venerdì 16 gennaio 2009

Condizioni ed effetti di una vittoria difficile

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Obama for President. Condizioni ed effetti di una vittoria difficile

di Larry & Roberta Garner*

Parte 1- Le campagne elettorali

Le due campagne, quella per la nomination democratica e quella presidenziale, hanno presentato un certo numero di caratteristiche insolite.

1) Obama, durante la campagna per la nomination a candidato, ha concentrato la sua propaganda sulla guerra in Iraq, mentre quest’argomento si è affievolito durante la campagna per le presidenziali. L’obiettivo di por fine alla guerra gli è stato di grande aiuto per battere Hillary Clinton, ma una serie di eventi hanno reso poi meno determinante questo argomento. Uno è stato che la “riscossa militare” sembrava aver conseguito qualche successo negli ultimi tempi, grazie alla drastica riduzione nel numero di vittime americane: ciò ha spostato l’argomento a favore di McCain, che aveva sempre sostenuto il rafforzamento delle operazioni militari. Inoltre, più in generale, politica estera e sicurezza nazionali erano percepite come i cavalli di battaglia di McCain e dunque non sarebbe stata una buona idea per Obama continuare a dare la priorità a questi argomenti.

2) La strategia di Obama durante le primarie si è concentrata sulla conquista di stati nei quali i Democratici avrebbero probabilmente perso le elezioni, in particolare nel Sud (South Carolina, Mississippi, Texas, etc.). In questi stati gli afroamericani sono una quota importante degli iscritti al Partito democratico ed essi effettivamente hanno votato per Obama, contribuendo in modo determinante alla sua vittoria su Hillary, mentre i loro voti non sono stati sufficienti, salvo due casi, ad attribuirgli lo stato nelle presidenziali. Tuttavia, questa strategia si è dimostrata vincente anche nelle presidenziali, tant’è vero che Obama ha vinto le elezioni senza avere la maggioranza del “voto bianco”. In altre parole Obama ha battuto la Clinton vincendo in una maggioranza di stati diversa da quella che gli ha attribuito la vittoria contro McCain.

3) I comitati elettorali per Obama hanno fatto uno sforzo enorme per portare al voto elettori che votavano per la prima volta, afroamericani e giovani innanzitutto, che da sempre sono tra i gruppi che meno partecipano alle elezioni. Talora in passato la vittoria del candidato repubblicano era dipesa dalla capacità di mantenere bassa l’affluenza alle urne. E infatti, la contro-strategia dei Repubblicani è stata di sollevare lo spettro di frodi elettorali, e nel contempo di impedire l’iscrizione di nuovi elettori alle liste, basandosi sulla non perfetta corrispondenza degli iscritti ai dati anagrafici degli stati a causa dei cambi di residenza, o argomentando che si trattava di gente con la fedina penale sporca, etc. Tali argomenti sono stati ribaditi fino al giorno delle elezioni, provocando lunghe code ai seggi (in alcune aree a maggioranza democratica i tempi di attesa hanno superato le 4 ore), allo scopo di scoraggiare gli elettori. Questa tattica era stata utilizzata con successo nelle due precedenti presidenziali in Florida e in Ohio, ma stavolta non ha dato i risultati sperati a causa dell’entusiasmo degli elettori di Obama e delle contromisure adottate dai legali del suo staff.

4) In entrambe le campagne elettorali straordinaria è stata la capacità organizzativa e l’efficacia dei comitati elettorali di Obama. Da un lato hanno mobilitato decine di migliaia di volontari, che hanno battuto il territorio palmo a palmo, dalle cittadine di provincia ai quartieri delle grandi città (come aveva fatto a suo tempo il giovane Obama quand’era animatore sociale nelle vie di Chicago); dall’altro sono riusciti a raccogliere ingenti contributi finanziari via Internet, contattando tutti i potenziali sostenitori di Obama. Pertanto – mentre McCain è stato costretto a scegliere il finanziamento pubblico, in quanto il limite di 2.300 dollari per singolo finanziatore implicava che l’appoggio dei super-ricchi non gli avrebbe dato alcun significativo vantaggio – Obama ha optato per il finanziamento privato, sapendo di poter contare su centinaia di migliaia di contributi individuali. Paradossalmente, si è aperto così un abisso finanziario di 100 milioni di dollari a favore di Obama, fatto di contributi dei privati cittadini, mentre il campione delle corporations ha attinto dal finanziamento pubblico! Nelle elezioni precedenti ai Repubblicani, per superare i Democratici, era stato sufficiente ricorrere a donazioni e finanziamenti indiretti (limitati a 25.000 dollari per singolo finanziatore), cioè non direttamente gestiti dal candidato. In queste ultime elezioni però il sistema messo in atto dallo staff di Obama ha raccolto importi di gran lunga superiori.

