mercoledì 19 agosto 2009

Le democrazie degli altri

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Forme tradizionali di autogoverno politico e democrazia in America latina e Africa sub-sahariana

di Davide Grassi *

* Davide Grassi insegna Scienza politica all’Università di Torino.

In questo breve articolo analizzeremo alcune esperienze tradizionali di autogoverno politico sviluppatesi al di fuori dei paesi occidentali più sviluppati, cercando di capire se, e in quale misura, tali esperienze si possano dire compiutamente democratiche. Una risposta al quesito, per quanto preliminare, dovrebbe poggiare innanzitutto su una definizione possibilmente chiara e condivisa di cosa costituisca una democrazia “genuina”, poi su un’analisi empirica di tipo comparato. Della democrazia offriremo a seguire una definizione che abbraccia sia gli aspetti procedurali che quelli sostanziali. Cercheremo poi di affrontare l’ argomento da un punto di vista empirico: per giungere al nocciolo della questione, esistono esempi contemporanei di autogoverno tradizionale almeno in apparenza democratici, fuori dall’Occidente? E possiamo considerare tali esperienze soddisfacenti, dal punto di vista delle principali libertà e dei diritti propri di una democrazia?

Spesso non si è sufficientemente precisi nel delineare le forme tradizionali di autogoverno politico che assumerebbero natura democratica in contesti non occidentali, rendendo difficile capirne caratteristiche e dinamiche e, di conseguenza, valutarne le potenzialità. Ad esempio, alcuni studiosi di civiltà sub-sahariane fanno riferimento ad esperienze politiche, in genere anteriori alla seconda guerra mondiale, che dimostrerebbero l’esistenza di istituzioni e pratiche affini a quelle democratiche. Sebbene plausibile, l’argomentazione non è sufficiente a suffragare la tesi di una “democrazia africana”. Più realisticamente, si dovrebbe forse parlare di un misto di rudimenti e pratiche democratiche, da un lato, e pratiche e tendenze aristocratiche, autocratiche e/o militariste, con vari gradi di dispotismo, dall’altro. Il colonialismo, insomma, avrebbe scatenato una tale violenza, discriminazione e sfruttamento che gli africani, giovani e vecchi, istruiti e non istruiti, si sono rapidamente dimenticati della violenza e delle pratiche non democratiche dei loro governanti tradizionali. Così il passato viene dipinto come un mondo di felicità, armonia e democrazia.

Una ricognizione empirica accurata, dunque, è importante. In questa sede proporrò, a scopo di prima riflessione, un paio di esempi tratti dall’esperienza politica dell’area sub-sahariana e di quella centroamericana. Non ho, ovviamente, pretese di completezza, ma solo l’intenzione di aprire un dibattito su un tema vasto e di interesse generale.

Iniziamo dall’Africa: in Ghana, Repubblica sudafricana e Botswana, la Camera alta del Parlamento viene denominata House of Chiefs (Camera dei Capi) ed è composta dai capi tribù. In Botswana, ad esempio, tale istituzione, riconosciuta formalmente da una Costituzione di tipo occidentale, è consultiva e competente in materia di diritti e consuetudini delle comunità native, specialmente quelli relativi alla terra. Funziona, inoltre, come tribunale supremo del diritto consuetudinario. L’importanza giurisdizionale della House of Chiefs e dei tribunali locali tradizionali, che ne costituiscono la base, è indiscutibile: l’ottanta percento dei casi penali e il novanta percento di quelli civili sono decisi proprio in queste sedi. L’assemblea rappresenta, insomma, una sintesi tra istituzioni e tradizioni politiche locali e un modello di democrazia occidentale classico: riconosce la centralità dei capi tribù, il loro prestigio sociale e potere politico, nell’ambito di in un sistema giuridico costituzionale di tipo occidentale che, almeno formalmente, conserva la supremazia.

