venerdì 22 maggio 2009

C’è del bene comune in Danimarca

http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=9161

lo vedi? Il termine valori.. non deve fare poi tanta paura.
Ed è vero quindi che non ci sono più i valori... di una volta.

COPENAGHEN - La dimensione politica degli ultimi anni si è spesso servita di una pericolosa alchimia mediatica per impadronirsi dell’immaginario collettivo. Il dato più preoccupante è che essa ha dato vita a un mutamento non temporaneo ma, verosimilmente, di lungo periodo della dimensione culturale, per certi versi quasi antropologica, nel nostro Paese.
La necessità di un’inversione di tendenza mi è parsa particolarmente evidente alcuni giorni fa, mentre ero immerso in una lettura accademica all’Università di Copenhagen. Stavo leggendo un articolo sulla cultura come strumento di competitività nelle strategie danesi legate alla globalizzazione. In particolare mi ha colpito come, in quest’ottica, venga attribuita una grande importanza ai valori culturali e morali tipici di una popolazione, cultura naturalmente intesa in senso tradizionale, come insieme di ideali storicamente stratificati. I nuovi principi della dimensione sociale danese, secondo l’autore, sarebbero diventati anche la forza propulsiva dell’economia.
A questo scopo è stato persino adottato un metodo quantitativo di misurazione dei valori tipici di quella cultura. Il Consiglio Nazionale dell’Innovazione, infatti, da alcuni anni sta monitorando e identificando le “best practices”, sulla base delle virtù in cui la Danimarca eccelle rispetto ad altri Paesi (la cd. “World Class Danishness”). Secondo un rapporto di tale istituzione, del 2005, la world-class corrisponderebbe a una certa visione umanistica della cultura danese: «I Danesi non credono nei sistemi, ma credono nelle persone, nel fatto che il singolo individuo possa fare la differenza».
Una simile concezione positiva dell’essere umano, basata sul riconoscimento della fiducia reciproca e sul rispetto tra individui uguali fra loro, favorisce un meccanismo di cooperazione interpersonale e di gerarchie pressoché inesistenti, tanto che questo sistema, a quanto pare, si sta trasformando in un vero e proprio vantaggio competitivo anche a livello economico. Il concetto di “cohesive power” - la condivisione di valori comuni molto forti, da non confondersi con il termine “nazionalismo” - è diventato uno dei cavalli di battaglia del governo liberal-conservatore al potere a Copenhagen. Alcuni sondaggi internazionali degli ultimi anni, infatti, hanno riscontrato che i danesi sono tra le popolazioni al mondo con il maggior senso di fiducia reciproca. Questo sentimento comune facilita un clima di maggiore distensione, grazie al quale le persone si sentono tranquille, al sicuro e, di conseguenza, possono cooperare liberamente per il bene comune. Il senso di fiducia, dunque, contribuirebbe a un certo dinamismo della società, così come al benessere stesso dei cittadini. Il motivo di tanto senno sarebbe da ricercare in una sorta di “individualismo comunitario” tipico di quella società in quanto, se è vero che quella danese è una cultura individualista - ma non nel senso dell’individualismo “laissez-faire” - è altrettanto certo che essa si fonda anzitutto su valori di eguaglianza, responsabilità e rispetto.
copenhagenE quali sarebbero le strategie per una simile conversione? In primo luogo un approccio orientato all’“user-driven innovation” secondo cui la tecnologia non sarebbe il motore privilegiato per creare innovazione, bensì le reali esigenze dell’utente del bene o servizio, della persona che dovrà usufruirne e che diventa così parte attiva nel processo di sviluppo. Tale metodo si manifesterebbe anzitutto nelle relazioni di cooperazione tra le aziende e il consumatore finale, sfruttando una logica di networking. D’altra parte una tendenza particolarmente diffusa in molti Paesi del Nord Europa, in questi ultimi anni, è quella di servirsi di profonde analisi etnografiche in vari settori: dall’economia al business, dall’architettura al marketing, dalla politica al sociale.
L’altro asse strategico riguarda, invece, la particolare attenzione alla qualità della vita, ai cosiddetti settori “etici” e quindi cruciali per tutta la società danese, in quanto offrono un solido vantaggio competitivo nell’era della globalizzazione. Per queste ragioni i Paesi scandinavi – e la Danimarca in particolar modo in questo contesto – appaiono come una delle poche realtà al mondo in grado di generare un vero cambiamento dal basso, a partire dalle risorse intrinseche di quella cultura, che agiscono a livello individuale prima ancora che collettivo. Un bell’esempio di democrazia “reale” e condivisa.
Certo sarebbe ingenuo pensare che in Italia si possa improvvisamente instaurare lo stesso senso di fiducia e di cooperazione, soprattutto dopo gli ultimi anni di aspro confronto e conflitti di parte. D’altronde il continuo attaccamento al potere dimostrato da una classe politica, intenta ad auto-perpetuarsi in un costante sforzo di foga autoreferenziale, non rappresenta proprio la mancanza di una certa visione del bene comune, del cohesive power appunto?
