giovedì 13 agosto 2009

moriremo telespettatori

un articolo del 2002 .. oltremodo attuale


Grazie ai format il piccolo schermo è più che mai in salute. Con gioia di maggioranza e opposizione che in materia sono concordi: resti così com'è
di Peppino Ortoleva
La vita oltre la televisione: è il titolo, tra il macabro e il trionfalistico, di un libro pubblicato nei primi anni Novanta (e tradotto in Italia nel 1996) da George Gilder, uno dei vari guru della società dell'informazione, politicamente il più schierato a destra. Come dire che la televisione è morta, anzi la televisione è la morte; che la vita è dopo, è la post-televisione fatta di interattività e di web, e sta arrivando. Enunciazione forse più esplicita, un po' greve e grezza come il suo autore, di un grande luogo comune del decennio scorso, che rimbalza dalle pagine di Negroponte a quelle di Bill Gates (o dei suoi ghost writer) ai loro diligenti divulgatori e diffusori sui quotidiani e settimanali italiani. Viva e vegeta In effetti, abbiamo tutti un po' creduto, negli anni Novanta, che la televisione fosse spacciata: destinata a sparire per essere sostituita da parte delle tante diavolerie che la tecnologia sfornava, il web o i videogame, il satellite o l'interattività. O quanto meno, che fosse destinata in tempi brevi a cambiare totalmente faccia. Avremmo lasciato presto la tv "generalista" - quella che non ti dà scelte se non a colpi di zapping - ai vecchi (la tribù di Paolo Limiti) e ai ceti più esclusi. Anni fa la rivista americana Wired, altra bibbia instant della società dell'informazione, dichiarava che ormai il pubblico televisivo presentava le stesse caratteristiche demografiche dei fumatori, anziano, povero, marginale dal punto di vista del marketing. Un'etnia in via di estinzione, cancro ai polmoni e malattie della vecchiaia aiutando. Al loro posto, c'era chi vedeva avanzare l'altra tribù, quella dei giovani "naturalmente informatici" e dei consumi opulenti fatta di computer e reti, commercio elettronico e viaggi: gente che se proprio deve sedersi davanti a un video pretende di scegliere davvero; e allora vai con pay-tv e pay-per-view (rispettivamente canali in abbonamento e programmi singoli a pagamento), in attesa di quella tv interattiva che dovrebbe cambiare l'idea stessa di spettacolo facendo - così ci giuravano - di ogni spettatore un autore, un prosumer cioè un produttore-consumatore. Uno che si fa la regia personalizzata delle partite di calcio, che decide il finale dei suoi Posto al sole e magari si fabbrica i suoi Grande fratello in casa con gli amici.E c'era già, fra i tanti trionfalismi post-televisivi, chi cominciava a tessere le lodi funebri della tv generalista prossima a defungere, che univa le nazioni e assumeva bonariamente funzioni educative, che aveva insegnato a tutti a parlare l'italiano e garantiva un sano intrattenimento alle famiglie… dimenticando naturalmente la tanta, tantissima immondizia che avevamo ingerito (chi c'era) anche ai tempi di Bernabei. Perché una delle potenze del mezzo sta nel fatto che l'immondizia media si dimentica, mentre i rari programmi discreti si ricordano.I ritmi lenti dell'evoluzione. Fatto sta che i necrologi, come i trionfalismi, erano prematuri. A sparire, o a vivere quella vita stenta che per le innovazioni - specie di questi tempi - è una maledizione quasi peggiore, sono stati per ora alcuni gadget che si giurava sarebbero stati gli eredi, e i becchini, della vecchia tv: la web tv che avrebbe dovuto portare in internet chi è troppo pigro, ignorante o anziano per il computer, o il video on demand che avrebbe dovuto sostituire il negozio-noleggio di videocassette sotto casa con un sistema totalmente digitalizzato e in rete. La televisione, quella che guardiamo tutti i giorni col telecomando in mano senza troppo chiederci quali tecniche la facciano funzionare, è ancora là, in tutta Europa e anche negli Stati Uniti. Certo, il bouquet che ci viene offerto dal nostro teleschermo si sta articolando e anche un po' diversificando: il decoder di D+ o di Stream, così come del resto il buon vecchio videoregistratore, e l'offerta che ci arriva dal satellite aggiungono nuove possibilità di scelta per le nostre serate. Ma anche per le famiglie che ne dispongono, una parte centrale dell'offerta televisiva è ancora quella che arriva sulle reti via etere. La tecnologia, almeno sul breve periodo, non solo non ha ucciso la televisione tradizionale, ma l'ha aiutata a rigenerarsi, integrandosi con nuovi mezzi e nuove proposte. Come fanno tutti i prodotti di successo, che di tanto in tanto introducono novità apparentemente rivoluzionarie lasciando intatta la base.La televisione, diceva Orson Welles, scorre come l'acqua in cucina, sta accesa come la luce in una stanza. Il piccolo