5) La campagna elettorale è sembrata essere ad un tempo per nulla e del tutto basata sulla questione razziale. Questa è stata un formidabile fattore di mobilitazione e indubitabilmente ha pesato il fatto che Obama fosse un primo caso della storia. Obama ha persuaso i neri a iscriversi alle liste elettorali in percentuali senza precedenti. Risulta inoltre che a McCain è andato circa il 6% dei voti per motivi strettamente razziali, ma decisivo è stato il fatto che non si è verificato alcun “effetto Bradley”, per il quale un candidato nero preferito nei sondaggi esce soccombente dalle urne. D’altra parte, la campagna non ha avuto nulla a che vedere con la questione razziale per quanto concerne le politiche pubbliche. Non una parola è stata detta riguardo a iniziative atte a favorire la popolazione nera e men che mai si è parlato della questione dei risarcimenti, morali e materiali, per i discendenti degli schiavi. E’ stata una brillante intuizione degli organizzatori della campagna di Obama: l’aver puntato su diritti universali e benefici di cui fossero destinatari tutti i cittadini americani ha fatto di Obama un personaggio di riferimento non solo per i neri, ma anche per gli ispanici e per tutte le altre minoranze (comprese quelle bianche) nonché per tutti gli “svantaggiati”.

6) La campagna elettorale è stata un evento essenzialmente mediatico condotto in Tv, su You-Tube, sui blog, ecc. Comici e conduttori di talk show hanno avuto ruoli importanti in entrambi gli schieramenti, ma, a differenza che nelle elezioni precedenti, si è avuta l’impressione che gli show a favore dei Democratici abbiano avuto un peso preponderante. In particolare, show televisivi in stile cabarettistico, molto seguiti dal pubblico giovane, sono riusciti nell’intento (forse non troppo arduo) di etichettare Sarah Palin come una stupida, a stento in grado di pronunciare una frase con capo e coda. Video che sbeffeggiavano la sua candidatura scorrevano in continuazione su You-Tube. E lei stessa non si è fatta un favore con la battuta (di spirito?) di avere esperienza in politica estera solo perché poteva vedere la Russia dalla veranda di casa sua.

La squadra di Obama ha saputo soprattutto utilizzare Internet molto meglio dei suoi rivali per creare una mobilitazione di massa, che, insieme con il radicamento sul territorio sopra descritto, per certi aspetti ricorda partiti di massa d’altri tempi, come il PCI1: il sito di Obama (my.barackobama.com) è diventato il punto di riferimento tramite il quale sono stati organizzati e propagandati oltre 50 mila eventi da parte di privati cittadini e organizzazioni di base. Il modo di fare politica negli Stati Uniti è probabilmente cambiato per sempre.

Va infine messo in rilievo il fatto che, anche tralasciando la (pur necessaria, in quanto redditizia) retorica sull’unità nazionale, l’intera campagna è stata piuttosto deludente sotto l’aspetto dei contenuti. Obama ha largamente vinto la battaglia della propaganda accreditandosi come persona dai nervi saldi e sicura di sé, capace di affrontare razionalmente la crisi economica, in contrasto con l’immagine erratica e imprevedibile di McCain sulle questioni economiche. Ma la gravità oggettiva della situazione attuale degli Stati Uniti – impantanati in due guerre di cui neppure si intravede la fine e immersi in una crisi economica, sull’orlo della depressione, come non se ne vedevano da decenni – avrebbe implicato che non ci si limitasse a una gara di promesse di tagli fiscali tali da lasciare qualche soldo in più nelle tasche dei consumatori.

