mercoledì 19 agosto 2009

Le radici reali della crisi finanziaria

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... non è un problema di regole e di libertà del mercato...
E' la miopia della "distruzione creativa" schumpeteriana.
E' nel fine la differenza!


Francesco Scacciati *
* insegna Politica economica all’Università di Torino.

Negli anni ’70 il nuovo fenomeno della stagflazione (stagnazione + inflazione) ha messo in crisi la teoria dominante di matrice keynesiana e, con il trait d’union del monetarismo di M. Friedman, ha segnato il ritorno al predominio assoluto nell’accademia così come tra i “consiglieri del principe”, e infine nella “cultura economica diffusa”, dell’economia neoclassica, nelle nuove versioni della Macroeconomia classica (R. Lucas) e del Real Business Cycle (F. Kydland e E. Prescott).

Valga per tutti un esempio: durante l’appena caduta “dittatura neoclassica” i titoli industriali a Wall Street mettevano a segno aumenti significativi quando le statistiche nazionali riportavano aumenti della disoccupazione, in quanto ciò faceva prevedere un calo dei salari reali e dunque un aumento dei profitti: questo rapporto di causa/effetto non si era mai verificato in precedenza, non almeno durante il mite “regno keynesiano”.

Per trent’anni vi è stato un dominio assoluto dei postulati neoclassici (che ha fatto da sponda alla ri-regolazione dell’economia a vantaggio delle classi dominanti), e cioè che a) il mercato crei sempre da sé l’equilibrio, purché non disturbato da interventi pubblici che ne distorcono l’armonia, b) la globalizzazione porti solo vantaggi per tutti, c) le variabili monetarie abbiano solo effetti nominali e non reali, d) è inutile preoccuparsi della disoccupazione involontaria “…because there is no such thing” (R. Lucas, premio Nobel per l’economia nel 1995 e attualmente presidente dell’American Economic Association), e infine, e) una riduzione delle imposte (e il conseguente calo della spesa per opere pubbliche e servizi pubblici) favorisca una più corretta allocazione delle risorse.

Le ricette liberiste di politica economica hanno portato alla fine degli anni ’20 a una gravissima recessione, durata 10 anni, che ha implicato pesantissimi danni economici e sociali, in termini di reddito e occupazione.

Ottant’anni dopo è accaduto qualcosa di molto simile. Dopo altri trent’anni di dittatura neoclassica la recessione è arrivata. I mercati (compreso quello finanziario) lasciati completamente liberi provocano fortissime disparità nella distribuzione del reddito: negli ultimi vent’anni, il potere di acquisto del salario medio, nei paesi occidentali a capitalismo avanzato, è rimasto più o meno invariato, in presenza di aumenti del reddito reale oscillanti tra il 20% (in Italia) e il 66% (in USA), il che implica un’imponente spostamento della distribuzione del reddito dai lavoratori ai percettori di profitti nel loro insieme – in senso lato: imprenditori, liberi professionisti, commercianti, lavoratori autonomi (anche se non di tutti, ovviamente) – e di rendite, ovvero alle altre due componenti del valore aggiunto nazionale.

La distribuzione del reddito non è qualcosa di completamente disgiunto dalla democrazia. Anzi, una distribuzione del reddito sufficientemente equa da non tagliare fuori nessun cittadino dalla possibilità (o dalla capacità, come direbbe A. Sen) di usufruire di fatto dei diritti intrinseci a una società democratica ne è un presupposto necessario. Certo, la maggioranza può legittimamente ritenere che in un paese ci siano troppo welfare, troppe tasse, troppo Stato e cambiare le cose tramite la libera espressione del voto. Purtuttavia ci sono dei limiti che non possono essere valicati senza produrre un vulnus alla “democrazia di fatto”: quando la disoccupazione supera determinati livelli, quando non c’è sicurezza sul lavoro, quando una percentuale crescente della popolazione cade al di sotto della soglia della povertà, quando i più essenziali servizi pubblici scendono al di sotto di accettabili livelli quantitativi e qualitativi o scarsamente fruibili da quote crescenti di cittadini, allora tale vulnus si è già verificato. Quando il sistema favorisce la sopraffazione dei più forti sui più deboli, ha già messo in discussione le basi stesse del contratto sociale.