La Danimarca è un Paese giovane, è un dato di fatto che si osserva ovunque, anche semplicemente passeggiando nelle strade. I giovani contribuiscono in maniera determinante all’evoluzione di tutta la società. Alcune settimane fa, sempre a Copenaghen, ho assistito alla premiazione di un concorso di architettura, a cui avevano partecipato varie aziende locali. Era impressionante constatare come la maggior parte di quelle aziende fosse costituito da giovani al di sotto dei trent’anni. È il tipo di cambiamento che servirebbe anche in Italia: creatività, entusiasmo, sensibilità nuove.Persone con caratteristiche simili se ne incontrano anche da noi, individui che con le loro idee innovative potrebbero fornire un contributo molto elevato. Tali risorse, tuttavia, rischiano di dissiparsi nella routine quotidiana e nel degrado di modelli economico-culturali di stampo qualunquista e individualista. Le nuove generazioni hanno avuto la fortuna di viaggiare, di conoscere altre culture e di confrontarsi con il mondo globalizzato in tutte le sue componenti. Gente in grado di assumersi delle responsabilità se solo, finalmente, ne avesse l’opportunità.
Anche nella nostra società dunque, nonostante la trasformazione della dimensione culturale degli ultimi anni, esistono potenzialità enormi. Non illudiamoci, però, che basti consentire l’accesso ai giovani nei vari settori della società e nella politica. Serve, al contempo, una profonda riflessione sui valori, che non sono proprietà esclusiva del campo religioso e nemmeno di quello politico-filosofico. È finito ormai il tempo delle ideologie e delle lotte di classe - il primato della politica - quel che serve è davvero un nuovo umanesimo che dia vigore ai valori comuni della nostra cultura, che sono normalmente incorporati nell’individuo prima ancora che nella collettività. Tali valori non sono solo cristiani, né laici, né borghesi o proletari, ecco perché è necessario tornare a ragionare in termini di solidarietà umana e sociale insieme, non dimenticando che ogni collettività è composta prima di tutto dai singoli individui. Quello che occorre è una fase di analisi e progettualità a livello antropologico, che si avvalga del contributo di varie sfere della società (educazione, media, università, spettacolo, religione ecc.), nuovi modelli culturali che partano dalla quotidianità dei bisogni piuttosto che dalle forme politiche che sinteticamente vogliono rappresentarli, che ne dovrebbero essere piuttosto una conseguenza.
Se ci si vuole porre come qualcosa di veramente alternativo all’esistente, d’altra parte, dovremmo assumerci la responsabilità di dare il buon esempio e di convincere le persone che il bene comune si persegue con nuovi valori, con un rinnovato modo di interagire nella società, con la filosofia della condivisione e del confronto, del rispetto reciproco come premessa indispensabile.
Il bene comune non può essere coltivato nello stesso terreno dei pregiudizi, dell’ignoranza, della presunzione e della paura. Le forze che si propongono come modello alternativo, al momento ancora minoritarie nel Paese, la smettano di mostrare come unico obiettivo quello di demolire l’attuale sistema. Prima ancora di organizzarsi e mobilitarsi a livello politico servono nuovi strumenti culturali, filosofici e velleità umanistiche per fronteggiare questo decadimento generale verso cui è scivolata la nostra cultura. È questa la vera rivoluzione. Un nuovo umanesimo, in cui prevalga la necessità di diffondere una coscienza e una dimensione personale sempre più intime, è dunque il presupposto essenziale per una rinnovata evoluzione sociale, nella consapevolezza che una comunità ha bisogno di individui “adulti”, in grado di pensare e di elaborare una loro visione del bene privato e collettivo, non di persone intente unicamente a perseguire le proprie vanità. La coscienza del nostro intimo deve diventare base d’analisi imprescindibile. Voltaire aveva ragione nel dire che “ciascuno dovrebbe imparare a coltivare il proprio orticello…”.
Dovremmo allora puntare alla profondità recuperando, ad esempio, il valore della poetica nella vita quotidiana. La poesia ha il vantaggio di parlare all’anima, alle emozioni, evitando tutta una serie di speculazioni legate all’intelletto e alla logica, dominanti nella nostra civiltà. Per fortuna c’è chi, come Benigni, ancora insiste nel sottolineare che siamo stati il Paese di Dante Alighieri e del Rinascimento. È alla bellezza che dovremmo consacrarci nuovamente, alla semplicità del quotidiano, all’essenziale, alla riscoperta genuina e consapevole del mondo naturale, della terra. Potrebbero essere questi i valori - proiettati al futuro, non solo al passato - la nuova direzione per il cambiamento, il vantaggio competitivo per ridare dignità a questa nostra cultura e a tutta la società italiana. I semi sono già presenti, basta non continuare a calpestarli.
Fonti: Søren Christensen (University of Copenhagen, Department of Ethnology): World Class Danishness. Culture as Competitiveness in Danish Globalization Strategies. Ethnologia Europaea vol. 38:2.

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