Parte2 - Il risultato delle elezioni.

Nella prima settimana di settembre la competizione elettorale appariva molto incerta e diversi segnali sembravano indicare possibile la vittoria di McCain. La scelta per il ruolo di vice presidente di Sarah Palin (governatrice dell'Alaska, ex-sindaco di una cittadina, Wasilia, di 9 mila abitanti, cristiano-evangelica e madre di 5 figli) aveva suscitato interesse per il ticket repubblicano. Inoltre McCain era riuscito a convincere un buon numero di elettori che l'aumento delle truppe in Iraq stava dando i risultati sperati, e che sarebbe stato possibile vincere entrambe le guerre, quella in Iraq e quella in Afganistan. L'aumento del prezzo della benzina giocava poi a favore del suo sostegno alle trivellazioni di nuovi pozzi in alto mare.

Ma a metà settembre è collassata buona parte della struttura finanziaria americana (e poi mondiale), a causa dello scoppio della bolla immobiliare, del fallimento dei fondi legati ai mutui e del successivo crollo di strumenti finanziari estremi, talmente astrusi da essere indecifrabili non solo per gli acquirenti, ma anche per gli stessi venditori. Il settore finanziario americano, e parte dell'economia reale, si è rivelato un castello di carte, costruito su un livello insostenibile di debiti personali, societari e pubblici.

La catastrofe economica fa da sfondo al sorpasso compiuto da Obama. Se la crisi avesse colpito a metà novembre invece che a metà settembre, McCain avrebbe potuto benissimo vincere le elezioni. Questo è un tratto tipico della politica americana: gli elettori scelgono i Democratici quando sono convinti che la situazione economica è difficile e che è necessario che lo stato intervenga. Ciò è stato del tutto evidente durante la grande depressione, che ha portato all'elezione di Roosevelt, ma anche durante la recessione del 1991-92, che ha portato all'elezione di Clinton. In situazioni di questo genere perde efficacia il cosiddetto "cuneo", tradizionalmente impiegato dai Repubblicani, vale a dire il ricorso ad argomenti come l'aborto, il matrimonio omosessuale, i legami fra Obama e i "terroristi", lo scarso patriottismo di Obama, che non indossa un distintivo con la bandiera nazionale, e così via: tutti temi, finalizzati a scavare una frattura fra il Partito democratico e la sua base di lavoratori, che sono stati semplicemente travolti dalla forza dei fatti economici, come dimostra la grande crescita della popolarità di Obama fra gli elettori di origina latina, di solito sensibili ad argomenti come l'aborto e il matrimonio omosessuale.

Nel gergo dei commentatori politici americani gli stati che votano democratico vengono definiti "stati blu", e quelli che votano repubblicano "stati rossi", con una curiosa inversione del significato storico dei colori. Questa semplice regola per indicare chi ha vinto a livello di stato non esclude ulteriori disaggregazioni. Un'analisi condotta a livello di contea indica assai meglio come in realtà il voto per Obama sia stato particolarmente diffuso nelle aree urbane o metropolitane, indipendentemente dallo stato, e indicazioni analoghe risultano dalla considerazione di altre differenze, come quelle relative all'etnia, all'età, alla religione e al livello di istruzione.

In generale, i risultati non indicano tanto una “rivoluzione” quanto la presenza di tendenze di lungo periodo che potrebbero risultare preoccupanti per i Repubblicani. La crescita della quota di cittadini non bianchi farà sì che entro qualche decennio le minoranze diverranno nel loro insieme maggioranza; e tutte le minoranze hanno largamente preferito Obama, dal 95% dei neri al 66% degli ispanici, al 62% degli asiatici. Fra i bianchi solo il 43% ha votato per Obama, ma un'analisi più attenta rivela tendenze interessanti anche all'interno di questo gruppo: hanno votato per lui il 66% dei bianchi con meno di trent'anni, la maggioranza dei bianchi con un diploma di college, e i bianchi di parecchi stati diversi dalle tradizionali roccaforti del sud. Le periferie, una volta tradizionalmente repubblicane, tendono a differenziarsi e certe aree del sud in cui si è verificata un'immigrazione di cittadini con un più elevato livello di istruzione non sono più indiscutibilmente repubblicane. E' questo, per esempio, il risultato dell'immigrazione di bianchi con formazione universitaria nel “triangolo della ricerca” intorno a Raleigh, nel North Carolina. Sono questi nuovi abitanti che, unitamente agli afroamericani, hanno consentito a Obama di conquistare stati come la Virginia e di avere buoni risultati persino in Georgia.