Ora dobbiamo sperare di pagare questa crisi meno cara di quella degli anni ‘30 in termini di durata, caduta dei redditi, perdita dei posti di lavoro e dunque anche in termini di riduzione della “democrazia di fatto”.

Questo sarà possibile solo se saranno interpretate correttamente le dinamiche e i rapporti causa – effetto di quanto sta accadendo.

1. Le disparità nella distribuzione del reddito sopra descritte producono una recessione per insufficienza di domanda aggregata (i percettori di redditi più alti hanno, mediamente, una propensione al consumo più bassa: ciò crea più risparmi e, inizialmente, più investimenti, ma fa mancare il potere d’acquisto ai consumatori che dovrebbero essere i destinatari delle merci prodotte). Le imprese, in crisi di sovrapproduzione, riducono le quantità prodotte, e di conseguenza l’occupazione, per adeguare l’offerta alla domanda; ma riducendo l’occupazione riducono ulteriormente la domanda aggregata che sarà nuovamente più bassa dell’offerta nonostante quest’ultima sia stata ridotta. Segue un ulteriore calo di produzione e occupazione e così via, con una conseguente paralisi degli investimenti (perché produrre di più se già così parte della merce rimane invenduta?). Le prime a fallire sono, di conseguenza, le imprese che producono beni di investimento, provocando un ulteriore brusco calo dell’occupazione. In un primo momento i prezzi possono aumentare, perché i produttori-venditori cercano in questo modo di recuperare i livelli dei profitti precedenti; quando però i prezzi cominciano a calare per il perdurare dell’insufficienza della domanda, la recessione si trasforma in depressione economica, perché i compratori rinunciano ad acquistare oggi in attesa di acquistare domani (o, meglio, dopodomani) a prezzi più bassi, con una conseguente, ulteriore, riduzione della domanda aggregata.

2. Come sopra accennato, questo processo è iniziato negli anni ‘70, in parallelo con le crepe apertesi nella teoria keynesiana, ritenuta non più in grado di spiegare i nuovi fenomeni macroeconomici e, di conseguenza, non in grado di risolvere i problemi. Si riafferma la teoria neo-classica basata su postulati di perfetta informazione e razionalità, anziché sull’incertezza, sull’asimmetria e incompletezza dell’informazione e sulla razionalità limitata di matrice keynesiana. La nuova teoria “classica” ha un aspetto curioso: si presenta come scienza (anche grazie al sovrabbondante uso di strumenti matematici) ma in realtà è una fede!

La Thatcher in nel Regno Unito e Reagan in USA sono contemporaneamente l’effetto della nuova ideologia imperante e lo strumento della sua implementazione e diffusione: l’azzeramento della capacità produttiva in molti settori strategici dell’economia britannica (con il conseguente annientamento del potere delle leggendarie trade unions inglesi), che è andata trasformandosi in un’economia di carta, e la (ri)affermazione del sogno americano, per cui ciascuno può puntare a essere il primo e diventare miliardario, senza bisogno del sostegno di nessuno, meno che mai del welfare pubblico, finanziato “mettendo le mani in tasca ai contribuenti”. (Ovviamente, solo pochissimi saranno tra i primi e diventeranno miliardari: a tutti gli altri un po’ di welfare non dispiacerebbe ma… ormai è tardi e non ci sono i soldi).