Un secondo esempio riguarda i cosiddetti Consejos asesores indígenas (consigli consultivi indigeni) introdotti in Guatemala all’inizio del decennio in corso, per rafforzare la rappresentanza della maggioranza della popolazione di quel paese, di origine Maya, da sempre politicamente e socialmente emarginata. I Consejos sono composti da rappresentanti delle comunità tradizionali locali, scelti secondo i propri principi, valori, norme e procedure. Ha valore consultivo ed opera localmente. Altra forma di potere politico tradizionale sono le Alcaldias indígenas (municipi indigeni) con sindaci indigeni, eletti dalla comunità. In entrambi i casi si tratta di organizzazioni parallele che convivono con le istituzioni democratiche tradizionali a vari livelli statuali. L’unità di base di tali organi è costituita dalle famiglie nucleari, che sono obbligate a soddisfare gratuitamente una serie di obblighi comunitari, le faenas, a pagare contributi monetari per le opere di infrastruttura e ad assumere vari incarichi politici ad intervalli regolari.

Come valutare tali esperienze di autogoverno, almeno in apparenza “democratico”? Rappresentano una possibile alternativa alla democrazia “nostrana”? In questa sede, come ho anticipato, userò due criteri di valutazione di una democrazia “genuina”, uno procedurale e l’altro sostanziale. Il primo è basato sulla partecipazione e sul contraddittorio politico, cioè sulla presenza de jure e de facto di libertà, trasparenza e lealtà nella competizione elettorale, orientata a designare coloro che governeranno il paese, e di alcune fondamentali libertà politiche e civili. Il secondo invece si centra sulla capacità del governo di garantire un soddisfacente welfare sociale, di salvaguardare e consolidare il “bene comune” della collettività. I due criteri raccolgono il consenso di gran parte di coloro che si occupano di questi temi, che si riconoscono in genere nell’uno o nell’altro (o più spesso in entrambi). Iniziamo dal criterio procedurale. Per semplicità mi limiterò qui a discutere della dimensione della partecipazione al processo decisionale, l’inclusività del sistema politico, che nell’esperienza politica occidentale corrisponde, nella sua forma istituzionale più essenziale, all’universalità del suffragio elettorale.

Nell’Africa sub-Sahariana i limiti della partecipazione alle assemblee di villaggio sono evidenti e riguardano specialmente alcuni ben definiti gruppi sociali: le donne, i giovani, i disabili, gli immigranti e i più poveri hanno sempre palesato grande imbarazzo e difficoltà ad esprimersi liberamente nell’assemblea. Tra i Maya del Guatemala l’appartenenza alla comunità politica locale si basa sulla nozione di “rispetto” che, come si è detto, deriva innanzitutto dal partecipare a una serie di incarichi e lavori assegnati dai capi tradizionali e da espletare gratuitamente. Nonostante la dimensione chiaramente comunitaria di questa forma di associazione politica, e dei valori che la animano, vorrei sottolineare che ciò non impedisce una mancanza di empatia nei confronti di coloro che sono in qualche modo diversi, o semplicemente incapaci di assumere e mantenere il ruolo di “persona rispettata” nella comunità. Ad esempio, chi non lavora non ha diritto al “rispetto” e a esprimere un’opinione. Perde cioé la titolarità dei diritti politici. I valori comunitari, paradossalmente, finiscono con il generare un individualismo duro, con poca comprensione per coloro che, per diversi motivi, non riescono ad accumulare “rispetto”.

Eppure non mancano in questi sistemi elementi, anche robusti, di democraticità. I leader politici tradizionali sono scelti con votazione segreta, dopo una discussione franca ed aperta sui meriti di due o più candidati, in una assemblea generale cui partecipano tutti i "figli della comunità" (il maschile in questo caso non è ovviamente casuale). Con gravi lacune, però. Molto frequentemente tale scelta è influenzata in modo decisivo da un gruppo di anziani, che di fatto rappresentano i maggiorenti del cantone. E se oggi in genere le donne partecipano alle votazioni dell’assemblea, sono ancora rarissimi i casi in cui queste hanno assunto incarichi di governo. In sintesi, in questi esempi di autogoverno politico sviluppatisi in paesi ed ambiti non occidentali, a livello sia locale che nazionale, esiste un grave problema di esclusione dalle decisioni di alcuni gruppi sociali, specie i più deboli. Donne, giovani, disoccupati e poveri non sono spesso ammessi pienamente alla deliberazione e, di fatto, tendono a non partecipare, perpetuando una esclusione che solo di recente, e in forma ancora iniziale, sembra mostrare qualche segno di indebolimento (a dimostrazione che, comunque, anche all’interno di formazioni politiche “tradizionali”, la tradizione stessa è continuamente forgiata e modificata dall’azione e dalla partecipazione dal basso).