Si ha l'impressione che la formula utilizzata con successo dal Partito repubblicano fin dai tempi di Reagan, e ulteriormente sviluppata da Bush, si sia ormai esaurita. Quel partito è stata una versione estrema del tipico partito pro-business ispirata dal credo neo-liberista. Diciamo “estrema” in quanto il Partito repubblicano ha perseguito – in misura ancor maggiore rispetto agli analoghi partiti europei – politiche fiscali ispirate all'idea che l'unico motivo per vivere insieme è di creare un terreno di gioco ideale perché gli individui trionfino e massimizzino i propri guadagni. Ma questa prospettiva riesce a catturare, a livello popolare, solo l'appoggio di quella parte di individui con pochi mezzi che pensano ancora che sia solo una questione di tempo perché anche loro possano diventare milionari, come l'icona vivente di McCain, “Joe l’idraulico”. In realtà, i Repubblicani sono riusciti a trovare una base di massa per le loro dottrine liberiste non insistendo su di esse, bensì cercando di mobilitare la sensibilità dei “patrioti” di mentalità militarista (il gigante americano messo in ginocchio da dei nani) e di conquistare gli evangelici bianchi con gli argomenti “sociali” ed “etici” di cui abbiamo detto sopra. Senza dimenticare, naturalmente, la promessa di sostanziosi tagli delle tasse.

Oggi il Partito repubblicano deve affrontare il declino demografico della sua base popolare, in termini sia assoluti sia relativi: elettori anziani, bianchi con basso livello di istruzione (soprattutto al Sud), minoranze bianche cattoliche, abitanti di aree rurali o di piccoli centri. Il nocciolo duro degli evangelici in molti casi costituisce un elemento di forza nel breve periodo, ma può creare problemi nel lungo: rende infatti il partito meno attraente per i giovani, e crea imbarazzo alla sua ala “capitalista moderata”, a causa del suo rifiuto di considerare i problemi ambientali dovuti al riscaldamento globale e della sua insistenza su una interpretazione biblica della storia naturale.

E' da notare come John McCain (che non proviene dall’ala evangelica del partito) abbia evitato le questioni “sociali” come l'aborto, il matrimonio fra omosessuali e le preghiere scolastiche. E lo è anche il fatto che la senatrice repubblicana Elizabeth Dole – che ha impostato la sua campagna su appelli incredibilmente demagogici alla religiosità e sulla denigrazione del suo avversario democratico in quanto ateo e vicino a un’organizzazione definita “America senza Dio” – abbia perso il suo seggio in North Carolina. Sono sempre più numerosi gli americani che considerano gli argomenti religiosi questioni private, estranee alle azioni governative e alle politiche federali.


Parte 3 – America, dove vai?

Ostacoli alle politiche progressiste

Proprio perché ottenuta in un contesto contrassegnato da una forte domanda di “cambiamento”, si potrebbe pensare che la vittoria elettorale abbia dato a Obama mandato di attuarlo. Quella di Obama è, dopo tutto, una vittoria netta: 53% del voto popolare, 364 su 426 voti elettorali (12 sono rimasti ancora non attribuiti), un incremento di almeno 20 seggi democratici nella House of Representatives (255 su 435) e un aumento di almeno 6 seggi nel Senato (57 su 100). In verità, all’alba dei risultati finali dell’elezione, il Partito repubblicano, spalleggiato dai media, ha iniziato a far sentire la sua voce con la richiesta di un governo “bi-partisan” – come se avesse avuto senso per Franklin Roosevelt rivolgersi al Partito repubblicano per l’approvazione del suo programma di riforma nel 1933.