E così la “nuova ideologia” (si fa per dire, in realtà è vecchia di 150 anni) porta dal lato strettamente economico a ritenere che “la presenza del governo nell’economia non è la soluzione, bensì è il problema”, e dal lato politico-internazionale a ritenere che la guerra fredda non sia destinata a un eterno 0 a 0, ma che possa essere vinta. Ma si può anche azzardare una lettura in direzione opposta: la debolezza interna dell’URSS, determinata dalla paresi dello sviluppo sia economico che ideologico del dopo-Krusciov, fa intravedere alle potenze occidentali la possibilità di vincere la guerra fredda e da ciò consegue il ripristino di una teoria economica più idonea al trionfo su tutta la linea del capitalismo e a una resa senza condizioni del socialismo reale. Di fatto comunque l’URSS collassa, sparisce la concorrenza militare-politica-ideologica, si afferma la globalizzazione nel contempo politica, economica e ideologica. La nuova versione del paradigma neoclassico, e cioè il cocktail liberismo-globalizzazione, pone da un lato le basi per una moltiplicazione dei guadagni finanziari, essendo in grado di spostare capitali da un mercato all’altro in tempi tendenti a zero, ma dall’altro lato pone l’industria occidentale in concorrenza con l’industria nascente di paesi dove si produce pagando il lavoro a dollar a day e dove i diritti sindacali, le garanzie e la sicurezza sul lavoro e del lavoro sono concetti sconosciuti. Si restringono di conseguenza gli spazi per la produzione di massa nei paesi occidentali e dunque cade l’occupazione nel settore industriale. Parte della produzione residua si delocalizza o si giova di lavoro precario, dunque ricattabile e malpagato.

3. Dopo gli entusiasmi iniziali, però, cominciano i guai: lo spazio produttivo per le economie occidentali si restringe sempre più: cinesi e indiani si dimostrano in grado di produrre non solo T-shirts e cavatappi, ma anche automobili, elettrodomestici, e infine prodotti hightech (gli USA erano già in rosso nel 2000 con la Cina nella componentistica per computers e rischiano di esserlo presto con l’India anche nel software). Anche se non si è ancora trovato quale sia il livello di rottura, certamente il settore dei nontradables non può espandersi senza limiti ai danni di quello dei tradables, in quanto se questi vengono in massima parte importati, non vi è nulla con cui scambiarli, se non con titoli di credito (che però hanno il difetto di scadere, prima o poi). I prodotti di nicchia non possono essere che una soluzione transitoria e senza sbocco, in quanto da un lato anche il loro spazio viene vieppiù ridotto dalle crescenti capacità tecnologiche, innovative e culturali dei paesi emergenti, dall’altro hanno una capacità occupazionale molto ridotta rispetto alla forza lavoro presente in nazioni di grandi dimensioni.

4. L’attuale crisi economica è dunque prima reale, seppur strisciante: il tentativo di sostituire la perduta solidità dell’economia reale con il boom della finanza non poteva che avere le gambe corte: le bolle speculative dopo un po’ scoppiano e così facendo aggravano e mettono a nudo la crisi reale, ma questa, come si è detto, preesiste al crollo finanziario. Anzi, ne è una concausa, in quanto il ridotto reddito di strati sempre più ampi della popolazione è causa dapprima degli acquisti a credito e poi della mancata possibilità di onorarlo. L’insufficienza del potere di acquisto di vaste fasce della popolazione spinge il sistema a incoraggiare gli acquisti a credito, per trovare comunque uno sbocco alla produzione. Il bene sul quale si sono maggiormente concentrati tali acquisti è stata la casa, in quanto aveva l’apparenza di una garanzia reale sul debito. La concentrazione degli acquisti su un solo bene ne ha fatto lievitare il prezzo, dando così l’impressione a tutti coloro che già l’avevano acquistato di moltiplicare il proprio patrimonio e di spingere gli altri ad acquistarlo al più presto per salire in tempo sul treno della fortuna. E’ dunque un errore di prospettiva, dovuta alla tendenza a vedere solo ciò che accade nell’immediato e finisce sulle prime pagine dei giornali, ritenere che sia stata la crisi dell’economia di carta a innescare effetti negativi nell’economia reale: è la crisi dell’economia reale che ha creato la necessità di gonfiare bolle speculative per spazzare sotto il tappeto i suoi effetti negativi, sui profitti da un lato e sull’occupazione (e dunque sul consenso) dall’altro. In seguito, il crack finanziario si è riflesso sull’economia reale, aggravandone e manifestandone la crisi.

L’aumento del risparmio – derivante dallo spostamento della distribuzione del reddito, via profitti e rendite, a favore delle fasce più abbienti – non solo ha spinto parte del maggior risparmio ad abbandonare la “naturale” destinazione, che è quella di finanziare gli investimenti (e che è la giustificazione etica del profitto nell’economia classica, come già sottolineava Adam Smith) per insufficienza della domanda aggregata, ma ha anche spinto i gestori di tale risparmio “finanziarizzato” a una concorrenza sempre più esasperata per accaparrarselo. Ecco dunque il senso dell’emissione di titoli subprime, che da un lato, essendo ad alto rischio, offrivano anche alti rendimenti, e dall’altro fornivano un (effimero) potere d’acquisto a chi non ne avrebbe avuto, sostenendo così la domanda alla base delle principali bolle speculative. Questo meccanismo-produci-soldi ha funzionato benissimo per un po’ spingendo l’aumento dell’indebitamento di ampi strati poco abbienti della popolazione, soprattutto negli Stati Uniti ben al di là dell’aumento di risparmio che lo aveva generato.

5. Occorrono accordi internazionali: a) per uno sviluppo più ordinato ed equilibrato dei paesi emergenti; b) per aggregare al carro del loro sviluppo anche i dropouts, e cioè tutti quei paesi che hanno perso il treno del boom economico dell’ultimo quindicennio (che sono, tra l’altro, un’ampia maggioranza, dato che comprendono praticamente l’intera Africa sub-sahariana); c) per regolamentare, a livello sia bilaterale sia multilaterale, uno sviluppo bilanciato del commercio internazionale, che non provochi il tracollo occupazionale nei paesi a costo (e tutela) del lavoro più alto e il riempirsi dei forzieri di titoli di credito, che rischiano di diventare inesigibili, da parte dei paesi con costo (e tutela) del lavoro più basso.

6. Occorrono inoltre accordi internazionali tra i paesi OCSE per puntare concordemente e uniformemente a uno sviluppo sostenibile con particolare rilievo per l’ambiente e fonti energetiche alternative e un più efficiente utilizzo di quelle tradizionali. Tali accordi sono necessari e devono essere sia generali sia sanzionabili, in quanto i paesi che non aderissero o violassero i patti sottoscritti, si troverebbero in una situazione di vantaggio rispetto alla competitività delle merci prodotte al loro interno, spingendo così tutti gli altri a comportarsi nel medesimo modo, vanificando qualsiasi accordo.

7. La fiducia di cittadini, produttori e operatori finanziari si ripristina attraverso la ricostruzione di un’economia reale solida, seppure (anzi, pertanto…) crescente a ritmi meno impetuosi di quelli dei decenni passati. Tale economia, se pur di mercato e connotata dalla libera iniziativa, sarà controllata (soprattutto nel campo finanziario) e compartecipata dall’economia pubblica. Se gli operatori si sentono protetti opereranno con maggior fiducia. La presenza pervasiva dell’incertezza – definita come rischio non misurabile – nei meccanismi dell’economia, è forse il principale contributo di Keynes alla teoria economica. Totalmente ignorata (anzi, negata) dall’economia neoclassica l’incertezza è invece una sorta di virus sistematicamente attivo, i cui sintomi sono una debolezza cronica degli investimenti, con la minaccia che questi siano inferiori ai risparmi e dunque il rischio della recessione aleggia costantemente sull’economia capitalista. Tutto ciò giustifica l’intervento pubblico nell’economia e non è un problema il fatto che il debito pubblico cresca costantemente nel tempo, fintantoché nel lungo periodo sia mantenuto costante il rapporto debito/PIL, che, nel breve, può aumentare durante i periodi di recessione e ridursi durante i periodi di boom. Gli stimoli pubblici all’economia dovranno assumere molto più la forma di interventi diretti (opere pubbliche, servizi pubblici, con istruzione e sanità ai primi posti) piuttosto che non di riduzioni di imposte, meno efficaci sul piano moltiplicativo: e a poco valgono a questo proposito gli argomenti degli “interventisti tiepidi”, disposti sì ad ammettere la possibilità per il governo di sostenere la domanda aggregata, ma sempre molto attenti a pretendere prove inoppugnabili degli effetti espansivi degli aumenti della spesa per servizi e opere pubbliche – e del conseguente maggior deficit di bilancio – prove che invece non chiedono mai quando invece sono all’ordine del giorno riduzioni fiscali.

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