Passando al secondo criterio di valutazione, quello “sostanziale”, notiamo che le forme di autogoverno politico tradizionale e non occidentale sono frequentemente giustificate in nome di una maggiore capacità di garantire una più alta giustizia, specie sociale, rispetto alla democrazia “occidentale”, percepita da alcuni come vuota procedura formale, incapace di offrire prestazioni e benefici altrettanto convincenti. La concezione comunitaria, su cui spesso tali governi indigeni si basano, permetterebbe infatti di tutelare beni e risorse della comunità che sarebbe forse più difficile salvaguardare in un ambito e con metodi derivati più direttamente da concezioni e pratiche democratiche “occidentali”. Ad esempio, in Africa sub-sahariana spesso la terra appartiene all’intera tribù e ogni famiglia partecipa alla sua distribuzione: in alcune occasioni, gli organi di autogoverno tradizionale hanno rifiutato la vendita delle terre collettive proprio adducendo la necessità di tutelare le famiglie più povere, che avrebbero in questo modo perso ogni fonte di sostentamento.

Tuttavia, anche da questo punto di vista non mancano aspetti preoccupanti. In Botswana, ad esempio, prevale il diritto consuetudinario, cioè il diritto forgiato e applicato dalle assemblee tradizionali e definitivamente interpretato e fatto valere dalla House of Chiefs. Le risorse fondamentali come la terra e il bestiame sono normalmente distribuite a famiglie e lignaggi attraverso la figura dei rispettivi capi, in genere patriarchi e comunque sempre uomini. Il diritto costituzionale più recente inoltre convive con quello coloniale e con il consuetudinario, con confini spesso difficili da tracciare con chiarezza. In particolare, l’ambito familiare, inclusa la distribuzione della proprietà per successione, è in genere governato dal diritto consuetudinario, anche quando esiste un diritto costituzionale di tipo occidentale (che, di regola, garantisce qualche misura di parità tra i sessi) e nonostante gli obblighi assunti in qualche caso dallo stato con la firma di trattati internazionali che garantiscono tale parità. In Guatemala, per di più, il diritto tradizionale indigeno a volte calpesta principi di libertà e garanzie personali posti a cardine delle democrazie occidentali. Ad esempio, in forza della concezione collettiva dei diritti prevalenti in tali società, i verdetti emessi dai tribunali tradizionali si applicano non solo nei confronti di chi ha commesso un delitto, ma anche dei componenti della sua famiglia. In sintesi, valutando la capacità di alcuni governi retti da forme tradizionali di “democrazia” di assicurare il benessere sociale collettivo ed una giusta distribuzione dei costi e benefici legati all’appartenenza alla comunità politica, è ragionevole concludere che le modalità con cui le risorse materiali e spirituali vengono di fatto distribuite appaiono in molti casi inaccettabili ed ingiuste.

Non possiamo infine non sottolineare che coloro che più sono discriminati nella distribuzione di tali risorse sono quegli stessi gruppi sociali che vengono più o meno sistematicamente esclusi dalla partecipazione al processo deliberativo nella comunità. I due aspetti che vengono spesso utilizzati per interpretare la democrazia, quello procedurale e quello sostanziale, sono forse meno distanti di quanto appaia a prima vista e la loro contrapposizione è almeno in parte artificiosa. La democrazia è una conquista di chi, escluso socialmente e politicamente, lotta per una inclusione più piena nel processo politico. Una più ampia partecipazione politica migliora anche le condizioni economiche e le prospettive di vita dei gruppi in precedenza emarginati: l’emergere del social welfare in Occidente è ovviamente legato al processo di inclusione progressiva della classe operaia e dei partiti politici che la rappresentavano.

