giovedì 11 settembre 2008

Liberalismo in crisi

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Liberismo in crisi. Ma la sinistra se ne accorge?
Alfonso Gianni
La crisi non conosce soste. A soli due giorni dal massiccio intervento del Tesoro americano che porta alla privatizzazione di Freddie e Fannie, le due maggiori istituzioni finanziarie di assicurazione dei mutui, che avrebbe dovuto portare calma nel tormentato panorama economico, è la prestigiosa banca newyorchese Lehman Brothers a trovarsi nei guai. E' bastato un dispaccio giunto da Seul che annunciava la chiusura di un negoziato per il collocamento di titoli con la Korean Development Bank, che le quotazioni in Borsa della banca americana sono precipitati ad un livello inferiore al 90% rispetto ad un anno fa. Nel giro di pochi mesi la Lehman Brothers aveva già subito un sostanzioso ridimensionamento, da 26mila a 19mila dipendenti, una perdita di grandezza che mette seriamente in discussione il suo ruolo di banca globale. Ma a Wall Street hanno perso anche Merrill Lynch, Citigroup, Goldman Sachs, J.P. Morgan Chase.
L'euforia di cui i giornali parlavano dopo il salvataggio di Freddie e Fannie si è già smarrita. Forse non è mai stata vera e si è trattato solo di illusione durata un momento che ha attecchito solo nel mondo più volubile dell'informazione che in quello più concreto degli operatori finanziari. Intanto gli effetti della crisi si dilatano nel mondo. Colpiscono in Europa, con particolare accanimento sul mercato immobiliare della Spagna, ma giungono anche in Cina, ove la crisi della vendita degli immobili non può certo essere dovuta alla troppa permanenza dei cinesi davanti ai televisori per ammirare l'indubbio successo delle Olimpiadi di Pechino.
Ha voglia Innocenzo Cipolletta a dire, come ha fatto sul Sole24Ore di ieri, che nell'epoca della finanziarizzazione dell'economia "il superamento di una crisi è solo la fase di transizione verso altre fasi di crisi, senza che per questo si determinino fenomeni catastrofici". Non solo una tale concezione iperottimistica del carattere fisiologico o addirittura benefico delle crisi, è assai difficile da spiegare a coloro che le subiscono direttamente sulla propria pelle, sia che si tratti di singole persone che di interi paesi. Ma il punto è che le risposte che vengono date a queste crisi sono tali da mettere in discussione, e in modo persino radicale, i presupposti basilari delle teorie liberiste. Peccato che sia solo la sinistra a non accorgersene. Un economista intellettualmente onesto come Luigi Zingales, sempre sul giornale confindustriale di due giorni fa, rilevava come sia strano per un liberista convinto doversi complimentare per l'intervento di salvataggio del Tesoro americano e riconosceva che in realtà "il fallimento è alla base della disciplina di mercato", ovvero non può darsi realmente la seconda senza il primo. Per dirla con il famoso brocardo latino, storpiato un tempo da Claudio Martelli e più recentemente da Silvio Berlusconi, simul stabunt simul cadent . Già ma il fallimento, soprattutto quando riguarda colossi di questo tipo, trascina con sé fenomeni e conseguenze così gravi e incontrollabili sul terreno economico come su quello politico, che anche i più accesi liberisti riscoprono la bontà dell'intervento statale, specialmente quando si possono privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Far fallire le due sorelle dei mutui, che gli americani con un unico nome chiamano Frannie, avrebbe significato mandare per aria il sistema americano. Le due società hanno finanziato mutui per 5,2 mila miliardi di dollari, pari ad un terzo dell'intero Pil statunitense; hanno venduto bond in tutto il mondo per 1.300 miliardi di dollari, di cui ben 376 alla Cina. Tutte queste somme erano già prima garantite dal tesoro americano. Le due società erano già