facoltoso agricoltore accusato dell'omicidio di militanti di sinistra, era stato eletto nel 2005 come candidato del Partito Liberale; dopo un anno al governo si era avvicinato a Chávez, accettandone il petrolio sovvenzionato ed entrando nell'Alba.

Populista e rivoluzionario a parole, nei fatti incapace di ridurre la violenza e la corruzione, il capo di Stato aveva promosso riforme minori ma gradite alle classi medio-basse, come l'aumento del salario minimo, in un Paese in cui più del 50% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Questi provvedimenti hanno spaventato l'oligarchia honduregna, che ha visto nella consultazione popolare l'inizio di un processo di cambio politico ed economico a lei sfavorevole.

Il governo del Paese è stato affidato al presidente della Camera Roberto Micheletti, trovatosi da subito isolato a livello internazionale: nessuno Stato ha riconosciuto la sua giunta, e il golpe è stato condannato, oltre che dagli Usa, da Onu, Oas (che ha sospeso la membership dell'Honduras) e Unione Europea, che insieme a Fmi, Banca Mondiale e banche regionali ha congelato prestiti e donazioni. Il presidente del Costa Rica Arías ha elaborato un piano di mediazione che garantirebbe il ritorno di Zelaya alla presidenza fino al termine del mandato in cambio dell'amnistia per i crimini politici commessi da giugno in poi, la formazione di un governo di unità nazionale e le elezioni anticipate. La Corte Suprema e Micheletti hanno però respinto il cosiddetto Accordo di San Josè.

Più di due mesi dopo, la situazione è in fase di stallo: il governo Micheletti è privo di riconoscimento internazionale ma ancora in piedi, mentre Zelaya è attualmente in esilio in Nicaragua e le violazioni dei diritti umani si moltiplicano.

Al termine di un incontro col presidente
deposto, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha annunciato il taglio di circa 30 milioni di fondi per l'Honduras (rimane in vigore solo l'assistenza umanitaria) e la revoca del visto per alcuni protagonisti del golpe. Foggy Bottom ha inoltre aggiunto che al momento non potrebbe riconoscere il risultato delle elezioni previste per novembre.

Il colpo di Stato non è però ancora ufficialmente considerato “militare” da Washington.

La questione non è puramente lessicale: il Foreign Assistance Act proibisce agli Stati Uniti di destinare aiuti “al governo di qualsiasi paese il cui capo di governo eletto sia stato rovesciato da un colpo di stato o da un decreto militare”. Nel caso di Tegucigalpa, sono in ballo fra l'altro 139 milioni di dollari della U.S. Millennium Change Corporation, che avendone già stanziati 76 ne ha bloccati 11 e ha annunciato che continuerà soltanto le attività previste da contratti già stipulati - il cui ammontare non è stato specificato.

In occasione dei golpe in
Mauritania e Madagascar Washington aveva interrotto rapidamente il flusso di aiuti; sospendere il commercio bilaterale strozzerebbe l'economia dell'Honduras, che destina agli Usa il 70% del suo export, mettendone in crisi la giunta illegittimamente al governo. Ma a più di due mesi dalla deposizione di Zelaya decisioni di questo tipo non sembrano prossime.

A ostacolarle ci sono interessi economici e politici: alcuni sono riconducibili a vecchie conoscenze repubblicane come Otto Reich, già al governo con Regan e i Bush, consulente di McCain per l'America Latina durante la campagna del 2008 e lobbista per il colosso delle telecomunicazioni AT&T – che certo non ama un oppositore delle privatizzazioni come Zelaya. Altri sono rappresentati da Lanny Davis, avvocato del presidente Clinton ai tempi dell'impeachment, che ora fa lobbying per il ramo honduregno Business Council of Latin America, l'equivalente della Camera di commercio.

Anche organi gestiti o finanziati dal governo o dal Congresso come Usaid (che ha congelato l'impiego di 2 milioni di dollari), l'International Republican Institute e il National Endowment for Democracy (Ned) – già protagonisti di interferenze negli affari interni di alcuni paesi latinoamericani - operano in Honduras. Una mozione di conservatori cubano-americani ha tentato senza successo di spostare 15 milioni di dollari dall'Organizzazione degli Stati americani (accusata di essere a disposizione di Chávez) al Ned. È spuntato fuori anche un reduce del tentato golpe venezuelano del 2002, Robert Carmona, oggi teoricamente dedito alla lotta alla corruzione tramite la fondazione Arcadia.

Oltre alle pressioni del mondo imprenditoriale, decisamente non a suo agio con Zelaya, i Repubblicani sono sensibili anche a considerazioni di politica interna ed internazionale: la notizia del taglio totale degli aiuti all'Honduras avrebbe una ricaduta positiva sull'immagine di Obama, proprio in un momento in cui, per via del difficile iter della riforma sanitaria, la sua popolarità è per la prima volta in calo. Naturale che il Gop non voglia fare al Presidente un tale regalo durante una battaglia così importante come quella per la sanità.

Nel partito di Lincoln pare inoltre rafforzarsi una mentalità da “guerra fredda regionale”: al tradizionale anti-castrismo dei rappresentanti degli Stati del sud si è affiancato negli ultimi anni l'anti-chavismo, alimentato dalla massiccia emigrazione di oppositori del presidente venezuelano, soprattutto in Florida. A giudicare dall'andamento della crisi honduregna, il leader bolivariano viene considerato molto seriamente, visto che molti Repubblicani preferiscono addirittura un governo frutto di un golpe ad un presidente democraticamente eletto ma alleato di Chávez. Nel ventennale della caduta del Muro di Berlino sembrano dunque tornati i tempi di Nixon o Reagan. A fare le veci dell'orso sovietico, un Paese dei Caraibi che dipende proprio dagli Usa per raffinare il petrolio, sua unica arma geopolitica.

L'impasse sulla crisi in Honduras ha per Obama due consequenze negative: innanzitutto sta bloccando al Congresso la nomina di Arturo Valenzuela a sottosegretario per gli affari emisferici e di Tom Shannon ad ambasciatore in Brasile. Inoltre sta dando adito alle critiche di chi accusa la Casa Bianca di disinteressarsi al rispetto della democrazia e dei diritti umani in America Latina; un bizzarro capovolgimento del destino, come ha notato anche il Presidente: “le stesse persone che si lamentavano delle interferenze Usa in America Latina oggi si lamentano perchè non interferiamo abbastanza”, ha dichiarato in agosto.

Per quanto potessero essere stretti i legami fra Tegucigalpa e Caracas, gli Stati Uniti non sono secondi a nessuno per influenza sull'Honduras, sia diretta (primo partner commerciale, presenza di una base militare con 600 soldati) sia indiretta (tramite Onu, Oas, e istituzioni di Bretton Woods). Il futuro della giunta Micheletti e del paese intero passa quindi per Washington. Il futuro politico di Obama non dipende certo dal paese centroamericano, ma una risposta ancora più netta al golpe di fine giugno dimostrerebbe all'America Latina e alla sinistra statunitense che alla Casa Bianca è davvero arrivato un change you can believe in.

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