venerdì 17 aprile 2009

Gli Usa lasciano la porta aperta e Pechino sbarca in Sud America

http://www.loccidentale.it/autore/edoardo+ferrazzani/gli+usa+lasciano+la+porta+aperta+e+pechino+sbarca+in+sud+america+.0051952

è datato.. ma interessante.

Quando da segretario di stato Quincy Adams elaborò la sua 'dottrina', offrendola al presidente Usa James Monroe, allora in centro e sud America la partita giocata da Washington era quella di respingere i governi europei e la loro decadente politica coloniale. Favorire un destino democratico per quelle nazioni sorelle che si ispiravano ai principi della guerra d'indipendenza statunitense. “L'America agli americani” insomma, come gridava proprio Monroe. Oggi la partita è un'altra: nel cortile di casa si è affacciata Pechino ridefinendo completamente le geometrie relazionali trans-pacifiche. Dopo aver investito grandi risorse in una penetrazione economica ultra decennale verso il sud-est asiatico, il Medio Oriente e il continente africano, a caccia di forniture energetiche e di mercati su cui piazzare il proprio export, da quasi otto anni la Cina si è rivolta ai governi sud-americani dando il via a una lenta ma intensa relazione.

La prima visita di rilievo di un presidente cinese in America latina risale al 2001 quando Jiang Zemin aprì la strada al suo vice e poi successore Hu Jintao. Il primo viaggio ufficiale di Hu Jintao nel continente sud-americano è del novembre 2004; un tour di due settimane attraverso il Brasile, l'Argentina, il Cile e Cuba. Qualche mese più tardi fu la volta dell'allora vice presidente Zeng in Messico, Peru, Venezuela, Trinidad, Tobago e Giamaica. In un breve periodo le autorità cinesi sono riuscite a passare più tempo in sud America di quanto non abbia fatto il presidente Usa Bush durante tutto il suo primo mandato. Hu Jintao e Zeng portavano con sé una borsa piena di denari e molte promesse. Come quella di portare l'interscambio commerciale tra la Cina e l'America latina alla cifra di 100 miliardi di dollari entro il 2015 e lo stanziamento di risorse finalizzate a progetti infrastrutturali di varia natura.

Una strategia sud-sud, quella cinese, che ruota intorno a pochi ma decisivi principi: offrire relazioni diplomatiche senza obblighi politici, proporsi come il campione del principio di non interferenza negli affari interni e porsi come il difensore dell'integrità territoriale dello stato. Tutto in cambio di materie prime, abbassamento dei dazi, progetti di sviluppo e ricerca. A guardare le cifre degli investimenti diretti cinesi verso l'America latina si è di fronte ad un dato apparentemente irrilevante: al 2005 solo 100 milioni di dollari. Ma i veri investimenti sono altrove. Pochi mesi fa la Chinalco (China Aluminium Corp.) e la canadese Alcoa hanno acquistato una partita nelle attività minerarie sul Rio Tinto spendendo una cifra pari a 14 miliardi di dollari. Il più ingente investimento offshore di una compagnia statale cinese nella sua storia repubblicana.

Vari sono le ragioni che hanno indotto Pechino a una offensiva diplomatica nella regione. L'energia conta e non poco. Oggi Pechino consuma il 9 per cento delle risorse petrolifere mondiali. Nel 2030 si prevede che ne consumerà per il 14 per cento. Pechino già produce petrolio in Perù e Ecuador e sta investendo nel settore energetico in Bolivia, Brasile, Colombia e Venezuela. Ma c'è anche la questione ossessiva del riconoscimento di Taiwan. Dodici dei ventiquattro stati che ancora riconoscono la Repubblica taiwanese, si trovano proprio nella regione caraibica e centro americana. Attirare questi paesi nella propria orbita privando Taipei del suo residuo margine di azione a livello internazionale è strategico per la dirigenza comunista di Pechino.

A Washington si bada attentamente a considerare le possibili conseguenze di un aumento del peso cinese nella regione. Nel 2005 la sottocommissione per l'emisfero occidentale della camera dei rappresentanti, allora a maggioranza repubblicana, si spinse sino a dedicare una sessione proprio alla 'Cina nel cortile di casa'. Ma in fondo l'arrivo di Pechino è anche il sintomo di un male che si chiama disimpegno politico. Se il predominio economico statunitense nell'emisfero occidentale appare incontestabile, testimoniato da un interscambio commerciale di più di 300 miliardi di dollari, il progetto statunitense di riforma per le Americhe è miseramente fallito negli anni novanta con le presidenze Clinton e ancora più manifestamente con il declino della condivisone tra i governi di tutto il continente del cosiddetto Washington consensus, ovvero di quell'insieme di riforme che gli Usa proposero ai paesi americani il cui fallimento ha prodotto fenomeni neo populisti come l'ascesa venezuelana di Chavez, quella di Morales in Bolivia e infine di Lugo in Paraguay.

Oggi, al termine del secondo mandato, Bush può solo portare in dote un misero accordo tariffario con il governo colombiano, piuttosto osteggiato, in verità, sia in campo democratico che repubblicano. Insomma la dottrina della 'porta aperta' nei confronti della Cina ha nei fatti svuotato la 'dottrina Monroe' di una qualsivoglia attualità. Chiunque vincerà le prossime presidenziali negli Usa dovrà rimodulare la propria idea di 'backyard' e predisporre nuovi strumenti capaci di mettere il governo cinese in condizione di dover assumere quel ruolo di maggiore responsabilità che nella area sud americana si sta conquistando a suon di investimenti. Una nuova era si è aperta dunque nel Pacifico, foriera di turbolenze ma anche di grandi opportunità politiche e economiche.

Nessun commento: