lunedì 11 maggio 2009

Una democrazia in frantumi

http://www.nuvole.it/index.php?option=com_content&view=article&id=372:girotti-fiorenzo&catid=80:numero-38&Itemid=61

di Fiorenzo Girotti*

Gli scontri tra i maggiori poteri dello Stato, che con andamento ciclico e sussultorio punteggiano l’incerto cammino della nostra democrazia, sollecitano una riflessione ben più estesa del merito e del contesto delle questioni sollevate nel recente dibattito. Non si tratta di dare ulteriore spazio al commento degli opinionisti e degli studiosi: molto e molto bene è stato detto e scritto nelle trascorse settimane. Importante e urgente ci sembra piuttosto dare voce e consapevolezza a uno stato d’animo diffuso tra quanti d’istinto sono scesi in piazza in questi giorni per manifestare a difesa della Costituzione e del lavoro, tra quanti non hanno rinunciato a sentirsi parte di una comunità di cittadini.
Al di là dello sgomento e di qualche reazione emotiva – non ingiustificata se si considera la gravità degli attacchi mossi alla Presidenza della Repubblica – ben pochi hanno creduto di dover indulgere ai toni accorati o alle iperboli. V’è anzi un certo fastidio per chi intende evocare un’emergenza democratica a fronte di letali ferite al patto costituzionale. Nessuna dittatura è alle porte e nessuna forza politica intende cavalcare le tensioni fino alle rotture irreparabili. Quella che si percepisce è piuttosto la consapevolezza che di strappo in strappo il tessuto si sfibra, si deforma, si lacera fino a rendere sempre più arduo qualunque tentativo, pur generoso, di ricucitura o di più impegnativo rappezzo.
Le lacerazioni del quadro istituzionale
È un fatto che dalla crisi politico-istituzionale del 1992/93 il principio di separazione e bilanciamento tra i poteri appare seriamente compromesso nel nostro paese. Il tracollo dei partiti della cosiddetta prima repubblica per una lunga stagione ha enfatizzato la politicità del ruolo della magistratura e insieme della Presidenza della Repubblica, ma per reazione ha posto anche le premesse per uno spregiudicato contrattacco degli interessi lesi e dei soggetti che hanno trovato rappresentanza nei partiti populisti di nuova formazione, dalla Lega a Forza Italia. L’autonomia della magistratura è da allora posta pesantemente sotto attacco, né contribuisce a difenderla l’evidenza di croniche inefficienze, privilegi e logiche corporative a fronte delle quali anche i governi di orientamento riformatore hanno mostrato timidezza o impotenza.
Negli stessi anni, in un clima d’opinione largamente favorevole a formule maggioritarie - ben altrimenti radicate nella tradizione politica dei paesi anglosassoni - anche da noi sono state poste le premesse per una progressiva transizione dalla forma di governo parlamentare verso sempre più ibridi assetti, che hanno inteso esaltare le prerogative della maggioranza in una logica bipolare. Non era che l’inizio di un progressivo logoramento della legittimazione del parlamento all’insegna di un preteso contrasto delle pratiche consociative del passato. Il parlamento da sede di rappresentanza degli interessi dei cittadini, da luogo di costruzione di un costante compromesso tra maggioranza e minoranza per la soluzione di problemi collettivi, è stato da allora sempre più assimilato a un’arena di semplice enunciazione degli interessi, di passiva ratifica, a colpi di fiducia, della decretazione governativa.
Al progressivo esautoramento del parlamento si è accompagnata una sistematica perdita di centralità delle assemblee elettive decentrate, dalle istituzioni del governo locale ai governi regionali, cui pure la neolegislazione degli anni Novanta ha attribuito nuovi poteri e competenze. Il principio di legittimazione è da allora unicamente individuato nella maggioranza espressa dal voto popolare, qualunque essa sia: chi vince le elezioni “deve essere posto nelle condizioni di governare” anche contro gli interessi (non meno legittimamente) rappresentati dalle minoranze. In questo modo, nelle città i consigli comunali non hanno conservato che deboli e pressoché formali poteri di indirizzo e controllo. Chi governa sono i sindaci, e per loro gli assessori e i city manager che i primi cittadini hanno scelto per lo più con totale discrezionalità, sulla base di un rapporto meramente fiduciario.
La perdita di centralità delle istituzioni cardine della rappresentanza incoraggia e rafforza pratiche di autorappresentazione dei poteri forti presso gli esecutivi e trasforma in prassi corrente l’accesso diretto degli interessi all’amministrazione. Si affermano, in tal modo, processi di governo sempre più sottratti alla visibilità e al controllo dei cittadini, come pure dei legittimi portatori di interessi, nel momento stesso in cui si assiste ad un’esaltazione quasi ossessiva delle buone virtù della governance e della concertazione, dei processi partecipati e dell’inclusività. Né si pongono argini di una qualche efficacia al trionfo acritico delle logiche manageriali, allo sperpero sistematico, all’uso spregiudicato delle risorse e dell’indebitamento pubblico, all’insensibilità quando non all’arrogante irrisione nei confronti dei bisogni e delle domande argomentatamente espresse dai cittadini. Gli interessi più strutturati e pervasivi, le logiche particolaristiche, l’esercizio autocratico delle proprie prerogative decisionali da parte sia del ceto politico e di governo, sia dei vertici burocratici sembrano in ogni modo destinati a prevalere sul senso di responsabilità, sull’impegno e sulla valorizzazione delle competenze professionali di dirigenti, funzionari e operatori ancora impegnati a difendere il carattere pubblico delle politiche.
In contesto di progressiva e sostanziale espropriazione della sovranità dei cittadini, tanto più apprezzabile appare pertanto l’impegno di politici e magistrati ancora disposti a garantire un’assunzione di responsabilità collettiva, pur nel rispetto di una irrinunciabile sfera di autonomia e libertà di scelta riservata ai singoli alle comunità, nel dare risposta a problemi complessi su cui l’opinione pubblica ha manifestato una così elevata sensibilità. E tanto più intollerabili appaiono quindi sia le rinnovate pressioni ecclesiastiche in tema di bioetica e testamento biologico, esercitate direttamente sulle nostre istituzioni, sia l’opportunismo di un esecutivo che non esita a porre in atto, con legge dello stato, una inammissibile interferenza in quella sfera dei mondi vitali e della responsabilità personale che pure dovrebbe continuare a presidiare le condizioni minime per un’esistenza degna di essere vissuta.
L’ultima e non meno grave lacerazione del tessuto istituzionale e civile del nostro paese è da ravvisare dunque nella rinuncia a tutelare la laicità delle istituzioni, alla luce del principio che lo Stato è e dovrebbe restare la casa di tutti a difesa di diritti essenziali. Allo stesso modo in cui anche la costruzione condivisa delle regole è e dovrebbe restare un principio non negoziabile.
La frammentazione degli interessi
Gli effetti deteriori di un uso particolaristico e partigiano delle istituzioni risultano a dir poco enfatizzati dalla parossistica frantumazione degli interessi che precede e anticipa le spinte disgregatrici della crisi in atto.
È appena il caso di richiamare, in uno scenario di relazioni globali, le trasformazioni indotte dal superamento del modello fordista di impresa e di società, con la perdita di centralità dei grandi soggetti collettivi della sfera della produzione e del welfare, nonché la perdita di ancoraggio ad una dimensione unicamente nazionale delle politiche e dei diritti. Nuovi interessi emergono, si differenziano e si contrappongono a quelli tutelati dai grandi soggetti collettivi, già protagonisti del contratto sociale che negli anni dello sviluppo era stato di presidio alla ricostruzione economica e civile e alla rinascita dei regimi democratici. Nuove linee di divisione oppongono oggi settori dell’economia innovativi e obsoleti, connessi alle reti dell’economia globale e racchiusi in uno spazio locale, mondi del lavoro protetti e non protetti, garantiti e non garantiti, socialmente tutelati e per contro esposti al ricatto di una cronica precarietà.
