domenica 5 luglio 2009

Il tramonto della democrazia

http://www.globalproject.info/it/mondi/Il-tramonto-della-democrazia/192
di Arundhaty Roy
La scrittrice indiana parla dell'India

Le contraddizioni di un enorme paese
14 / 5 / 2009

Settecento milioni di indiani eleggono il nuovo parlamento. È un voto che fa comodo alle multinazionali, ai mercanti di armi e agli estremisti politici e religiosi.Ma che non serve al paese e alla democrazia, scrive Arundhati RoyPoiché ci chiediamo ancora se ci sia vita dopo la morte, possiamo farci anche un’altra domanda: c’è vita dopo la democrazia? E che vita sarà?Con “democrazia” non intendo un regime astratto e ideale a cui aspirare. Mi riferisco al modello più diffuso: la democrazia liberale occidentale con le sue varianti, prese così come sono.E allora, c’è vita dopo la democrazia?Quando cerchiamo di rispondere a questa domanda, spesso paragoniamo i diversi sistemi di governo per concludere con una difesa piccata e anche un po’ aggressiva della democrazia. Ha i suoi difetti, diciamo di solito. Non è perfetta, ma è meglio degli altri sistemi a disposizione.Inevitabilmente, qualcuno chiederà: “Afghanistan, Pakistan, Arabia Saudita, Somalia... Preferireste questi sistemi?”.Se la democrazia sia un ideale a cui devono tendere tutte le società “in via di sviluppo” è un’altra questione (io penso di sì, e la fase iniziale, ancora piena di ideali, può essere davvero inebriante). La domanda sulla vita dopo la democrazia va rivolta a chi di noi vive già in una democrazia, o in paesi che fingono di essere democratici. Non voglio suggerire un ritorno a modelli passati e ormai screditati di governo totalitario o autoritario. Ma penso che sia il nostro ideale di democrazia, e non la nostra economia, ad avere bisogno di un po’ di adeguamenti strutturali.Il punto è capire cosa abbiamo fatto della democrazia. In cosa l’abbiamo trasformata?Che succede una volta che è stata svuotata e privata di senso? Cosa succede quando ognuna delle sue istituzioni è diventata metastasi fino a trasformarsi in un’entità maligna e pericolosa?Cosa succede ora che democrazia e capitalismo si sono fusi in un unico organismo predatorio, dall’immaginazione limitata e incentrata quasi esclusivamentesull’idea della massimizzazione dei profitti?È possibile invertire questo processo?Quello che serve oggi, per salvare il pianeta, è un progetto a lungo termine.Lo possono offrire i governi democratici, che sopravvivono solo grazie allo sfruttamento delle risorse? È possibile che la democrazia si riveli un boomerang per il genere umano? Se la democrazia ha tanto successo probabilmente è perché condivide con l’umanità il suo più grosso difetto: la miopia.La nostra incapacità di vivere nel presente e al tempo stesso di guardare in avanti, ci rende strani esseri “di mezzo”, né bestie né profeti. La nostra intelligenza sembra averci privato dell’istinto di sopravvivenza.Saccheggiamo la Terra sperando di accumulare surplus materiali che compensino tutto quello che di profondo e indicibile abbiamo perso.Sarebbe presuntuoso dire di avere le risposte anche a una sola di queste domande.Ma è possibile dimostrare, in modo piuttosto dettagliato, che la luce del faro sta diventando sempre più debole e che forse non possiamo più contare sulla democrazia perché ci garantisca giustizia e stabilità. Basta osservare come funziona la democrazia più grande del mondo.Come scrittrice mi chiedo spesso se lo sforzo di essere sempre precisa, di fornire dati corretti, non sminuisca in qualche modo la portata storica dei fatti. E magari finisca per mascherare una verità più ampia. Temo di cadere in una prosaica descrizione della realtà, mentre servirebbero un urlo selvaggio e ferino o la forza trasformatrice e l’esattezza autentica della poesia.C’è qualcosa di astuto, braminico, contorto, burocratico, classificatorio, nel rapporto tra potere e sottomissione in India, qualcosa che si riassume nell’obbligo di “inoltrare richieste attraverso gli appositi canali”. E questo ci rende tutti guardinghi come impiegatucci. A mia discolpa posso dire che servono strumenti bizzarri per farsi largo nel labirinto di sotterfugi e ipocrisia dietro cui si nasconde l’inimmaginabile insensibilità e brutalità della nuova superpotenza più amata del mondo. La repressione “attraverso gli appositi canali” crea una resistenza che passa “attraverso gli appositi canali”. Come resistenza non basta, lo so. Ma per ora non ho altro. Forse un giorno ne usciranno la poesia e l’urlo ferino.
Sulle montagne afghaneHo scritto Ascoltare le cavallette (Internazionale758) in occasione di una conferenza che ho tenuto a Istanbul nel gennaio del 2008, per il primo anniversario dell’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink. Il mio intervento era dedicato alla storia del genocidio armeno e alla sua negazione, oltre che alla relazione storica, quasi organica, tra “progresso” e genocidio. Mi ha sempre colpito il fatto che il partito politico turco responsabile del genocidio degli armeni si chiamasse Comitato per l’unione e il progresso. Molti miei articoli parlano proprio del rapporto tra unione e progresso, cioè, per usare un linguaggio più attuale, tra nazionalismo e sviluppo: le inattaccabili torri gemelle della moderna democrazia del libero mercato.Anche se molti di questi articoli li ho scritti tra il 2002 e il 2008, il loro punto di partenza risale al 1989, quando sulle aspre montagne dell’Afghanistan il capitalismo vinse la sua lunga jihad contro il comunismo sovietico (da allora, la ruota ha ricominciato a girare, e sembra proprio che quelle stesse montagne stiano per diventare la tomba del capitalismo).Pochi mesi dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del muro di Berlino, il governo indiano, che era stato uno dei più fieri sostenitori del movimento dei paesi non allineati, si schierò senza remore con gli Stati Uniti, guida indiscussa del nuovo mondo unipolare. Le regole del gioco furono improvvisamente stravolte. Milioni di persone, che non avevano mai sentito parlare né di Berlino né dell’Unione Sovietica, non potevano immaginare come sarebbero cambiate le loro vite. In India la confisca delle terre di migliaia di famiglie era cominciata nei primi anni cinquanta, quando il governo aveva scelto il modello di sviluppo sovietico: le enormi acciaierie (a Bhilai, a Bokaro) e migliaia di grandi dighe sarebbero state le “punte di lancia” dell’economia.Con le privatizzazioni e gli adeguamenti strutturali, il processo ha subìto un’accelerazione travolgente. Oggi “progresso” e “sviluppo” sono diventati sinonimo di “riforme” economiche, deregulation e privatizzazione. Due decenni di “progresso” di questo tipo hanno creato una nutrita classe media in preda a una sbronza da ricchezza improvvisa, e un sottoproletariato molto, molto più numeroso e disperato.Decine di milioni di persone sono state private della loro terra e costrette ad andarsene a causa di enormi progetti infrastrutturali: dighe, miniere, zone economiche speciali, create nel nome della povera gente ma in realtà destinate a soddisfare le crescenti pretese della nuova aristocrazia.Oggi la lotta per la terra e l’accesso alle risorse è al centro del dibattito sullo “sviluppo”.Nel 2008 il ministro delle finanze Palaniappan Chidambaram ha dichiarato che il suo obiettivo è urbanizzare l’85 per cento della popolazione indiana.Centrifuga socialeUn cambiamento del genere richiederebbe un processo di ingegneria sociale di proporzioni immani, che dovrebbe spingere o costringere circa 500 milioni di persone a emigrare dalle campagne in città. E questo permetterebbe alle multinazionali di saccheggiare enormi porzioni di territorio insieme alle loro risorse naturali. Già oggi foreste, montagne e sistemi idrici sono devastati dalle razzie delle multinazionali, spalleggiate da uno stato alla deriva e sul punto di commettere un “ecocidio”. Interi ecosistemi vengono distrutti dalle miniere di bauxite e minerale ferroso che stanno desertificando l’est dell’India. Sull’Himalaya sono in progetto centinaia di dighe di grandivdimensioni, che avranno conseguenze catastrofiche. Nelle pianure, i iumi canalizzati per contrastare le inondazioni hanno causato l’innalzamento dei letti fluviali e inondazioni ancora maggiori, hanno saturato i terreni e hanno provocato la salinizzazione dei campi coltivati, distruggendo i mezzi di sostentamento di milioni di persone.Il passaggio da un’agricoltura sostenibile e rivolta all’autosufficienza alimentare a una intensiva e speculativa ha indebitato ino al collo i piccoli coltivatori.Secondo i dati più aggiornati, in India si sono suicidati oltre 180mila contadini. Fame e denutrizione, che ormai hanno raggiunto i livelli dell’Africa subsahariana, si diffondono a macchia d’olio. È come se una società che marciva sotto il peso del feudalesimo e del sistema delle caste fosse stata gettata in un’enorme centrifuga. Il macchinario ha strappato la rete delle vecchie diseguaglianze, ne ha lasciate alcune, ma ha finito per rafforzarne la maggior parte. Adesso la società è stata scremata: è rimasto un sottile strato di panna densa sopra un mucchio d’acqua. La panna è quel “mercato” indiano di milioni di consumatori (di auto, cellulari, computer, biglietti d’auguri per san Valentino) che fa gola agli imprenditori di tutto il mondo. L’acqua conta poco. Può essere sprecata, conservata in bacini artificiali o prosciugata.Almeno così pensano gli uomini in giacca e cravatta, che non si aspettavano la guerra civile scoppiata nel cuore dell’India: in Orissa, in Chhattisgarh, in Jharkhand e in Bengala Occidentale.Quasi a dimostrare lo stretto rapporto tra unione e progresso, nel giugno del 1986, durante il governo del primo ministro Rajiv Gandhi, il tribunale di Faizabad ordinò di togliere i sigilli alla moschea Babri nella città di Ayodhya, in Uttar Pradesh. L’anonimo edificio era stato costruito nel cinquecento, e secondo gli induisti sorgeva sulle rovine di un tempio indù. Il Bharatiya janata party (Bjp), partito di destra che all’epoca sedeva all’opposizione, lanciò immediatamente una violenta campagna in favore del nazionalismo indù. Nel 1990 il suo leader L.K. Advani viaggiò in lungo e in largo per alimentare l’odio antislamico, chiedendo la demolizione della moschea di Babri per costruire al suo posto un tempio dedicato a Rama. Nel dicembredel 1992 centinaia di indù, incitati da Advani, demolirono l’edificio. All’inizio del 1993 si scatenarono per le vie di Mumbai, assalendo i musulmani e uccidendo un migliaio di persone. Come rappresaglia, una serie di attentati dinamitardi in città causò circa duecentocinquanta morti. Sfruttando il clima di tensione, il Bjp (che nel 1984 aveva solo due seggi in parlamento) nel 1998 sconfisse il partito del Congress e arrivò al governo.A quel punto, il progetto “progressista” di privatizzazioni e liberalizzazioni era cominciato da otto anni. Il Bjp si era già schierato in favore di grandi multinazionali come la Enron. Una volta al comando, per prima cosa autorizzò una serie di test nucleari.Quando nella storia di un paese accadono certi eventi, chiunque può immaginare quale sarà il futuro. Gli esperimenti nucleari del 1998 sono stati uno di questi eventi. Non ci voleva un genio per capire che direzione avesse preso l’India.Nel 2002, solo tre anni dopo i test nucleari, il governo del Gujarat guidato dal Bjp e dal governatore Narendra Modi ha orchestrato con cura un pogrom contro i musulmani di quello stato. L’islamofobia alimentata dall’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ha dato maggiore impulso ai nazionalisti indù. Il governo dello stato del Gujarat è rimasto in disparte mentre più di mille persone venivano massacrate. Le donne sono state vittime di stupri collettivi e poi sono state bruciate vive. Circa 150mila persone sono state cacciate dalle loro case.Dopo il pogrom, Narendra Modi ha vinto altre due elezioni in Gujarat. Ora è al suo terzo mandato come governatore. Nel 1984 centinaia di persone guidate dai leader del partito del Congress hanno massacrato migliaia di sikh per le strade di Delhi. Nel gennaio del 1999 alcuni delinquenti del Bajrang dal, una milizia indù, hanno aggredito il missionario australiano Graham Staines e i suoi due bambini, bruciandoli vivi.Nel dicembre del 2007 le aggressioni contro i cristiani da parte delle milizie indù non potevano più essere considerate incidenti casuali. In diversi stati governati dal Bjp – Gujarat, Karnataka, Orissa – si sono moltiplicate le aggressioni contro i cristiani e i saccheggi delle chiese.A Kandhamal, in Orissa, almeno sedici dalit e adivasi (intoccabili e tribali) cristiani sono stati uccisi da dalit e adivasi “indù” (“l’induizzazione” di dalit e adivasi serve a mettere gli uni contro gli altri, oltre che contro i musulmani e i maoisti, e al momento è forse il principale progetto delle milizie indù). Oggi decine di migliaia di cristiani vivono nei campi profughi o si nascondono nelle foreste, temendo perfino di andare a coltivare i campi.Nel dicembre del 2008 decine di vigilantes indù a Bangalore e a Mangalore hanno cominciato ad aggredire le donne che indossano jeans e abiti occidentali.Quando ci sono le elezioni, i partiti sfruttano questi massacri. Ne approfittano, in maniera subdola, o si accusano a vicenda di essere i responsabili degli eccidi.Ma nessun partito ha mai commesso “l’errore” di garantire che i colpevoli siano puniti. Anzi, nonostante gli scambi di accuse, si danno manforte per evitare ripercussioni concrete. Il risultato è una continua messinscena. Le stragi sono assorbite dal labirintico sistema giudiziario indiano, e lasciate lì a fermentare prima di essere rispolverate come materiale di propaganda per le elezioni seguenti. Si potrebbe dire che sono diventate parteintegrante del tessuto della democrazia indiana.
Un mostruoso debuttanteNel gennaio del 2009 il rapporto organico tra unione e progresso – o, se si preferisce, tra fascismo e libero mercato – è stato sancito con un bacio durante una cerimonia pubblica. Gli amministratori delegati di due delle principali multinazionali indiane – Ratan Tata, del gruppo carrozza c’è scritto: “Gli elettori indiani rimetteranno in moto il mondo?”.In questo modo spudorato l’elettorato è stato trasformato in mercato, gli elettori sono diventati consumatori e la democrazia è stata legata a ilo doppio al libero mercato.I mezzi d’informazione si sono lanciati soprattutto su due argomenti. Il primo è la “macchina del popolo”, la Tata Nano da centomila rupie (1.500 euro), prodotta nel Gujarat di Modi (le agevolazioni e i favori concessi alla Tata spiegano buona parte del sostegno dell’azienda a Modi).Il secondo è il discorso carico d’odio pronunciato dal mostruoso debuttante del Bjp, Varun Gandhi (nipote di Indira Gandhi), che fa sembrare Narendra Modi un moderato.Varun Gandhi ha chiesto la sterilizzazione dei musulmani. “Questa terra sarà conosciuta come bastione degli indù, e nessun musulmano oserà alzare la cresta qui da noi”, ha dichiarato, usando un insulto rivolto a chi è circonciso. “Dai musulmani non voglio neppure un voto”.Qui sta il nodo della questione. Varun Gandhi è un politico moderno, che opera nel sistema democratico, e fa tutto quello che è in suo potere per creare una maggioranza e consolidare il suo bacino di Tata, e Mukesh Ambani, della Reliance Industries – nel discorso di accettazione del premio Gujarat garima (Orgoglio del Gujarat) hanno elogiato la politica di sviluppo di Narendra Modi, l’artefice del genocidio del Gujarat. Naturalmente Modi, come candidato alla carica di primo ministro, poteva contare sul loro appoggio.La campagna elettorale di quest’anno è costata quasi cento miliardi di rupie (due miliardi di dollari. Da dove spunta una somma del genere?). Tra i partiti c’è un evidente consenso trasversale sulle “riforme” economiche. Non stupisce quindi che tra i sostenitori più entusiasti di queste elezioni ci siano le principali multinazionali. Probabilmente hanno capito che la democrazia può legittimare il loro istinto predatorio meglio di qualsiasialtro sistema.Diverse multinazionali hanno lanciato campagne televisive, in alcuni casi coinvolgendo star di Bollywood, per invitare giovani e vecchi, ricchi e poveri, ad andare a votare. La democrazia va di moda.La Bbc ha prenotato una carrozza ferroviaria, l’India election special, che condurrà giornalisti di tutto il mondo in un tour guidato, perché descrivano le meraviglie delle elezioni indiane. Sulla carrozza c’è scritto: “Gli elettori indiani rimetteranno in moto il mondo?”.In questo modo spudorato l’elettorato è stato trasformato in mercato, gli elettori sono diventati consumatori e la democrazia è stata legata a ilo doppio al libero mercato.I mezzi d’informazione si sono lanciati soprattutto su due argomenti. Il primo è la “macchina del popolo”, la Tata Nano da centomila rupie (1.500 euro), prodotta nel Gujarat di Modi (le agevolazioni e i favori concessi alla Tata spiegano buona parte del sostegno dell’azienda a Modi).Il secondo è il discorso carico d’odio pronunciato dal mostruoso debuttante del Bjp, Varun Gandhi (nipote di Indira Gandhi), che fa sembrare Narendra Modi un moderato. Varun Gandhi ha chiesto la sterilizzazione dei musulmani. “Questa terra sarà conosciuta come bastione degli indù, e nessun musulmano oserà alzare la cresta qui da noi”, ha dichiarato, usando un insulto rivolto a chi è circonciso. “Dai musulmani non voglio neppure un voto”.Qui sta il nodo della questione. Varun Gandhi è un politico moderno, che opera nel sistema democratico, e fa tutto quello che è in suo potere per creare una maggioranza e consolidare il suo bacino di voti. Un politico ha bisogno di un bacino di voti, come una multinazionale di un mercato di massa. Al giorno d’oggi, entrambi chiedono aiuto ai mezzi d’informazione.Le multinazionali quell’aiuto lo comprano (circa il 90 per cento degli introiti dei canali televisivi, così come della carta stampata, viene dalla pubblicità).
I politici se lo devono guadagnare attirando l’attenzione. Varun Gandhi può benissimo sopportare qualche critica, o un breve soggiorno in galera, se il suo discorso carico d’odio, pronunciato di fronte a una folla in delirio nel suo isolato collegio elettorale, è trasmesso e ritrasmesso dalle televisioni negli orari di punta. Ha ottenuto la visibilità che voleva.Chi è un mostro per qualcuno, per altri può essere un messia. Il separatismo e la politica identitaria, che seguono i binari di casta, tribù, religione ed etnia – il tutto sotto l’ombrello sempre più ampio dell’Hindutva – sono diventati il motore della democrazia indiana. Purtroppo non si tratta solo di separatismo, ma di separatismo degenerativo. Ed è difficile notarlo dal finestrino di un treno.La politica dei mercati di massa e dei bacini di voti rafforza l’idea che la maggioranza ha il diritto di dominare, una soldati in servizio effettivo in Iraq al culmine dell’occupazione). Adesso l’esercito indiano sostiene di avere stroncato in gran parte la resistenza dei militanti islamici del Kashmir. Forse è vero. Ma il dominio militare signiica vittoria? Per decenni, dopo la partizione tra India e Pakistan del 1947, i kashmiri hanno ostinatamente rifiutato di “integrarsi” e di accettare quello che la maggior parte considerava (e considera tuttora) la dominazione indiana. Tutto questo ha alimentato le tensioni tra India e Pakistan sfociate due volte in guerra aperta. Il continuo aumento della presenza dell’esercito indiano in Kashmir e la prospettiva sempre più lontana di un referendum sotto l’egida delle Nazioni Unite hanno trasformato la rabbia popolare in un movimento di resistenza. Preoccupato dalla crescente influenza dei leader antindiani, nel 1987 il governo centrale manipolò apertamente le elezioni del parlamento dello stato kashmiro. Le manifestazioni di protesta furono soffocate brutalmente dalle unità di sicurezza indiane. Ispirandosi in parte all’intifada palestinese, la popolazione del Kashmir scese per le strade. La rabbia diventò lotta armata. Migliaia di sorta di via indiana al fascismo. Le istituzioni democratiche – tribunali, polizia, “libera” stampa ed elezioni – invece di funzionare come un sistema equilibrato basato sul controllo reciproco, spesso fanno il contrario. Si coprono le spalle a vicenda per favorire gli interessi superiori di “unione” e “progresso”. In questo modo creano una tale confusione, una tale cacofonia, che le voci che si alzano per avvertire l’opinione pubblica finiscono soffocate dal frastuono. E questo non fa che confermare l’immagine di una democrazia amichevole, rumorosa, pittoresca e a volte un po’ caotica.
L’occupante indianoPoi, ovviamente, c’è il conflitto in Kashmir, che secondo alcuni analisti politici rischia di far precipitare il mondo in una guerra nucleare. La guerra nella valle del Kashmir dura ormai da quasi vent’anni e ha fatto più di 70mila morti.Più di centomila uomini sono stati torturati, diverse migliaia sono “scomparsi”, mentre le donne sono state vittime di stupri e decine di migliaia sono rimaste vedove. Più di 500mila soldati indiani pattugliano la valle del Kashmir, che di fatto è la zona più militarizzata del mondo (gli Stati Uniti avevano circa 165mila soldati in servizio effettivo in Iraq al culmine dell’occupazione). Adesso l’esercito indiano sostiene di avere stroncato in gran parte la resistenza dei militanti islamici del Kashmir. Forse è vero.Ma il dominio militare signiica vittoria? Per decenni, dopo la partizione tra India e Pakistan del 1947, i kashmiri hanno ostinatamente rifiutato di “integrarsi” e di accettare quello che la maggior parte considerava (e considera tuttora) la dominazione indiana. Tutto questo ha alimentato le tensioni tra India e Pakistan sfociate due volte in guerra aperta. Il continuo aumento della presenza dell’esercito indiano in Kashmir e la prospettiva sempre più lontana di un referendum sotto l’egida delle Nazioni Unite hanno trasformato la rabbia popolare in un movimento di resistenza.Preoccupato dalla crescente influenza dei leader antindiani, nel 1987 il governo centrale manipolò apertamente le elezioni del parlamento dello stato kashmiro. Le manifestazioni di protesta furono soffocate brutalmente dalle unità di sicurezza indiane. Ispirandosi in parte all’intifada palestinese, la popolazione del Kashmir scese per le strade. La rabbia diventò lotta armata. Migliaia di giovani kashmiri varcarono le montagne per andare in Pakistan ad addestrarsi e armarsi per combattere l’esercito indiano, uno dei più grandi e potenti del mondo.Furono addestrati dagli stessi uomini che in Afghanistan avevano guidato la vittoriosa jihad americana contro l’Unione Sovietica, dopo aver formato migliaia di mujahiddin islamici reclutati in tutto il mondo musulmano. I giovani kashmiri tornarono ben addestrati, equipaggiati con armi moderne e animati dal sogno della libertà.Erano accompagnati da guerriglieri “stranieri”, pachistani, afgani o provenienti da luoghi lontani come il Sudan. Molti di loro erano veterani di molte battaglie che sognavano la nazione