L’individuazione e la definizione di ciò che in un’azione politica è ragionevole e cosa invece non lo è vede, negli Stati Uniti, il ruolo fondamentale delle corporazioni dei media. In questo scenario, l’agenda progressista è stata già definita poco ragionevole. Ma la collaborazione con i Repubblicani può soltanto annacquare il programma dei Democratici, che in ogni caso non può essere considerato molto progressista in base agli standard europei.

Un sistema politico arcaico

Ma un ulteriore problema istituzionale è segnato sull’agenda di Obama e del Partito democratico. Mentre gran parte dell’Europa guarda agli Stati Uniti come a un paese che promuove il cambiamento attraverso le elezioni (“gli americani sanno come fare le cose in modo giusto”), il sistema politico americano è assai difettoso. Le moderne costituzioni sono fondate su una concezione del potere inteso come risorsa che può essere utilizzata per realizzare obiettivi economici e sociali. La Costituzione degli Stati Uniti è stata scritta oltre 200 anni fa, quando cioè l’obiettivo dei fondatori era di formare un Nightwatchman State – in altre parole, uno Stato che non interviene e osserva le forze di mercato in azione. Per tale ragione essa è strutturata in modo tale da rendere istituzionalmente facile bloccare ogni genere di intervento – un’idea vicina agli interessi del Partito repubblicano a favore della distribuzione di potere e privilegi “spontaneamente” creati dal mercato. Inoltre, il regolamento che consente il filibustering (cioè l’ostruzionismo, che produce un dibattito parlamentare di durata illimitata) comporta l’impossibilità, al Senato, di approvare provvedimenti significativi, a meno di non raggiungere il sostegno del 60% dei senatori (la quota necessaria, cioè, per escludere il diritto all’ostruzionismo): anche la sola minaccia di filibustering è sufficiente a far ritirare una proposta e, per come le cose stanno oggi, i Democratici sono sotto il 60% di tre voti; da qui l’appello per un compromesso con i Repubblicani.

La militarizzazione delle politiche interna ed estera

Dal momento che sono spesso ostacolati dal meccanismo legislativo nella politica interna, i Presidenti degli Stati Uniti cercano di conquistare la fiducia dei propri elettori in politica estera – di frequente con conseguenze disastrose, come nel caso del Presidente uscente. Obama sarà relativamente libero di realizzare alcune delle sue promesse elettorali, quali la chiusura del lager di Guantanamo e la fine della guerra in Iraq. Ciononostante, durante la campagna, Obama è stato attento a evitare l’etichetta di “disfattista”, affermando la necessità di espandere il coinvolgimento militare in Afghanistan. Se manterrà questa promessa, potrebbe far naufragare molto presto la sua presidenza.

L’impasse nelle politiche economiche e sociali favorisce talvolta l’attuazione di una politica economica interna espansiva, schiacciando l’acceleratore sulle spese militari; molte amministrazioni hanno optato per il keynesismo militare come strategia per aumentare l’occupazione e stimolare la crescita economica. Si tratta di una soluzione che, tuttavia, finisce per esaurire le risorse destinabili a programmi economici alternativi.

Ed è proprio la massiccia allocazione di risorse nazionali per coprire le spese militari che consente di arrivare diritti al cuore della crisi in questa congiuntura storica. Non esiste settore della vita americana – dall’istruzione, alla sanità, alla sicurezza sociale e alle politiche per l’ambiente, dalle politiche energetiche e dei trasporti alle politiche per la casa – che non si trovi in seria crisi. Un recente sondaggio indica che ben l’83% degli americani non crede che il paese si stia muovendo nella giusta direzione. Si tratta del valore percentuale più elevato degli ultimi 60 anni.