Se questo è uno scenario comune a molte economie dei paesi più sviluppati, peculiarità della nostra realtà nazionale è la sistematica perdita di peso e forza contrattuale del lavoro, che prelude a una lenta ma inesorabile erosione dei redditi, a una regressiva redistribuzione della ricchezza a carico del lavoro dipendente e, con tutta evidenza, delle posizioni di lavoro subordinate. Ma anche le politiche di condono fiscale e previdenziale hanno significativamente contribuito a questa cospicua redistribuzione della ricchezza a danno, soprattutto, dei lavoratori e degli imprenditori che hanno rispettato le regole del gioco. Strumenti e snodi importanti di questo arretramento sono stati e sono l’attacco sistematico allo Statuto dei diritti dei lavoratori, il varo di normative come la legge 30 che hanno introdotto una flessibilità del tutto disancorata dalla sicurezza, la rottura dell’unità sindacale e l’uso politico della divisione tra le grandi centrali sindacali; e di recente una riforma dei contratti che, con il pretesto di introdurre un livello di contrattazione locale ancorato alla produttività, vanifica l’ultimo presidio realistico per la maggior parte dei lavoratori di piccola e media impresa, di fatto unicamente rappresentato dal contratto nazionale. Accanto a queste dinamiche, di più evidente percezione, la condizione dei lavoratori è però stata ulteriormente indebolita dal sostantivo ridimensionamento delle prestazioni previdenziali, a cominciare da quelle pensionistiche assicurate alle fasce più giovani, e dalla debole o inesistente tutela del rischio di disoccupazione, in assenza ancora di una ragionevole garanzia del reddito e di veri ammortizzatori sociali a protezione delle posizioni lavorative più vulnerabili.
Nella logica di un cinico divide et impera il mondo del pubblico impiego, delegittimato da sistematiche campagne mediatiche, ancorché in assenza di qualunque investimento di riqualificazione, è contrapposto a quello del privato, i lavoratori stabili ai precari, gli strutturati al lavoro nero, i giovani agli anziani, la forza di lavoro autoctona a quella immigrata; la lealtà fiscale e contributiva alle pretese buone ragioni di un’estesa evasione ed elusione fiscale; l’economia legale a quella illegale quasi sempre in simbiosi con il vasto territorio dell’economia criminale.
Una società disgregata
Sarebbe facile obiettare che molti tra quelli richiamati sono processi di lungo periodo, comuni a molte delle società cosiddette complesse in un orizzonte di crescente globalizzazione dei rapporti economici e sociali. Ciò che appare allarmante, tuttavia, per riferirci ancora alla realtà della società italiana, è l’intensità e la rapidità dei processi involutivi, con effetti cumulativi tanto più rapidi e sensibili quanto più appaiono deboli le politiche e le azioni di contrasto.
Non sono soltanto l’economia e il lavoro a dar segni di arretramento. Dalla scuola alle politiche di sicurezza sociale, dalle politiche per lo sviluppo alle infrastrutture e alla tutela dell’ambiente e del territorio, gli ultimi epigoni delle sirene neoliberiste si affannano ad esaltare le buone virtù del mercato, delle privatizzazioni, della ricerca univoca di soluzioni individuali a problemi collettivi.
La società si frammenta in corpi sempre più autoreferenziali, la tutela di interessi categoriali gode di maggiore legittimità della ricerca concertata di soluzioni orientate a un pubblico interesse, la difesa corporativa degli interessi di specifiche aree territoriali prevale sulle politiche di integrazione tra Nord e Sud, tra aree forti e deboli, tra realtà centrali e periferiche.
Alla frammentazione della società in segmenti e corpi separati si accompagna, quel che è più grave, una progressiva attenuazione del senso della cittadinanza e una minore attenzione al valore-obiettivo della coesione sociale, come la pauperizzazione dei soggetti più deboli, mediante un maldestro uso delle “carte sociali”, ha di recente messo in mostra. L’integrazione degli immigrati, fino a ieri perseguita in una logica di reciprocità tra diritti e doveri - pur tra non poche incomprensioni della vera portata del problema anche da parte della sinistra - è oggi assimilata a mera azione di contenimento e di utilizzo di una forza lavoro a basso costo. La costruzione politica e mediatica del problema della sicurezza, in assenza di veri investimenti e di un efficace presidio del territorio, è unicamente pretesto per campagne di demonizzazione degli immigrati a sfondo razziale; anziché operare di prevenzione (ed educazione dei cittadini all’impegno solidale) si alimenta la paura e l’indifferenza.
L’allentamento dei legami sociali e la perdita di spirito di tolleranza producono un sensibile arretramento non solo sul terreno dei diritti politici e sociali, ma anche su quello non meno cruciale dei diritti civili. In questa luce, le prove tecniche di stato di polizia, sperimentate a Genova nel 2001, segnano indelebilmente la coscienza di ogni democratico. Non meno inquietanti si profilano per altro anche le intercettazioni sistematiche, non quelle mirate a specifiche inchieste ma unicamente dirette a produrre strumenti di controllo da parte di poteri - non del tutto occulti - su politici, amministratori e comuni cittadini.
Crisi della rappresentanza e collasso dei partiti
A ricomporre i diversi tasselli, quello che si disegna è un quadro a dir poco inquietante. Né conforta esorcizzarlo richiamando dinamiche non dissimili che investono democrazie di ben più solida tradizione della nostra. Demagogia e populismo, sull’onda dell’antipolitica, caratterizzano in effetti l’esperienza di molti altri paesi, e per converso qualunquismo ed etnocentrismo connotano gli orientamenti di grandi masse di elettori. Vero che la nostra non è di certo l’unica esperienza di involuzione democratica, in cui interessi privati e un populismo spregiudicato si fondono in operazioni elettorali di grande successo, anche grazie a un sistematico impiego di pubblicità ingannevole. Ciò che tuttavia colpisce, del caso italiano, sono gli effetti di aggregazione e i meccanismi cumulativi; la simultaneità delle rotture e il sincronismo delle dinamiche involutive che accelerano l’arretramento.
In quale altro paese, di fronte a un’offensiva di tale portata si assiste al crollo sistematico e simultaneo delle principali forze politiche in grado contrapporre azioni di contrasto, tanto da ridurre all’impotenza e all’incapacità di formulare proposte larga parte dell’opposizione?
In presenza di un’esigenza diffusa di riscoperta dei denominatori comuni e di una ritrovata unità d’azione si è preferito percorrere o addirittura esaltare le logiche centrifughe del “correre da soli”. Nell’intento, pur condivisibile, di costruire una grande forza democratica e riformatrice si è preteso di tenere insieme culture e componenti che hanno convinzioni a dir poco contrastanti in materia di diritti civili e laicità dello stato, mentre un patrimonio di militanza e radicamento sociale veniva progressivamente dissipato. Invece di ricomporre interessi diffusi e soggetti sociali, cui dare nuova voce e rappresentanza, si è preferito ripiegare su forme neppure troppo trasformate di patronato degli interessi, su logiche correntizie o neonotabilari di puntiglioso presidio delle proprie nicchie elettorali, nella costante preoccupazione di un controllo esclusivo del potere di designazione dei rispettivi partiti. Da ultimo, in presenza di una crisi pressoché inarrestabile di credibilità e fiducia, proprio nella maggiore forza di opposizione è prevalsa l’idea di dover elevare le soglie di sbarramento e di limitare la facoltà concessa agli elettori di operare scelte tra i candidati imposti dai vertici di partito.
Sembra ovvio doverlo ribadire, ma esiste l’errore in politica ed è bene che sappiano tenerne conto non solo i leader, che in quanto tali dovrebbero sentire tutta l’urgenza di correzioni di rotta non più rinviabili, ma anche gli elettori e i militanti che, con diversa responsabilità, ne hanno assecondato le scelte.
Ricomporre uno schieramento che abbia al centro la tutela del lavoro e dei diritti, che sappia sviluppare momenti di confronto e di aggregazione, che sappia dare rappresentanza ai diversi frammenti di una società e di un’economia sempre più spoglia di regole e capacità di governo, dovrebbe imporsi, con tutta evidenza, come l’obiettivo primario di ogni forza politica che, al di là di miopi tatticismi, senta ancora la responsabilità di risanare questa democrazia in frantumi.
*Fiorenzo Girotti insegna Scienza Politica all’università di Torino

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