panislamica. Introdussero una lettura più severa e puritana dell’islam, più interessata alla punizione che alla fede (alcuni lo definiscono “islam americano”), sconosciuta nella valle del Kashmir.I servizi segreti indiani e pachistani si accorsero rapidamente di questa differenza di posizioni e la alimentarono, creando spaccature fratricide tra la popolazione e dando un tono apertamente religioso a quella che era cominciata come una lotta per la libertà e l’autodeterminazione. Questa combinazione di islamizzazione, nazionalismo kashmiro militante e manipolazione da parte delle istituzioni indiane e pachistane causò una specie di esodo della minuscola minoranza indù del Kashmir. Fu questo che permise al governo indiano, e ai mezzi d’informazione “collaborazionisti”, di demonizzare la lotta per la libertà del Kashmir, presentandola come una rivolta religiosa lanciata dai fondamentalisti islamici contro una democrazia laica. Di conseguenza, per quanto possa sembrare strano, alcuni elementi dell’islam radicale, che non rappresentano in alcun modo l’opinione della maggioranza dei kashmiri, sono gli alleati più utili del governo indiano nella sua propaganda di guerra.Come può, un governo che si professa democratico, giustificare un’occupazione militare? Grazie alle elezioni, ovviamente. Dopo ogni elezione, infatti, il governo indiano dichiara di aver ottenuto dal popolo del Kashmir il mandato per continuare la sua azione.Nell’estate del 2008 una disputa su un terreno concesso ai pellegrini indù accanto a un luogo sacro islamico, ad Amarnath, ha causato una protesta di massa non violenta. Giorno dopo giorno, centinaia di migliaia di persone hanno sfidato soldati e polizia – che hanno sparato contro la folla uccidendo molti manifestanti – e hanno invaso le strade. Dall’alba a notte fonda nelle vie di Srinagar rimbombavano le parole di “Azadi! Azadi!” (libertà). I fruttivendoli ripetevano “Azadi! Azadi!” mentre pesavano la merce. Commercianti, medici, proprietari di case galleggianti, guide turistiche, tessitori, venditori di tappeti: tutti erano per strada con un cartello in mano e tutti gridavano “Azadi! Azadi!”. Le proteste sono andate avanti per giorni.Alla fine lo stato indiano, indeciso su come affrontare una simile disobbedienza civile, ha ordinato il giro di vite. Ha imposto il coprifuoco più severo degli ultimi anni, dando ordine di sparare a vista. Ha messo agli arresti domiciliari i principali leader della protesta, incarcerandone diversi altri. Ha ordinato perquisizioni casa per casa che sono culminate con l’arresto di centinaia di persone. La moschea Jama di Srinagar è stata chiusa, impedendo la preghiera del venerdì per sette settimane di seguito, fatto senza precedenti.Una volta domata la rivolta, il governo ha fatto una cosa incredibile: ha indetto le elezioni. Era un grosso rischio. I leader indipendentisti (tutti in carcere o agli arresti domiciliari) hanno invitato al boicottaggio. Erano quasi tutti convinti che le elezioni avrebbero coperto di ridicolo il governo indiano. Invece la scommessa è stata vincente. La popolazione si è presentata in massa alle urne. C’è stata la maggior affluenza dall’inizio della lotta armata. Ancora una volta, il governo e i mezzi d’informazione hanno presentato il risultato come una sorta di referendum a favore dell’India.Nessuno degli analisti, dei giornalisti e dei politologi indiani si è chiesto perché un popolo che solo qualche settimana prima aveva rischiato tutto, sfidando un esercito che aveva l’ordine di sparare a vista, avesse cambiato idea così all’improvviso. Nessuno degli illustri studiosi del grande festival della democrazia ha detto cosa significano le elezioni in presenza di uno spiegamento di truppe così imponente e diffuso (un militare armato ogni venti civili). Nessuno ha parlato del coprifuoco, delle retate e degli arresti, della blindatura dei collegi elettorali.Pochi hanno accennato al fatto che, durante la campagna elettorale, i politici hanno cercato in ogni modo di separare il voto dalla questione dell’“Azadi” e del Kashmir conteso, sostenendo che le elezioni riguardavano solo questioni di banale amministrazione: manutenzione delle strade, fornitura idrica ed elettrica.Nessuno ha spiegato perché persone che vivono da decenni sotto un’occupazione militare – per cui i soldati possono irrompere nelle case e portare via le persone a qualsiasi ora del giorno e della notte – debbano aver bisogno di qualcuno che le ascolti, che sostenga la loro causa, che li rappresenti.