Gse (Government sponsored enteprises), da noi si sarebbe detto parastatali, e potevano così vantare un vantaggio sul mercato di almeno 6 miliardi di dollari annui di protezione pubblica. Del resto Fannie Mae svolgeva all'origine una funzione sociale ed era perciò nata come società pubblica in pieno New Deal, nel 1938, per aiutare chi aveva poco reddito ad acquistare la casa, il sogno americano, quando i proprietari della propria abitazione erano attorno al 44% (ora sono oltre il 70%). Poi venne privatizzata, ma solo parzialmente, nel 1968 da Lyndon Ben Johnson. Poi Nixon, nel 1970, creò la sorella Freddie Mac per contenere lo strapotere di mercato della prima. La seconda nacque già semiprivata, ovvero era sempre la mano pubblica che la proteggeva. In sostanza vigeva il principio che i profitti erano privati e le perdite socializzate.
Per tutti questi motivi è vero che il Tesoro americano non poteva fare a meno di intervenire. Lo ha fatto con 200 miliardi di dollari, ma il ministro Paulson ha candidamente dichiarato di non sapere a quanto ammonterà alla fine il costo di questo salvataggio. Se poi dovesse intervenire in modo analogo anche nel caso Lehman Brothers sarebbero guai. Come dimostra la storia dei due colossi dei mutui, il liberismo allo stato puro non è mai esistito. Ora è in aperta crisi anche la sua versione più sporca e pragmatica e non è cosa da poco.
L'Unione europea fa invece orecchi da mercante (metafora appropriata). Almunia dichiara che va bene così, a proposito di Frannie, mentre Daniel Gros del Ceps di Bruxelles, uno degli ideatori del piano di stabilità, critica il Tesoro americano non tanto per il salvataggio, quanto per l'intervento nelle scelte di comportamento delle due società. E' una situazione paradossale. Il Fondo monetario internazionale, come ha con forza denunciato Joseph Stiglitz, ha per anni messo il naso nelle economie e nelle politiche dei paesi in via di sviluppo condizionando i suoi "aiuti" alle sue inflessibili e fallimentari direttive, e tutto andava bene. Se invece uno stato salva una azienda e pretende da essa un comportamento di un certo tipo sarebbe un'aggressione insopportabile ai principi del libero mercato. I "giapponesi" - nel senso di strenui combattenti a oltranza- del liberismo pare si siano trasferiti in Europa e continuano a fare danni irreparabili.
Il pericolo dell'inflazione si attenua, anche se certo non sparisce, ma la Banca centrale europea non decide l'abbassamento del costo del denaro. Comunque il petrolio scende sotto i 100 dollari a barile, dopo che solo nel luglio scorso aveva superato il record dei 147 dollari. Di per sé non è esattamente un'ottima notizia. Indica infatti che la spinta recessiva si sviluppa rapidamente. Persino la frenetica Cina pensa di rallentare un po'. Altri sono costretti a farlo. Altri, è il caso della Ue e di diversi suoi paesi, fra cui il nostro, lo hanno già fatto perché non hanno politiche economiche in grado di garantire una ripresa. Non solo, ma se scende il prezzo del barile può anche attenuarsi quello stimolo ad una qualche modificazione del modello energetico. In ogni caso farsi dominare dal saliscendi del prezzo del petrolio significa consegnarsi nelle mani della speculazione finanziaria e di scelte altrui.
Una buona notizia invece c'è, anche se è passata quasi inosservata, e viene, tanto per cambiare, dall'America Latina. Il Brasile e l'Argentina hanno deciso di abolire il dollaro nelle loro relazioni economiche e commerciali. Per i due paesi, in particolare l'Argentina, le cui ultime crisi economiche sono dipese direttamente dall'andamento del dollaro, si tratta di una decisione storica. Dovrebbe essere l'occasione per rimettere in discussione i rapporti fra le monete a livello mondiale. Ma non sono così ottimista.


11/09/2008

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