schermo assorbe tutto, da sempre: notizie e film, canzoni e giochi, documentari e conversazioni, e continua a farlo anche se i film ci arrivano da D+ e le canzoni dal satellite. La tv cambia, ma coi ritmi dell'evoluzione darwiniana, per adattamenti progressivi, per prova ed errore. E davanti al teleschermo continuiamo a passare parecchie ore al giorno, facendo altro o stando piantati in poltrona, sonnecchiando o appassionandoci a seconda dei momenti. Se abbiamo creduto che sarebbero bastate le novità tecniche degli anni Novanta per non farci morire telespettatori, abbiamo preso uno dei tanti abbagli di cui quel decennio è stato prodigo. E abbiamo fatto un errore ancora più grave.se abbiamo creduto che i problemi politici connessi, soprattutto in Italia, al sistema televisivo si sarebbero risolti da soli grazie all' innovazione tecnica, o alla globalizzazione del mercato. Lo spettacolo nazionale. Questa è un'altra illusione ottica che gli anni Novanta ci hanno lasciato in eredità: l'idea che ormai il mercato televisivo si fosse internazionalizzato, che sarebbe presto diventato terreno di contesa tra pochi grandi soggetti planetari. E che Berlusconi e la Rai sarebbero stati ridimensionati, o sbaragliati, da Murdoch o magari dalla mitica (o temutissima a seconda dei casi) Microsoft. In realtà, la televisione rimane il medium più nazionale che ci sia: la maggior parte dei programmi, dei divi, dei tormentoni che li accompagnano e che calano la tv nel suo brodo di coltura, la conversazione quotidiana, sono rigorosamente mirati, in Italia agli italiani, in Francia ai francesi, e così via. Provate a citare a un vostro amico tedesco Gerry Scotti o le veline, Mentana o Baudo; e provate a farvi citare i nomi che per i tedeschi telespettatori sono di casa. Due universi separati, sostanzialmente incomunicabili.Non voglio dire con questo che non possano fare i soldi, con la tv, delle aziende che agiscono su scala internazionale. Al contrario, se ne possono fare tanti. Ci sono diversi mercati globali dentro la tv. Quello della fiction, dei telefilm, è antico quasi quanto il mezzo stesso (qualcuno si ricorda ancora Rin Tin Tin?) ed è il diretto prolungamento del potere mondiale di Hollywood. Del resto, è proprio da Hollywood, dalle vecchie major o da qualche new entry come la Lorimar che inventò Dallas, che vengono questi prodotti. E c'è un mercato globale più recente e floridissimo: quello dei format, come Il grande fratello o Chi vuol essere milardario. Un fenomeno nuovo, che somiglia un po' al franchising stile MacDonald (io ti do un marchio e uno standard, tu ci metti la carne e le patatine, insomma il prodotto vero) e che nasce tra l'altro dall'abnorme estensione del commercio dei diritti. (Una volta, la tv italiana vedeva The 64,000 dollar question e qualche imitazione internazionale, copiava un po' qua e un po' la e faceva Lascia o raddoppia; ora deve comprare i diritti per rifare Lascia o raddoppia da chi l'ha riciclato e se ne è appropriato chiamandolo Who wants to be a millionaire o Chance of a lifetime). Ma proprio il trionfo dei format dovrebbe farci capire quanto nazionale è, ancora, la tv di quest'epoca globalizzata. Infatti, perché si vendono i format e non i programmi già fatti? Perché se si vuole il successo l'idea va calata nelle specifico nazionale: in Italia come in Francia o in Portogallo, per fare il Grande fratello ci vogliono protagonisti che siano del Paese, anzi che in qualche modo lo rappresentino - pensiamo alla scelta curatissima delle regioni di provenienza dei dieci prigionieri della casa, uno spaccato d'Italia simile a quelli che facevano una volta nei film di guerra stile Una sporca dozzina. Vi ricordate: un nero e un ebreo, un greco e un ragazzino del Midwest... E qui, le lombarde e la sarda, il campano e il siciliano, il marchigiano e la pugliese…Del resto, anche la più globale delle reti, Mtv che ci dicevano non avesse bisogno di traduzioni perché il linguaggio delle musica è globale, si è imposta in Italia quando e perché si è italianizzata. Non solo e non tanto nella lingua, quanto nelle scelte musicali, nel gusto, nei ritmi. La tv è nazionale perché è ancora nazionale, in prevalenza, il mercato, soprattutto il super-mercato, quello dove si vendono i beni di largo consumo da cui la tv dipende per sopravvivere. A due-tre grandi campagne pubblicitarie globali di cui tanto si parla (come quelle della Nike) ne corrispondono ogni anno decine, centinaia di meno vistose che vendono latticini e giocattoli, tariffe telefoniche e catene di grande distribuzione: sono queste che fanno il fatturato. E la tv è nazionale perché lavora sulle abitudini più consolidate del pubblico, non sull'innovazione; e fra le tante identità di cui ciascuno di noi dispone, l'identità nazionale, non