Il silenzio non è possibileDopo le elezioni, le istituzioni e la stampa hanno proclamato la nuova vittoria (dell’India). E tutto è tornato come prima. Le manifestazioni e le richieste di libertà sono ricominciate, così come le esecuzioni sommarie da parte delle forze di sicurezza. Secondo i giornali, le ile dei militanti si stanno ingrossando. C’è davvero da chiedersi se sia rimasto qualche legame tra elezioni e democrazia.Il problema è che il Kashmir si trova sul crinale di una regione piena di armi che sta scivolando nel caos. La lotta di liberazione del Kashmir, dalle aspirazioni cristalline ma dai contorni sfocati, è presa in un vortice di ideologie pericolose e in contrasto tra loro: il nazionalismo indiano, quello pachistano, l’imperialismo degli Stati Uniti, la resistenza islamica e “medievale” dei taliban all’occupazione statunitense dell’Afghanistan. Ognuna è capace di mostrare una spietatezza che può sfociare nel genocidio o nella guerra nucleare.Aggiungete le ambizioni imperialiste cinesi, il ritorno di una Russia aggressiva e qualche testata nucleare a piede libero: ecco pronta la ricetta per la nuova guerra fredda.Il Kashmir, dunque, è condannato a diventare l’anello di congiunzione tra il caos afgano e pachistano e l’India, dove questo caos potrà fare presa sulla rabbia dei più giovani tra i centocinquanta milioni di musulmani maltrattati, umiliati ed emarginati. A sentire la polizia indiana, gli attacchi terroristici del 2008 a Delhi, Jaipur e Ahmedabad, così come i più recenti attentati a Mumbai del 26 novembre, sarebbero un primo segnale di questa tendenza.Sicuramente la questione kashmira, insieme a quella palestinese, è tra le dispute più antiche e complesse del mondo. Ma non significa che sia insolubile. Vuol dire solo che la soluzione non soddisferà pienamente nessuna parte, nessun paese e nessuna ideologia. I negoziatori dovranno essere pronti ad allontanarsi dalla “linea ufficiale”. Certo il governo indiano per ora non è neanche disposto ad ammettere che esista un problema, figuriamoci a trattare per trovare una soluzione. I suoi rimedi temporanei e brutali alle rivolte in Kashmir non hanno fatto altro che peggiorare la situazione.Insomma, George W. Bush è stato una specie di superprofeta. A differenza di quasi tutti i profeti, infatti, aveva il potere di influenzare il futuro perché rispettasse le sue profezie. Dopo l’11 settembre, quando il presidente statunitense disse “Chi non sta con noi sta con i terroristi”, molti di noi l’hanno preso in giro, rifiutando di fare una simile scelta. Non volevamo scegliere tra George e Osama, tra l’occupazione statunitense dell’Afghanistan e il folle medioevo taliban, tra l’occupazione statunitense dell’Iraq e le feroci milizie islamiche che la combattono. La “guerra al terrore” ha creato un clima che ha permesso ai governi di tutto il mondo di approvare nuove leggi antiterrorismo per la sicurezza nazionale. Leggi in cui la definizione di “terrorista” è così vaga e ampia da poter essere applicata praticamente a chiunque. In vari paesi, nascoste dietro il linguaggio della “guerra al terrore”, sono state ripresentate con rinnovato entusiasmo vecchie divisioni manichee.In Palestina la popolazione deve scegliere tra Hamas e l’occupazione israeliana. In India, tra il nazionalismo indù e il terrorismo islamico, tra le razzie delle multinazionali e la guerriglia maoista. In Kashmir, tra l’occupazione militare e le cellule militanti islamiche. Nello Sri Lanka, tra uno spietato stato singalese e le sentenze di morte delle Tigri tamil.I popoli non dovrebbero essere costretti a compiere nessuna di queste scelte. Eppure sono sempre meno le persone che possono dire: “Non stiamo né con voi né con i ‘terroristi”. Chi ha ancora questo privilegio e lo esercita, rischia di perdersi in un esercizio di pura compassione o nelle pallide banalità dei discorsi sui diritti umani, che con l’equidistanza morale tolgono urgenza politica e concretezza a queste battaglie che sono politiche, urgenti e molto concrete. Anche chi rifiuta la violenza sa bene che non si possono mettere sullo stesso piano la brutalità di un esercito d’occupazione e quella di chi gli oppone resistenza, oppure la violenza dei diseredati e quella degli approfittatori, la violenza del capitalismo delle multinazionali e quella delle comunità che lo combattono.Anche se la propaganda sulla “guerra al terrore” vorrebbe spingerci a fare di ogni erba un fascio, è ovvio che non tutte le lotte armate sono uguali. Alcune sono di massa e, almeno di nome, rivoluzionarie. Altre no. Alcune sono apertamente sessiste e decisamente retrograde.Nel complesso, però, non esiste qualcosa che si possa definire una lotta armata “gentile” o compassionevole. Ci sono sempre spargimenti di sangue. C’è sempre una gran puzza. È così se si combatte.Quando, sentendoci a disagio di fronte ai massacri, diciamo: “Non stiamo né con voi, né con i ‘terroristi’”, corriamo il rischio di sostenere lo status quo. D’altra parte, se rinunciamo a quella posizione, rischiamo di diventare sostenitori acritici della sottomissione delle donne, delle decapitazioni pubbliche e degli attentatori suicidi, o di chi promuove una visione del mondo ristretta, da incubo.È più importante che mai criticare quelli di cui sosteniamo le battaglie, di cui capiamo la rabbia, ma di cui rifiutiamo i metodi e le idee. Al tempo stesso, dobbiamo sempre tenere presente che in una zona di guerra ogni paragrafo, ogni frase che pronunciamo verrà saccheggiata e sfruttata per la propaganda delle due fazioni rivali. Con conseguenze che possono rivelarsi spiacevoli. Il silenzio, però, non è una scelta possibile.