La crisi del debito: il debito visto come sostituto del salario sociale e della crescita economica

Di fatto gli Stati Uniti stanno probabilmente fronteggiando una genuina “crisi organica in termini gramsciani”. Ad essere messo in questione è il mitico “American way of life”. Per decenni gli Stati Uniti, per elevare lo standard di vita della massa della popolazione o per avvicinarlo a quello della classe media, hanno fatto affidamento su due strumenti: la crescita dell’economia e la disponibilità di credito facilmente accessibile. Ma i tassi di crescita degli ultimi vent’anni, relativamente elevati, hanno riguardato in misura massiccia i beni di consumo di prima necessità (vendita al minuto e servizi). Ciò ha generato enormi deficit nella bilancia commerciale statunitense, finanziata mediante prestiti da creditori stranieri. I settori cosiddetti “in crescita” dell’economia statunitense, quali quello bancario e immobiliare, sono stati gonfiati sia dalle bolle speculative sia da indebitamenti crescenti. Ciò che gli europei possono solo a mala pena immaginare è l’abitudine degli americani al credito e la loro abilità a indebitarsi per raggiungere il sogno americano degli appartenenti alla classe media. Che si tratti di comprare una casa con un’ipoteca superiore al 50% del reddito del nucleo famigliare, o di mandare all’università i propri figli (indebitando lo studente per decine di migliaia di dollari), o di pagare l’assicurazione sulla vita o le spese sanitarie (con la carta di credito), o di comprare un’automobile, oppure, semplicemente, di far compere ogni weekend con una delle quattro carte di credito che la media della popolazione possiede, gli americani contraggono un fiume di debiti per elevare i propri standard di vita. La percentuale di risparmio sul Pil è significativamente diminuita negli Stati Uniti e il debito medio che ciascuna famiglia si è accollato è pari al 134% del suo reddito annuale.

Né la crescita né l’indebitamento andranno meglio nel breve e medio periodo

Lo standard di vita confortevole della popolazione che lavora in Europa si fonda in parte sul salario sociale (ossia programmi redistributivi come la sanità pubblica nazionale e l’istruzione universitaria a basso costo), mentre negli Usa la gente ricorre al credito per pagare tali servizi al prezzo di mercato. Questo spiega in parte perché gli americani sono fissati con le tasse: quando lo Stato dà poco in termini di benefici sociali, per poter acquistare ciò di cui si necessita bisogna contare pressoché interamente sul proprio reddito (netto). Così la promessa di tagli delle imposte dà per scontato che bisogna essere in grado di affrontare da sé il costo di servizi che in Europa sono dati per garantiti, cioè quelli corrispondenti ai “diritti sociali”.

Se Obama de-militarizzerà la politica estera degli Stati Uniti e avvierà lo smantellamento degli avamposti (737 basi) dell’impero americano, lo Stato potrà forse iniziare a garantire ai suoi cittadini alcuni diritti sociali di base. I Repubblicani (the wreckers, ovvero “gli sfascisti”, così definiti in più di una recente pubblicazione) hanno fatto crescere a livelli astronomici il debito del tesoro degli Stati Uniti rendendo così impossibile il finanziamento delle riforme sociali. Più in generale, la crisi della società e dello Stato americani ha una portata mondiale – e non soltanto nel senso che i paesi capitalistici del mondo contano sulla locomotiva dell’economia Usa per sostenere la propria crescita grazie alla loro domanda di beni e servizi. Raramente nella storia si è verificata una tale divergenza tra la forza militare di una grande potenza e il suo status economico, in così forte declino.

Se è vero che gli Stati Uniti non hanno più vinto una guerra dall’invasione di Grenada, lo è altrettanto che possiedono un arsenale militare che può uccidere milioni di persone nel giro di qualche giorno, se concerne sia i consumi sia i servizi sociali – potrebbe fungere da potenziale stimolo per ulteriori avventure militari all’estero, che potrebbero ottenere (almeno nelle fasi iniziali) consenso interno. L’opzione militare offre all’amministrazione di Washington la tentazione costante di appellarsi a un perverso sentimento patriottico, distraendo così il pubblico dai problemi economici e sostituendo il coinvolgimento militare allo sviluppo dei servizi sociali e delle infrastrutture necessarie. Ci vorrà tutto il sangue freddo che si spera Obama abbia davvero per resistere a simili pressioni.

*Larry Garner e Roberta Garner sono professori in Scienze Politiche all'Università St. Paul di Chicago

[1] Per i dati dettagliati si veda la rubrica “Dare i numeri” su questo stesso numero (ndr).

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