Una obiezione, tuttavia, si impone immediatamente. Non abbiamo, nell’analisi che precede, accettato forse un po’ troppo frettolosamente una comparazione superficiale e ingiusta, tra alcuni principi della democrazia occidentale, da un lato, e le pratiche concrete, necessariamente incomplete e insoddisfacenti, delle forme tradizionali di autogoverno non occidentale, dall’altro? Siamo così sicuri, in fin dei conti, che la scarsa partecipazione femminile sia un retaggio di forme tradizionali di autogoverno e non invece una diffusa cultura sociale e politica, che finisce con il coinvolgere anche le più moderne forme di democrazia “occidentale”? Insomma, se modalità tradizionali di pensiero costituiscono l’eredità culturale prevalente in certi paesi, allora le forme, le istituzioni e le pratiche assunte dalla loro politica non possono far altro che ripeterne la sostanza, siano tali forme in apparenza moderne democrazie o più vetuste e tradizionali assemblee di villaggio.

Anche in questo caso possiamo contribuire ad un approfondimento del tema usando gli strumenti della comparazione. La domanda allora sarà, per rimanere all’esempio della partecipazione femminile: esiste un divario significativo di performance su questo tema tra i sistemi politici democratici e quelli più tradizionali, nei paesi che qui ci interessano? In tali paesi, infatti, come si ricorderà queste due forme di governo convivono da un certo tempo. Utilizzeremo alcuni dati sulla presenza femminile nei rami bassi del Parlamento per misurare la partecipazione delle donne nel sistema democratico di tipo “occidentale”, con l’obiettivo di verificare se anche in questo contesto l’esclusione continui ad essere la regola. In Botswana, tale proporzione si aggira attorno al 12 percento, in Guatemala all’11. Una presenza significativa, ma la cui portata complessiva è difficile da valutare. E’ tanto, è poco? Per dare un’idea un po’ più precisa, ricordiamo che in Italia i seggi occupati dalle donne nella Camera dei Deputati sono circa il 20 percento del totale. Certamente più sintomatico appare, a questo fine, il dato della Repubblica sudafricana nella quale, come si ricorderà, vige il sistema delle assemblee di villaggio e della House of Chiefs. In questo paese l’incremento della rappresentanza femminile nella Camera bassa è stato notevole, passando dal 3 percento nel periodo precedente il 1994, segnato dai regimi dell’apartheid, al 33 percento attuale, una delle cifre più alte al mondo. Non mancano pertanto segni che indicano un impatto positivo del sistema politico democratico, che va in qualche misura oltre le culture politiche locali e tradizionali, e una sua capacità di garantire in modo più completo alcuni fondamentali diritti politici e sociali, capacità che sembra latitare in alcune forme tradizionali di partecipazione politica indigena.

In conclusione, gli esempi di autogoverno tradizionale che abbiamo tracciato, pur esibendo alcune componenti democratiche, presentano anche gravi lacune sia negli aspetti procedurali, non consentendo o ostacolando la piena partecipazione di una nutrita schiera di gruppi sociali, che in quelli sostanziali, comportando lesioni anche profonde di diritti relativi al welfare sociale e individuale. Ciò non significa che la democrazia occidentale debba diffondersi nelle sue forme originali, senza che la cultura e i costumi locali possano indicarne modalità e forme alternative. Gli ibridi che ne potranno sorgere alimenteranno per molto tempo accese dispute e controversie sui loro contenuti, che potranno essere ritenuti più o meno genuinamente democratici: il dialogo tra culture che ne risulterà sarà, tuttavia, salutare nel processo di continuo aggiornamento ed evoluzione del modello democratico, processo inevitabile e destinato a perpetuarsi nel tempo.

Per saperne di più

Davidson, B. (1992), The black man’s burden. Africa and the curse of nation-state, Oxford, James Currey.

Ekern, S. (2002), Normatividad y figuras sociales. Una exploración de los contrastes entre el derecho comunitario indígena de Totonicapán, Guatemala, y los derechos humanos, relazione presentata al «Tercero congreso de la red latinoamericana de antropología jurídica», Quetzaltenango, Guatemala, 10 agosto 2002, disponibile al sito web http://www.geocities.com/relaju/Mesa2.doc .

IDEA, International Institute for Democracy and Electoral Assistance, http://www.quotaproject.org/.

Sharma, K. C. (2003), Traditional Leadership and Rural Local Government in Botswana, in D. I. Ray e P. S. Reddy (a cura di), Grass-roots Governance? Chiefs in Africa and the Afro-Caribbean, Calgary, University of Calgary Press, 2003.


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