La forza della poesiaForse la storia del ghiacciaio di Siachen, il campo di battaglia più alto del mondo, è la metafora migliore della follia dei nostri tempi. Qui sono stati schierati migliaia di soldati indiani e pachistani, costretti a sopportare il vento gelido e temperature che arrivano a meno quaranta. In quest’area sono morti centinaia di soldati, uccisi dal freddo, fiaccati dai geloni e dalle ustioni solari.Il ghiacciaio ormai è diventato una discarica ingombra di relitti: migliaia di bossoli d’artiglieria, bidoni di carburante vuoti, piccozze, vecchi scarponi, tende e ogni altro genere di residuato bellico prodotto da migliaia di esseri umani.Questi rifiuti restano lì, conservati dalle temperature bassissime, monumento alla follia dell’uomo. Mentre il governo indiano e quello pachistano spendono miliardi di dollari in armi e nella logistica per la guerra d’alta quota, il campo di battaglia ha cominciato a sciogliersi. Oggi le sue dimensioni si sono già ridotte della metà. Lo scioglimento non ha a che fare con i combattimenti. È dovuto soprattutto alle persone che vivono dall’altra parte del mondo e conducono una vita lussuosa. Brave persone, che credono nella pace, nella libertà di parola e nei diritti umani. Persone che vivono in ricche democrazie, i cui governi hanno un seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, con un’economia molto dipendente dalle esportazioni belliche e dalla vendita di armi a paesi come India e Pakistan (e Ruanda, Sudan, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Iraq... l’elenco è lungo).Lo scioglimento dei ghiacci provocherà gravi inondazioni nel subcontinente, seguite da una siccità che sconvolgerà la vita di milioni di persone. Tutto questo fornirà altre ragioni per combattere. Serviranno altre armi. Chissà, forse la fedeltà del consumatore al fornitore è proprio quello che serve al mondo per superare la recessione degli ultimi mesi. E così tutti gli abitanti delle ricche democrazie vivranno ancora meglio e i ghiacciai si scioglieranno ancora più in fretta.Mentre parlavo al pubblico concentrato e teso che riempiva l’auditorium di un’università di Istanbul (teso perché parole come “unità”, “progresso”, “genocidio” e “armeni” tendono a far infuriare le autorità turche quando sono pronunciate una vicino all’altra), vedevo in prima ila Rakel Dink, la vedova di Hrant, che piangeva ininterrottamente. Alla ine mi ha abbracciato e ha detto: “Noi continuiamo a sperare. Ma perché continuiamo a sperare?”. “Noi”, ha detto. Non “voi”. Mi sono venuti in mente i versi di Faiz Ahmed Faiz, cantati dalla bella voce di Abida Parveen: nahin nigah main manzil to justaju hi sahi/nahin wisaal mayassar to arzu hi sahi.Ho cercato di tradurli (alla meglio) a Rakel: se i sogni sono ostacolati, allora il desiderio deve prenderne il posto/se il ricongiungersi è impossibile, allora la brama deve prenderne il posto. Capite cosa intendo quando parlo di poesia?
gg
* Arundhaty Roy è una scrittrice indiana. Nel 1997 ha vinto il Booker prize con Il dio delle piccole cose (Guanda). Questo articolo è tratto dall’introduzione di Quando arrivano le cavallette, una raccolta di suoi articoli che sarà pubblicata l’11 giugno 2009 da Guanda.
Da sapereLe elezioni per la quindicesima legislatura indiana si svolgono in cinque giornate. Sono cominciate il 16 aprile 2009. L’ultima giornata di voto sarà il 13 maggio. I risultati saranno resi noti il 16 maggio 2009.Gli elettori registrati sono 714 milioni, il 48 per cento sono donne, il 25 per cento ha meno di 35 anni.Si sono presentati 1.055 partiti.I due principali candidati premier sono l’attuale primo ministro Manmohan Singh, del Congress, e Lal Krishna Advani, leader del partito nazionalista di destra Bharatiya janata party.Una terza candidata è Mayawati, la governatrice dalit (intoccabile) dell’Uttar Pradesh e leader del Bahujan samaj party, di ispirazione socialista. Nella camera bassa del parlamento (Lok sabha) saranno eletti 543 deputati. I partiti minori e regionali potrebbero conquistare il 50 per cento dei seggi. In caso di vittoria il premier Singh potrebbe allearsi con la sinistra, come nel 2004.
Le paroleAdivasi (tribale). Indica gli abitanti originari dell’India.Babri masjid. Il 6 dicembre 1992 centinaia di fondamentalisti indù hanno distrutto la moschea Babri ad Ayodhya. Al suo posto dovrebbe sorgere un tempio indù (Ram mandir).Bajrang dal. Organizzazione armata di fondamentalisti indù che prende il nome del dio Hanuman. Alleata del Bharatiya janata party, ha partecipato alla distruzione di Babri masjid.Bharatiya janata party (Bjp). Partito del popolo indiano, nazionalista di destra. Il suo braccio ideologico è il Rashtriya swayamsevak sangh, associazione culturale induista, antimusulmana, sostenitrice dell’hindutva.Dalit (gli intoccabili). Indica quelli che una volta erano definiti intoccabili.Hindutva. Ideologia che punta al rafforzamento della “identità indù” e alla creazione di uno stato induista. Tra i suoi principali promotori c’è il Vishwa hindu parishad, Consiglio mondiale indù, a cui aderiscono leader della comunità indù e parte del Sangh parivar.Sangh parivar. L’insieme delle maggiori organizzazioni induiste di destra.
Articolo pubblicato su Internazionale 794, 8 maggio 2009

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