sarà magari la più radicata nel profondo (chi può dirlo?), ma certo gode di un vantaggio straordinario: è quella che ci dà la scuola, è quella che ci dà la lingua corrente, è quella che viene confermata tutti i giorni dai nostri consumi.Un affare di Stato. C'è poi un altro motivo per cui la televisione è dappertutto nazionale: è un affare di Stato. Lo è, attenzione, in tutti i Paesi, perché non esiste al mondo sistema televisivo dove il sistema politico non metta lo zampino, se non altro attraverso sistemi di concessioni e autorizzazioni (sì, anche negli Usa) che in altri media sarebbero costituzionalmente vietati. Ma certo, in Italia la tv lo è ancora di più, perché da decenni ormai il nostro sistema televisivo è il gemello siamese, o se volete lo specchio distorto, del sistema politico. Lo specchio: riproduce fedelmente gli equilibri e le spartizioni tra i partiti e le correnti, segue con puntualità tutte le giravolte della politica. Ma distorto, perché non è retto da regole costituzionali, ma da un misto di "normali" regole economiche (dopo tutto si tratta di aziende, sebbene tutte almeno un po' anomale) e di norme giuridiche che seppure nate con intenti di garanzia sono diventate fonte di interminabili ricatti e veti incrociati: dalla commissione di vigilanza alla par condicio, dai sistemi di nomina del consiglio Rai alla legge Mammì. E perché in questo campo, soprattutto da quando c'è il duopolio, non esistono norme universali e neutrali: ogni proposta, ogni legge, ha beneficiari e vittime, porta non scritti, ma evidenti, i nomi e i cognomi di coloro che sono interessati alla sua entrata in vigore, o ne sono danneggiati.Ed è evidente che per ora il sistema politico, nel suo insieme, è interessato al mantenimento della situazione attuale; che un ridisegno del sistema non lo vuole realmente nessuno. Per Berlusconi, inteso come imprenditore, è il migliore dei mondi possibili. Dispone di tre reti, cosa che gli permette una redditività eccezionale (in pratica, le prime due reti ripagano i costi di tutte e tre, e il reddito derivante dalla terza è puro utile); in nessun altro Paese è permesso a un solo soggetto privato di avere tre reti nazionali, qui è reso possibile anche dal fatto che la Rai ne ha altrettante. Inoltre, la concorrenza - la Rai appunto -, questa azienda-non azienda, ircocervo un po' impresa e un po' ministero, è sottoposta a una serie di vincoli: il tetto sulla pubblicità, la commissione di vigilanza, le nomine politiche. Ogni cambiamento del quadro comporterebbe da un lato un ingresso di potenziali concorrenti veri, di aziende cioè che non avrebbero tutti quei vincoli, dall'altro una evidente necessità di riequilibrio: in soldoni, la perdita di una o due reti, e addio il margine di utile. La sinistra è prigioniera della Rai: ogni partito della coalizione ha i suoi uomini-Rai che fanno lobby per la difesa dell'azienda così com'è, delle sue migliaia di dipendenti tutti in qualche modo organici al sistema politico. E si è creato un sistema di veti incrociati all'interno dei Ds, tra veltroniani e dalemiani, o come si chiameranno d'ora in poi (i nomi cambiano, le logiche correntizie restano, soprattutto alla Rai). In sostanza, anche a sinistra ogni tentativo di cambiare lo status quo televisivo scatena un putiferio, alla fine del quale tutto resta come prima. C'è da scommettere che nei prossimi mesi, e forse anni, la paralisi sarà ancora peggiore di prima. Il vero capolavoro di Roberto Zaccaria è stato fare della Rai una bandiera antiberlusconiana. Adesso chi la tocca più? Cambieranno i vertici, se, come si vocifera, è proprio la Rai la merce che Fini ha ottenuto in cambio di tante rinunce, e dopo lo scudo crociato e la quercia la Rai si vestirà di tricolore. Ma non cambierà la struttura. È mai veramente cambiata, dopo il 1975?Eppure. Eppure il solo soggetto che può introdurre dei cambiamenti nella tv, nell'arco non dei decenni ma degli anni, è il sistema politico. Ci sono poche speranze che succeda, ma di là bisogna passare. Con presupposti ovvi, che in questo Paese sembrano eresie:
A - Non sta scritto da nessuna parte che un solo soggetto, pubblico o privato che sia, debba avere più di una rete; anzi, sarebbe normale che ciascuno ne avesse al massimo una, così sei o sette canali nazionali significano sei punti di vista almeno un po' differenti.
B - Servizio pubblico è una cosa, azienda pubblica un'altra; si può affidare un servizio pubblico anche a un'azienda privata, se si impegna a raggiungere obiettivi che le vengono fissati (di qualità, di audience) nel rispetto delle regole definite dal Parlamento.
C - La normativa che regola il sistema televisivo va pensata per i decenni a venire, non per i prossimi mesi.
D. - "You may say I am a dreamer...".

Nessun commento: